Antropologia del turchese. Il pantheon di colori di Ellen Meloy
di Angelo Murtas
Nel meraviglioso volume del 1929 dedicato agli dei della Grecia, Walter Otto scriveva qualcosa di ancora molto attuale a proposito dello scarto che nel tempo si è andato formando tra quello che la natura significava per gli antichi e quello che significa per l’uomo contemporaneo, «il raziocinatore, l’ossessionato servo della finalità». Mentre i primi contemplavano con timore la natura solitaria, il secondo ha tentato in tutti i modi di dominarla. «Egli si sente nel pieno possesso della sua scienza e della sua tecnica e sa in breve tempo rendere domestica, comoda e utile anche la contrada più selvaggia. Ma questo fiero trionfatore può investigare fin che vuole: il mistero non gli si manifesta, l’enigma non si risolve, fugge soltanto lontano da lui senza che egli se ne accorga per riapparire ovunque egli non è: la sacra unità dell’immacolata natura, che egli può solo rompere e distruggere, ma giammai capire e ordinare».
Per gli antichi il selvaggio coincideva con il mistero e il mistero con il sacro. Così le montagne, per esempio, nella loro inconsolabile avversità alla vita non avevano nulla da offrire all’uomo e allora diventavano la dimora degli dei. Zeus sull’Olimpo. Efesto sull’Etna. Yahweh sul Sinai. Laddove gli antichi scorgevano dio l’uomo contemporaneo vede piste da sci, chalet di lusso: possibilità. Per riappropriarsi della natura solitaria, oggi, è necessario un cambio di paradigma. Un atto di ribellione. È necessario sottrarsi all’avidità dello sguardo occidentale e tentare di instaurare con la natura un rapporto di devozione, non necessariamente mistico, anche solo confidenziale. È fondamentale individuare una chiave di lettura diversa, un linguaggio in grado di stabilire una forma di comunicazione lontana dai vincoli della tecnica.
La scrittura naturalistica è allora un atto di ribellione. Lo aveva dimostrato Henry David Thoreau nel celebre Walden: resoconto dell’esperienza intima e solitaria dell’autore nei boschi attorno al lago del Massachusetts. L’importanza del saggio di Thoreau fu tale da lasciare alle generazioni successive di scrittori che volessero cimentarsi nel racconto della natura un metodo, quasi un manifesto. Il lascito del Walden è rintracciabile nel volume Antropologia del turchese, pubblicato da Black Coffee nella traduzione di Sara Reggiani, grazie al quale Ellen Meloy arrivò finalista al premio Pulitzer nel 2003, un anno prima della sua morte improvvisa.
Il libro si presenta come una raccolta di saggi nei quali l’autrice intreccia la sua storia personale ai luoghi che l’hanno accolta individuando nello spazio geografico suggestioni emotive e simboliche; invitando a riallacciare col paesaggio un rapporto antico e forse irrimediabilmente perduto. I luoghi sono quelli dell’ovest americano, dall’arido deserto del Mojave ai canyon dello Utah, dalle cime rossastre «affilate come denti di squalo» ai fiumi serpeggianti del Colorado, dalle lagune dello Yucatanfino a un’incursione nelle foreste tropicali delle Bahamas dove «la vegetazione cresceva fitta come i peli sul dorso di un cane, una rocca di umidità imprigionata sotto una calotta di piante ipertrofiche».
L’atto “sovversivo” di Meloy sta nell’affidarsi ai sensi. Con la convinzione che ogni esperienza sensoriale e dunque estatica possa aiutarci a capire e a ordinare il mondo che ci circonda. Prima fra i sensi è la vista, nella misura in cui è capace di assimilare la luce e distinguere i colori; e i colori sono al centro di tutto, sembra volerci suggerire Meloy: in principio erano i colori. Stanno al mondo come le divinità stavano agli antichi e determinano il modo in cui lo decodifichiamo. Sono colori “attivi”, non solo proprietà delle cose, aggettivi volti a classificare. Sono colori-demiurgo, colori-dio, e tutti insieme definiscono il mondo così come lo vediamo. Come divinità antiche sono creati dall’uomo per mezzo della lingua e la loro presenza colma il vuoto aperto dall’ignoto.
Ogni colore ha una sua storia e le storie sono il collante di ogni cultura, scrive Meloy.
Con riferimenti a Goethe, a Kandinsky, con riletture di classici latini come la Naturalishistoria di Plinio il Vecchio, Ellen Meloy imbastisce una specie di cosmogonia cromatica; ogni sforzo è indirizzato alla ricerca di una verità “prima”, dell’archè, al principio di tutte le cose. In questo pantheon di colori il turchese emerge tra gli altri per l’essere inafferrabile, così come inafferrabili erano gli dei.
In bilico tra il verde e l’azzurro deve il suo nome a una particolare pietra che per i nativi americani aveva poteri magici. «La turchese non è un minerale comune, ma ovunque si trova evidenza del fatto che, fin da tempi ormai sepolti in profondità nella Storia, i popoli hanno tentato di estrarla dal suolo per impadronirsi della sua bellezza. Si forma in luoghi aridi, polverosi, luoghi di terra nuda, esposta. Abita esclusivamente la geografia dell’ascetismo, fra rocce spaccate dal sole e sporadica flora. In una palette di desolazione, un frammento di turchese è un foro aperto verso il cielo».
Turchese è il mare attorno alle Bahamas, questo arcipelago multicolore dove Meloy sprofonda sulle tracce di vecchi antenati schiavisti. Turchese sono le piscine che puntellano una California colta dall’alto, quelle piscine che riaccendendo i suoi ricordi d’infanzia sogna di percorrere a nuoto come nel celebre racconto di Cheever. Il passato è tutto ciò che dobbiamo sottrarre all’oblio mentre il presente va colto e scritto per tenerlo in vita, uno sforzo cui Meloy si affida perché, come racconta, in lei aleggia lo spettro di una demenza cronica dovuto a quella che i neurologi chiamano riduzione di acutezza mentale. Turchese, ancora, è il cielo che sovrasta la disperata distesa di rocce, deserto e strapiombi in un angolo del mondo nello Utah, dove Meloy e il suo compagno hanno deciso di stabilirsi al riparo dalla frenesia urbana.
L’abitare non è un affare da poco. A determinarlo è il nostro rapporto con l’ambiente e il modo in cui decidiamo di osservarlo. «In che modo la vista, questa tiranna dei sensi, ci attira su un certo lembo di terra? Cosa vedono gli occhi […] che ci fa percepire un determinato luogo come casa?» sono gli interrogativi con cui il volume si apre. Ancora una volta sono dunque i sensi a indirizzarci, a condurci dall’essere stranieri a residenti nei luoghi che non ci appartengono per nascita. È attraverso questa lente che la scrittura diaristica e memoriale di Meloy va intesa; nell’intento di conciliare l’esperienza personale con il tentativo di ribaltare la dicotomia uomo-natura che l’occidente ha partorito.
Pur consapevole che la scrittura può restituire solo in parte ciò che lo sguardo coglie, la lingua che Meloy utilizza è in grado di plasmare un immaginario solido e sacrale di uno spazio geografico che possa dirsi definitivamente casa. Ogni saggio è una goccia di sangue distillata sopra una mappa, in un punto preciso e definitivo.