“Azzurro tenebra” di Giovanni Arpino: un estratto
Pubblichiamo, ringraziando l’editore minimum fax, un estratto dal romanzo del 1977 di Giovanni Arpino Azzurro tenebra, uno dei pochi romanzi italiani dedicati al calcio che declina il tema della delusione in chiave sportiva, raccontando la sconfitta della nazionale italiana ai mondiali del 1974 in Germania Ovest e la progressiva trasformazione del calcio in un’industria economica. I protagonisti di questo brano sono Arp, l’alterego di Giovanni Arpino, e il Vecio è invece Enzo Bearzot, all’epoca viceallenatore della Nazionale
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C’era una luce viperina nelle chiome degli alberi ritagliati contro il tramonto. E Arp pensava: crepaste tutti, avessi la forza d’accopparvi, pietoso anche ma convinto, potessi cancellarvi dal primo all’ultimo, uomini donne neonati, infame marmaglia che impesti il Pianeta.
«Buono, Arp. Non fare l’energumeno. Non farti tornare la mania omicida», sogghignò il Vecio. Perché il Vecio possedeva la bizzarra qualità d’indovinare gli umori storti altrui.
«Zitto tu. Non sono un tuo centravanti», brontolò Arp.
Il Vecio scosse la mutria, rassegnato. Sembrava triste, ma se appena scopriva i denti in un sorriso, ecco che poteva incutere paura. In quell’attimo il volto, pur buono, avrebbe allontanato qualsiasi bullo da caffè: un calcio, durante lontane risse in area di rigore, aveva schiacciato il setto nasale del Vecio, che ora ostentava la maschera sorniona d’un pugile in guardia perenne. Sedevano su una panchina al limite del parco, lui e Arp. Ombre ambigue calavano tra querce e abeti. L’erba di smeraldo andava facendosi nera, scomparsi i cigni dal laghetto. Fiati di nebbia rotolavano nel prato e laggiù la sagoma in tuta seguitava a trottare, ogni tanto variando il disegno del suo balletto con rallentati calci nel vuoto, la gamba sinistra e poi la destra sparate come falci, e lunghi tremolii soddisfatti che salivano dalle caviglie ai muscoli dorsali, alla nuca.
«Undici come lui e non avremmo problemi», l’additò il Vecio.
Arp annuì, stringendo le spalle per il freddo. Anche il Vecio rabbrividì. Sotto il tessuto turchino della sua tuta ginocchia e tibie si profilavano come lame. Tra gli incisivi fece dondolare la sigaretta.
«Alla tua età, che è poi la mia, dovresti metterti una coperta sul groppone», derise Arp.
Lui seguitò a controllare il cronometro e l’esercizio dell’uomo al fondo del prato.
«Peccato che anche tu sia italiano», riprese Arp. «A quest’ora, con quel grugno, figureresti in qualche antologia dei cattivi di Hollywood. Con James Cagney: colletto duro e parabellum. Che ci fai qui? Non sei neanche il nemico pubblico numero due. Go home, Vecio. Saresti stato così bene alla guida d’un camion di whisky negli anni del proibizionismo».
«Ma lo sai che sono analcolico», rise l’altro.
«O santo Alfonso Maria de’ Liquori, protettore del doppio kümmel», sospirò Arp. «Non mi raccapezzolo più». «
Tu quoque?», trionfò il Vecio. «Anch’io mi sento sull’orlo del precipuzio».
Era un loro antico gioco quello di storpiare le parole, esasperando le bestialità sfuggite di bocca, durante le interviste, a tanti personaggi del mondo sportivo, presidenti e manager, allenatori e giocatori. La risata del Vecio si spense lentamente.
«Divertiti», continuò Arp. «E intanto io v’ammazzerei tutti. Dico sul serio. Uno sterminio con calibro 9, frecce avvelenate, bazooka, kriss malesi, tratti di corda, plutonio. O almeno buttandovi sotto il tram. Umanità, devi crepare in un diluvio di sterco».
«Non fare il malinconico. Arp, stai sognando i vecchi mattoni del paese in Italia. Un’antica piazza, un muro rosicchiato dove volano rondini. Siamo solo dei bambinacci», sussurrò il Vecio.
