Autobiografia di un sopravvissuto: “Il deserto” di Jorge Barón Biza

Pubblichiamo un pezzo uscito su Tuttolibri, che ringraziamo.

Niente è più facile che distruggere. Ricostruire è invece tutta un’altra faccenda. Quando poi c’è un corpo di mezzo, la fatica aumenta in maniera esponenziale e lo spazio e il tempo si confondono fino a entrare in una terza dimensione. Il deserto, di Jorge Barón Biza (La nuova frontiera, traduzione di Gina Maneri), è la lunga storia di un dolore, il suo, e di una famiglia, la sua, un intreccio tra biografia e letteratura talmente vivido da spezzare le pagine, peraltro con estrema naturalezza.

E dunque per cominciare si parta dalla biografia, di nuovo la sua, quella di Jorge Barón Biza, un tango sfinito tra Buenos Aires, dove trascorre la maggior parte della sua vita, e Cordova, la città-rifugio che però finisce col somigliare a una prigione, infelice ritiro dalle rovine che s’affastellano. Intellettuale, scrittore, giornalista sempre precario, ghost writer, il fardello di un nucleo familiare che lo tormenterà in una forma che tende pericolosamente alla maledizione. Per dirla più chiaramente, come ha scritto Alan Pauls nella postfazione al romanzo: «Il deserto è l’autobiografia di un sopravvissuto: qualcuno che può parlare solo al passato della vita reale perché è stata già vissuta, progettata, scritta da altri mentre la sua è concepibile solo come una vita mediocre, complementare, accessoria».

Riavvolgendo il nastro. Siamo a Buenos Aires, nella metà degli anni Sessanta, e un uomo, al culmine di una follia – scrupolosamente accudita per diverso tempo – sfregia il volto della moglie, lanciandole addosso del vetriolo. L’uomo, Raul Barón Biza, e la donna, Clotilde Sabattini, sono il padre e la madre di Jorge. Due personalità forti a cavallo tra circoli intellettuali, alta società e attivismo politico nell’Argentina degli anni Trenta, quando era tutto un susseguirsi di fortune rovesciate e instabilità di regime, prima che l’avventura peronista avesse inizio.

Raul, discendente di una famiglia milionaria, dilapida la propria fortuna nel lusso di una vita senza regole. Scrive romanzi pornografici e organizza cenacoli misteriosi. Le feste che organizza sono oscene, scandalose. Così come sono scandalose le nozze – le sue seconde – con Clotilde, molto più giovane, di idee politiche diverse, carattere indipendente. Due vite che sono già un romanzo; e poi tutto deflagra nella fatale giornata del 1964, quando Raul compie il suo sfregio al vetriolo. Passano poche settimane, e s’ammazza con un colpo di pistola.

Nel romanzo Raul diventa Aròn e Clotilde è Eligia. Con Il deserto, Jorge, nascondendosi a sua volta in una voce narrante e in un altro nome, Mario, si assume il fardello di una caotica ricostruzione, quella del volto di sua madre, e di un’ombra lontana e minacciosa, quella del padre. La storia privata, tuttavia, travalica presto la soglia dell’autobiografia per diventare racconto, letteratura. Accade già dalla lunghissima sequenza in cui seguiamo il viaggio verso l’ospedale della madre sfregiata in volto, le luci che filtrano dall’automobile rischiarando le ferite, la folla curiosa che sbircia, lo spaesamento prolungato, interminabile del figlio.

Il deserto è il classico romanzo che non ha bisogno di carburare, dispone immediatamente le carte sul tavolo, e la tensione emotiva che sprigiona continua a maturare a ogni passo. Si capisce, così, che quando il romanzo apparve per la prima volta nel 1998, la critica argentina, e non solo, ne fu rapita («Impressionante, potente come un pugno alla mascella», scrisse lo scrittore spagnolo Rafael Reig).
Seguendo il filo del racconto, la ricomposizione – impossibile – di una ferita grande quanto un volto, va qui intesa come una sorta di macro-ferita, un contenitore da cui ne stillano ulteriori. Così come si può intuire che la decomposizione di un volto è anche il collasso di una nazione, della stessa Argentina.

Da Buenos Aires, dove Eligia ha subito un primo intervento, il figlio la conduce a Milano, dove gli hanno suggerito una tra le migliori strutture al mondo. Osserviamo il cambio di scenario dal caos della capitale argentina all’austerità del capoluogo lombardo. Ascoltiamo le parole del luminare che tenterà la ricostruzione, il dottor Calcaterra: «Tutto ciò che entra nella nostra carne diventa una bottiglia nel mare. Non conosciamo le correnti, non sappiamo quali forze si muovono né verso dove né perché. Abbiamo un riscontro solo per ciò che affiora in superficie. Quel che succede davvero lì dentro è inspiegabile». Seguiamo infine il figlio sbandare nella città oltre la clinica, nei bar (piccoli e angusti, lontanissimi da quelli frequentati a Buenos Aires), alla ricerca di una bottiglia, di un whisky, di una donna.

Di pari passo al susseguirsi degli interventi sul corpo di Eligia, Mario scopre la Milano più scintillante, tra le braccia di Dina, nei night, portando il proprio sguardo stralunato nel boom degli anni Sessanta.
Fino a quando, inevitabilmente, è nuovamente la biografia a divorare il racconto. «La vita come potenza della letteratura, la letteratura come potenza della vita… È un miracolo straordinario, ma quale essere umano sarebbe capace di sopravvivergli?», chiude così il suo saggio su Il deserto Alan Pauls, con un interrogativo che in realtà non chiude un bel niente.

 

Aggiungi un commento