Carne da canone

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(fonte immagine)

di Luigi Loi

L’occidentale credeva ingenuamente che le opere d’arte belle fossero anche le più importanti. Abbiamo collocato Bach, Mozart, i Beatles al centro di questa geografia dell’importanza. Peccato che la storia prima o poi metta tutti in imbarazzo. Nel loro tour in Italia del 1965 i Beatles furono accompagnati da Peppino di Capri. Dopo più di 50 anni l’aneddoto ci fa sorridere perché dimentichiamo una cosa: il bello in termini assoluti non esiste, il bello ha sempre un contesto e una storicità. I Beatles hanno influenzato tutte le successive generazioni di musicisti, oggi sono belli e imprescindibili. Nel 1965 anche Peppino di Capri evidentemente lo era.

Insomma, quello che accade in musica accade in letteratura, perché anche qui dove sta il bello nessuno più osa dirlo con certezza. Se venisse lanciato un nuovo programma Voyager, cosa decideremmo di mettere dentro la piccola libreria italiana per extraterrestri? Forse avremo pochi dubbi sugli anni ‘70: La Storia, I sillabari e Todo modo. Forse anche per ’80: Altri libertini, Seminario sulla gioventù, Diario di un millennio che fugge. Più difficile dire degli anni ’90 dove convivono Gioventù cannibale e Alonso e i visionari. Ma quando si cerca di stabilire cosa rimarrà nei prossimi 15 anni della letteratura italiana scritta dal 2000 a oggi?

Una delle possibili risposte sta in Canone 2030, saggio edito da Enrico Damiani Editore, che vede gli interventi di Paolo Di Paolo, Cristiano De Majo, Gabriele Pedullà tra i tanti. Se ormai non riusciamo più a stabilire in termini teologici, né filosofici o giuridici dove risieda il bello, Canone 2030 ha un pregio: col metro di una vocazione storicista cerca di decidere almeno quali siano i libri più importanti degli ultimi 15 anni pubblicati in Italia.

Nei suoi episodi più interessanti Canone 2030 centra il bersaglio: emerge un panorama molto differenziato, che smentisce alcune delle mitologie critiche nostrane. Non potrebbe essere diversamente, considerando gli autori trattati: Nicola Lagioia, Edoardo Albinati, Elena Ferrante, Giordano Tedoldi, Antonio Tabucchi, Alessandro Piperno, Serena Vitale, Roberto Saviano, Milena Magnani, Caterina Serra, Simona Vinci, Andrea Bajani, Francesco Pecoraro, Leonardo Pico Ciamarra, Lucia Calamaro, Milo De Angelis. Alcuni di questi sono molto letti, altri sono solo prediletti, perché la critica non può fare a meno di sondare, osservare, valutare i libri del presente, dando anche qualche stoccata come accade in questo saggio. E sebbene appare evidente la difficolta di dare un canone quando un corpo sociale è così suddiviso in microcomunità emerge un dato perlomeno statistico: le tribù letterarie in Italia sono grossomodo tre: letteratura di genere, nonfiction e autofiction.

Non è la fiction

Non è un caso che Paolo Maccari, nel suo intervento su Il defunto odiava i pettegolezzi di Serena Vitale, scriva sul senso di «saturazione verso le ‘storie finte’ e di un bisogno diffuso dell’effetto realtà che si avverte un po’ a tutti i livelli». Gilda Policastro continua: «la suspension of disbelief sembra non poter riguardare almeno un paio di generazioni che la confidenza col virtuale ha reso quasi per paradosso più scettiche, meno avvezze alla finzionalità romanzesca, da cui rifuggono per un sentore di stantio, di muffa e di separatezza dal mondo». L’autofiction conosce il suo zenit con Trevi, Genna, Nesi e Piccolo. Curiosa dimenticanza di questo saggio è l’assenza dell’autore che più rappresenta questo genere in Italia: Walter Siti. Per contrasto emerge un’altra figura che Francesco Longo identifica con l’autore di Inseparabili, Piperno, che «sembra ignorare i generi egemoni oggi in Italia e tira dritto lungo la strada del romanzo. Sembra che per lui esistano solo i romanzi».