«Appunto. E non parlarmi in endecasillabi, capito?», minacciò Arp. «Vorrei che piovesse un diluvio cosmico, che precipitassero centauri ippogrifi orchesse basilischi minotauri sirene draghi. Che rioccupassero il mondo a furia di zanne. Vuoi capirla, Vecio? Tra un minuto i miei anni saranno cinquanta, nessuna gallina canta, e da qualche parte la Vecchia Strega con la falce s’è pur mossa per incontrarci. Tu ed io ignoriamo l’angolo dell’appuntamento, ma lei no, lei galoppa».
«Zitto, Arp. Speriamo di fermarla in tackle», digrignò il Vecio.
«Tu non starmi a sentire. Ma per troppo tempo ho creduto di poter mettere una ciliegina sulla torta del vivere. Ero nato per questo. Per regalare gioia. E invece? Vita assassina, e bisogna anche ridere, fare i forti. Abbiamo il collo sul ceppo e cantiamo. Che truffa, è stata. Che trappola. Non vorresti essere lo stregone di qualche tribù nella giungla? Io sì. Almeno crederei alle stelle. E invece devo essere qui, a Ludwigsburg, a sedici o diciotto chilometri da quella Stoccarda che fu patria al giovane Hegel. Sai cos’è successo ieri, a proposito di questo Hegel?»
«Dimmi tutto, Arp. Poi ti affibbio tre Ave Maria», masticò il Vecio.
«Eravamo a tavola, mangiavamo pane sospetto, nero, e un salame che gridava vendetta, sai come sono questi salami teutonici», si accalorò Arp. «Dico incautamente: Hegel di Stoccarda, e subito un imberbe collega scribacchino, una jena sempre a caccia di notizie scandalistiche per il suo giornalucolo farfuglia: Sarà mica un’ala destra del Bayern Monaco o del Borussia Moenchengladbach? Gli ho dovuto rispondere: Ma va’ sereno e impudico, fratello, era soltanto il capitano del defunto Philosophical and Balòn Club s.p.a., famoso per i tanti derby finiti tutti zero a zero con la Marx & Engels Society s.r.l.».
«Chissà se Platone avrebbe segnato su rigore contro Epicuro», sghignazzò il Vecio.
«Bello aver fatto il liceo. Dovrebbero darci una mutua privilegiata», riprese Arp.
Un improvviso silenzio li separò. L’uomo in tuta al fondo del prato si staccava da terra arcuandosi in volo come per colpire con la fronte un invisibile pallone. L’acqua del laghetto si era fatta liscia, bronzea, le lingue biforcute del tramonto tingevano in altri viola. Era giugno, due giorni prima Arp s’era dovuto comperare in un grande magazzino – additando, mostrando i denti in sorrisi ebeti a un donnone tedesco che aveva appena posato l’elmetto e si fingeva commessa – una berretta di lana da sciatore per ripararsi dal freddo. Arancione, roba da Saint-Moritz. Può servire anche quando il freddo si muta in caldo appiccicoso e regala reumi che stroncherebbero un rinoceronte. Cuffia di lana a metà giugno: per uno che se è in Italia si sente nordico, e che in certe lande deutsch si riscopre tanghero marino senza orrore di se stesso. «Ringrazia il cielo, Arp. Col tuo mestiere, o qui tra noi pellegrini del pallone o in qualche Vietnam. O qui a parlar football o a Roma a intervistare ministri dalla faccia d’olio di semi», sillabò il Vecio.
Lo so, lo so, andava accettando Arp. Ma avrebbe almeno voluto vincere l’accidia maligna che gli aggravava lo stomaco: una pietra lunare. Anche se grazie a quella pietra capiva i leoni, i bufali, stroncati su un fianco nel sonno da calura e che non muovono neppur coda e orecchi per scacciar le mosche. Si offrono alla morte pomeridiana, sognano di diventare scheletri.
«Capisci, Vecio? Annuso disfatta disastro défaite derrata. Il termine unno non lo conosco, gli Unni non avevano scrittura, beati loro. E poi questa Ludwigsburg copiata nostalgicamente da Versailles farebbe piangere il conte Dracula. Non senti odore di disfatta, Vecio? È unico al mondo, sa di letame liquido versato sulla carie d’un molare. Credimi».
«Madonna, madonna, centurie di madonne», alzò le braccia il Vecio. «Mi vuoi spaccare il cuore».
Batté l’unghia sul cronometro, si sporse in avanti per studiare la sagoma in tuta che ora ruotava su se stessa facendo perno su questa e poi quella caviglia.