Alla ricerca di Amleto. Boitani interprete di Shakespeare
di Ludovico Cantisani
“Ora, su un’immensa terrazza di Elsinore, che va da Basilea a Colonia, si spinge fino alle sabbie di Newport, alle paludi della Somme, ai calcari della Champagne, ai graniti dell’Alsazia, l’Amleto europeo contempla migliaia di spettri. Ma è un Amleto intellettuale. Medita sulla vita e sulla morte delle verità. I suoi fantasmi sono tutti gli oggetti delle nostre controversie, i suoi rimorsi tutti i titoli della nostra gloria; è oppresso dal peso delle scoperte, delle conoscenze, incapace di rimettersi a questa attività illimitata”. Così scriveva Paul Valèry a inizio Novecento, e, replicando l’operazione compiuta sull’eroe omerico ne L’ombra di Ulisse, adesso Piero Boitani, professore emerito della Sapienza e tra i massimi esperti di mitologia classica e di letteratura inglese, si ripromette di rintracciare le numerose metamorfosi dell’eroe shakespeariano nell’immaginario occidentale, dal Seicento fino ad oggi o meglio a ieri, dal momento che il suo In cerca di Amleto si conclude col Novecento, per poi procedere a ritroso a cercare anche le fonti, della più celebre tragedia di Shakespeare nelle Gesta Danorum composte nel Basso Medioevo “in prosa e versi latini eleganti e difficili”.
“Amleto è irresistibile, l’Amleto anche”, scrive Boitani nell’esordio del suo testo – “è possibile afferrare Amleto e tenerlo fermo nelle proprie mani?”. Come in tutti i grandi classici, “i vuoti e gli eccessi nella narrazione originale chiedono di essere riempiti o spiegati: ri-scrittori e interpreti compiono l’opera”. Opera aperta, opera scoperta, opera terminata dall’interpretazione interminabile, affrontare l’Amleto con lo sguardo di chi per tutta la vita si è occupato di letterature comparate permette di ricordare, in rapida successione, i più variegati esponenti della cultura occidentale che, per un motivo o per un altro, in qualche frammento della loro opera hanno fatto riferimento a Shakespeare in senso elogiativo o, più spesso, critico.
Se è vero che l’Amleto è al tempo stesso la più influente e la più imperfetta delle tragedie shakesperiane, Boitani passa in rassegna le critiche di Tolstoj a Shakespeare, i dubbi di Schlegel a riguardo, con tutto che riconosce che l’Amleto, “unico nella sua specie, è la tragedia del pensiero”, il dibattito a distanza, e, nel caso dell’ebreo, anche postumo, tra il filosofo-cabalista “post-ebreo” Walter Benjamin e il filosofo-giurista ex-nazista Carl Schmitt a proposito del personaggio shakespeariano per antonomasia. Se Coleridge riconduceva il complesso carattere, perennemente esitante, del personaggio di Amleto “al profondo e accurato sapere di Shakespeare nella filosofia mentale”, Freud non tardò, subito dopo aver teorizzato l’Edipo a partire da una delle più grandi tragedie antiche, ad applicarlo anche al protagonista di una delle più grandi tragedie shakespeariane. “Se qualcuno vuole dare ad Amleto la denominazione di isterico, posso accettarla solo come corollario della mia interpretazione…”, scriveva Freud al termine della sua analisi del personaggio shakespeariano, ne L’interpretazione dei sogni. Con maggiore ironia si mosse James Joyce, pochi anni dopo Freud, parodiando “tra il teologico e il filologico” ogni riflessione su Amleto, su Shakespeare, sulla paternità dell’Amleto, sul padre di Amleto e anche sul padre di Shakespeare e poco ci manca anche su Omero in uno dei momenti maggiormente metaletterari dell’Ulisse, che proprio quest’anno ha fatto cent’anni.
Particolarmente interessante e prezioso, nel libro di Boitani, è il recupero delle riflessioni su Amleto che Hegel ha disseminato tra la Fenomenologia dello Spirito e, soprattutto, la postuma Estetica, evidenziando le affinità evidenti tra la tragedia di Amleto e quella di Orese, ma argomentando che il dramma shakesperiano ha uno sviluppo totalmente diverso perché l’ethos stesso della vendetta è cambiato, e da legittimo com’era nell’antichità greca è diventato un crimine infamante. Un’altra sorpresa che comporta la lettura di In cerca di Amleto di Boitani proviene dalle pagine con cui Turgenev confronta Amleto e Don Chisciotte: “se in Amleto il principio dell’analisi è spinto fino alla tragicità”, si leggeva in un saggio del 1860, “nello stesso modo in Don Chisciotte il principio dell’entusiasmo è condotto fino alla comicità: ma nella realtà sia il comico sia il tragico raramente si trovano allo stato puro”. Anche Nietzsche più volte ha parlato di Shakespeare e del suo Amleto, ma più che le singole osservazioni in materia vale la stringatissima sintesi che della tragedia shakespeariana il filosofo tedesco traeva ne La nascita della tragedia: “la conoscenza uccide l’azione, per agire occorre essere avvolti nell’illusione”, in quell’esaltazione nietzschiana dell’oblio tanto analizzata da Pierre Klossowski. “In questo senso l’uomo dionisiaco è simile ad Amleto”, argomentava Nietzsche nel suo primo, importante libro: “entrambi hanno gettato una volta uno sguardo vero nell’essenza delle cose, hanno conosciuto, e provano nausea di fronte all’agire, giacché la loro azione non può mutare nulla nell’essenza delle cose, ed essi sentono come ridicolo o infame che si pretenda da loro che rimettano in sesto un mondo che è fuori dai cardini”.