Il corpo negato

Negli ultimi 15 anni solo due italiani hanno avuto una dimensione davvero internazionale: la Ferrante e Saviano. Entrambi sono presenti nel discorso pubblico, ma da una posizione di evanescenza più o meno ideale; la prima assenza è voluta, la seconda imposta dalle drammatiche circostanze. Sono tra noi ma allo stesso tempo sono irraggiungibili, sono autori senza corpo, avatar. Se per Paolo Di Paolo «la forza di Ferrante è, più che nei suoi libri, nel suo non esserci», per Cristiano De Majo la grandezza di Gomorra risiede nel cortocircuito che il corpo minacciato del suo autore imprime all’opera letteraria quando diventa testimonianza civile. Altrove il corpo negato è quello dell’editore. Accade che lo scrittore che più ha investito sulla cifra della radicalità negli ultimi anni, Giordano Tedoldi, dopo Io odio John Updike e I segnalati, decida di autopubblicare e vendere su Amazon il suo romanzo Deep Lipsia. Analogo destino è quello di Fallire di Beppe Sebaste, anch’esso autopubblicato su Amazon.

Tra quindici anni saranno carta solo pochissimi libri, l’autore sarà il sinonimo di un prisma ottico da cui partiranno una serie di informazioni, gli editori da evocare in seduta spiritica?

L’importanza genetica delle interazioni artistiche

Nessun canone ha la pretesa di essere esaustivo e di farsi regolamento, tantomeno questo Canone 2030. Tuttavia qualsiasi esplorazione geografica, anche la più spericolata, esercita la nostra capacità di relativizzare l’esperienza artistica. Se dall’arcipelago di ghiaccio del ‘900 emergono con forza i vari Levi, Manganelli, Landolfi, Ginzburg, Morante, questa vittoria l’hanno subita i vari Raffaello Brignetti, Ottiero Ottieri, Vittorio Gorresio e i tanti di cui non rimane che il fenomeno allucinatorio. A rileggere il passato non si può che essere d’accordo con esso: in pochi oggi baratterebbero una pagina de La tregua con le trecento di Tempi stretti.

Torniamo a monte. L’aneddoto su Peppino di Capri ci fa sorridere perché sappiamo la storia ineluttabile, dimenticando che il vero campo di battaglia è il presente. È suggestivo immaginare un presente dove ha vinto il gene di Peppino di Capri su quello di Lennon e soci, o dove Liala sovrasta Calvino. Improbabile e ormai impossibile, eppure sappiamo la casualità forte quanto la genetica: nel 2030 forse non sentiremo più la necessità di una sintesi interpretativa perché non ci sarà più nulla da leggere e interpretare.

Fissate nella memoria questa scena: lo scrittore Flavio Soriga, inviato speciale di Rai Letteratura al Salone del Libro di Torino 2016, intervista il cantautore Motta, che presenta il suo nuovo album La fine del vent’anni. Soriga chiede: «tu sei un lettore?». Motta sorride alla telecamera. La risposta è superflua, immaginatela. Ciò che conta è proprio la domanda. Proviamo a rovesciarla: «tu ascolti musica?».

Bene, nel 2030, di chi sorrideremo: di Flavio Soriga o di Francesco Motta?

Commenti
2 Commenti a “Carne da canone”
  1. bobo ha detto:

    Vorrei sapere che musica ascolta lei.
    La dicotomia Beatles/Peppino di Capri mi sembra degna di un articolo di Assante e Castaldo

  2. Luigi Loi ha detto:

    @bobo: Il paragone sulla dicotomia mi sembra degno di un articolo di Dagospia (lo prenda come un complimento, fuor d’ironia). La accontento sui miei discutibili gusti musicali. Gli ultimi autori inseriti sulla mia playlist: Giovanni Truppi, Lester Young, Chick Webb, Colle der fomento, Gemitaiz, Little Walter, Bill Evans Trio, Reunion Cumbre di Astor Piazzolla.

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