Al di là dei nomi più blasonati del canone della letteratura occidentale, una delle affermazioni più definitive su Shakespare l’ha fatta la studiosa nostrana Nadia Fusini, giustamente menzionata da Boitani nel suo saggio: “nello stesso secolo di Cartesio, Shakespeare scopre come il pensiero venga incontro al soggetto attraverso una mediazione essenziale, quella del fantasma – il fantasma dell’altro”. Ma Amleto non mette in scena unicamente l’alterità presente in ogni relazione, quella dinamica un po’ freudianizzabile un po’ lacanianizzabile che si instaura tra il protagonista e il fantasma paterno: in un gioco di specchi, la tragedia di Shakespeare ci mostra come la scena stessa inizi a scricchiolare, lasciando emergere il sospetto che la vita stessa altro non sia che un pezzo di teatro durato troppo a lungo, troppo lento, troppo verboso. La scena in cui Amleto chiede alla compagnia teatrale appena arrivata a corte di mettere in scena uno spettacolo che dovrebbe mettere il re Claudio faccia a faccia con le sue colpe è un vero e proprio punto di svolta della drammaturgia occidentale. “Perché ci inquieta che Don Chisciotte sia lettore del Don Chisciotte, e Amleto, spettatore dell’Amleto?”, si chiedeva Borges. “Credo di aver trovato la causa: tali inversioni suggeriscono che se i personaggi di una finzione possono essere lettori o spettatori, noi, loro lettori o spettatori, possiamo essere fittizi”: se spunti in quella direzione già si potevano trovare nelle Baccanti euripidee, è Amleto a sancire definitivamente e inderogabilmente la nascita del metateatro, assieme all’altrettanto celebre battuta del Macbeth per cui la vita non è nient’altro che a tale / told by an idiot, full of sound and fury, / signifying nothing. “Tutta la differenza fra la tragedia antica e la moderna consiste in ciò, in un buco nel cielo di carta”, si leggeva non per nulla ne Il fu Mattia Pascal di Luigi Pirandello, colui che portò il metateatro al suo parossismo.
“No! I am not Prince Hamlet, nor was meant to be”, esclamava T.S. Eliot nei versi de Il canto d’amore di J. Alfred Prufrock – “no! io non sono il principe Amleto, né ero destinato ad esserlo/io sono un cortigiano, sono uno/utile forse a ingrossare un corteo, a dar l’avvio a una scena o due/ad avvisare il principe…”. Se la ripresa del mito classico nel corso del XX secolo non poteva che avvenire sotto il segno dell’abbassamento, della disepicizzazione, a tratti della parodia, come accade nell’Ulisse di Joyce, ogni ritorno all’Amleto comporta un chiasmo, un controsenso, uno scricchiolio, perché proprio la tragedia di Shakespeare ha segnato il momento in cui la figura dell’eroe occidentale ha iniziato a sbiadirsi, a impallidire, il momento in cui il protagonista della tragedia, a furia di andare a caccia di spettri, è diventato spettrale egli stesso, almeno nei confronti della sua tradizionale virilità. Sorprende a dire il vero non trovare nel libro di Boitani nessun particolare riferimento alla temperie dell’esistenzialismo letterario francese ed europeo di metà del Novecento, per quanto le opere dei vari Camus, Sartre e ancor di più Beckett sembrino essere, a uno sguardo archetipico, nient’altro che un commento a Shakespeare, all’esitazione amletica, alla sua aperta interrogazione. Ma in quell’essere o non essere, questo è il dilemma, risuona ben più di un esistenzialismo spiccio, di certa nausea od estraneità di midi siècle: come argomenta Boitani ne In cerca di Amleto, la battuta più celebre della tragedia di Shakespeare è il riassunto ma anche un punto di svolta di tutta l’ontologia occidentale, da Parmenide e Gorgia fino ad arrivare al Faust, anzi, fino ad arrivare ad Heidegger, e a quella differenza essenziale tra Esserci ed Esserci che ancora va portata fino in fondo.
“Parole parole parole”, soggiungeva a un certo punto della sua tragedia Amleto, di fronte ai tanti discorsi vani di Polonio. Come disse Beckett ad Adorno, ogni opera d’arte is a desacration of silence: quasi quattro secoli prima, in un controsenso autolesionista e in fondo suicida, Amleto proprio il silenzio evocava, a suggellare il suo dramma – e da allora, non abbiamo smesso di parlarne.