Com’altrui piacque. Ulisse ed ebraismo
(illustrazione di Riccardo D’ariano)
di Ludovico Cantisani
“O tu che sei sì triste ed hai presagi
d’orrore – Ulisse al declino – nessuna
dentro l’anima tua dolcezza aduna
la Brama
per una
pallida sognatrice di naufragi
che t’ama?”
Umberto Saba, Ulisse, 1933
Nei primi decenni del Novecento, quando la riflessione sugli archetipi, le origini e le direzioni della cultura occidentale si fece più stringente, con una curiosa insistenza diversi scrittori e filosofi di ascendenza ebraica andarono a riflettere sulla figura di Ulisse mettendola a dialogo con la propria religione di origine. Tanto Edipo era investigato dalla psicoanalisi quanto Ulisse dalla letteratura e dalla filosofia; non sorprende allora che, in questa pluralità di voci, si sia venuta a creare una costellazione piuttosto variegata di interpretazioni di pensatori ebrei sull’eroe omerico, pervenendo ad esiti quasi antitetici.
Il caso più eclatante di confronto anzi quasi di contaminazione fra cultura ebraica e cultura greco-pagana è senza ombra di dubbio l’Ulisse di James Joyce. “Introibo ad altare Dei”: è sin dalle prime righe che l’Ulisse scombina le carte e le coordinate culturali, geografiche, linguistiche e sinanche sintattiche del suo lettore, con un impulso enciclopedico che si rifiuta di ridursi ad enciclopedia. Più profondo e al tempo stesso più nevrotico punto di incontro fra la cultura semitica e la cultura mediterranea, come è noto l’Ulisse segue le peregrinazioni urbane di due ebrei irlandesi, l’artista ribelle Stephen Dedalus, nuovo Telemaco in cerca di padre, e il più maturo agente pubblicitario Leopold Bloom, nella Dublino di inizio secolo, che a sera tornerà dalla sua non troppo fedele moglie Molly, moderna Penelope. Nell’inquieto vagare di questo Ulisse moderno e circonciso che è Bloom sembrano essere ripercorse per filogenesi tutte le peregrinazioni del popolo ebraico, sia ai tempi dei patriarchi alla ricerca di Canaan che nella dispersione seguita alla caduta del secondo tempio di Gerusalemme, nel 70 d.C. – ma la diaspora dell’Ulisse di Joyce è innanzitutto una diaspora sintattica, linguistica, lessicale. Se l’Ulisse omerico, primo eroe individuale e individualistico di un Occidente non ancora monoteista, sembrava anticipare molte delle questioni esistenziali e narrative della letteratura di là da venire, l’Ulisse joyciano raccoglie su di sé a mo’ di spugna ogni archetipo, ogni personaggio e ogni stile letterario precedente e lo riplasma nel più grande calderone linguistico che la storia del romanzo europeo ricordi.
Scritto negli anni della Prima guerra mondiale e pubblicato nel 1922, l’Ulisse di Joyce accostava Omero all’ebraismo in un’equazione diretta: “Ulisse è l’ebreo”. Accanto al tema del viaggio e dell’esodo come diaspore esistenziali, ciò che accomunava l’ulissiaco e l’ebraico agli occhi di Joyce sembrava essere innanzitutto questa visione sacrale e al tempo stesso sbeffeggiante della parola: una parola studiata e dissezionata dall’autore e dai suoi personaggi fin nelle sue più piccole particelle, per coglierne da un lato il carattere persuasivo e spesso manipolatorio – già l’Ulisse omerico era un ingannatore quasi compulsivo, e la sua Penelope non era da meno – dall’altro l’elemento creativo, vitale, capace da solo di plasmare i mondi. La prosa dell’Ulisse di Joyce è un inno all’onnipotenza della parola, mimesi scritta del pensiero umano, tanto quanto il testo della Torah era, per gli ebrei, parola divina a cui accostarsi come davanti a un roveto ardente; e se c’è un anello di congiunzione fra l’Ulisse omerico e l’Ulisse “joycianizzato” che è Leopold Bloom è proprio quella figura anche un po’ stereotipa del mercante ebreo che per molti secoli dal Medioevo in poi ha caratterizzato l’immaginario europeo.
Sulle macerie della Seconda guerra mondiale e della scoperta dei campi di concentramento nazisti, due pensatori di origine ebraica e di orientamento – almeno all’inizio del loro percorso – marxista diedero una lettura profondamente diversa dell’eroe omerico. Nella loro Dialettica dell’illuminismo Theodor W. Adorno e Max Horkheimer – ai quali si aggiunse, qualche anno dopo, l’Emmanuel Levinas – operarono una contro-interpretazione dell’Odissea in cui Ulisse veniva visto come il primo esponente di quella ragione “borghese” e strumentale che, tutta protesa al dominio sulla natura e sugli altri uomini, aveva portato al recentissimo orrore dei Lager. Manipolatorio, calcolatore e soprattutto astuto, l’Ulisse omerico portava ai loro occhi lo stigma di essere stato quasi volutamente l’unico sopravvissuto di un viaggio tutto indirizzato alla nost(os)-algia e al solipsismo del ritorno: campione dell’autocontrollo, tutte le tappe del suo viaggio vedono Ulisse trionfare su mostri, ninfe o maghe ancora ancorate a diritti preistorici, a quella ripetizione fatale che, nella lettura già del giovane Adorno, caratterizzava il mito. L’episodio delle Sirene poi, agli occhi dei due autori della Dialettica dell’illuminismo, aveva un sapore particolarmente profetico e allegorico: nell’immagine di un insofferente Ulisse legato all’albero e dei suoi marinai che remano con le orecchie tappate per non sentire il canto delle Sirene Adorno e Horkheimer leggevano tutto il futuro dello sfruttamento capitalistico, di una divisione iniqua del lavoro e della freddezza e rinuncia a sé che allo stesso “proprietario terriero” o imprenditore sarebbero state richieste dal sistema economico che lo avrebbe nutrito. La critica che questi tre pensatori ebrei fanno ad Ulisse è in fondo un riflesso della necessità, avvertita in modo particolare da Levinas, di distanziarsi da una fonte quasi esclusivamente greca del pensiero – da cui il dualismo Ulisse-Abramo reso esplicito da Levinas, che già in Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger scriveva che “al mito di Ulisse che ritorna ad Itaca noi vorremmo contrapporre la storia di Abramo che lascia per sempre la sua patria per una terra ancora ignota e che interdice al suo servo persino di ricondurre suo figlio al punto di partenza”.
In realtà oltre Joyce, ma stavolta dopo la Seconda Guerra Mondiale e l’Olocausto e parallelamente alla redazione della Dialettica dell’illuminismo, ci fu anche un altro scrittore ebreo che elaborò una sua personale versione di Ulisse, in prosecuzione questa volta diretta dal modello omerico. Emigrato dalla Germania negli Stati Uniti dopo l’avvento del nazismo, Lion Feuchtwanger paradossalmente era noto soprattutto per il romanzo Süss l’ebreo, da cui nel 1940 Veit Harlan aveva tratto un famigerato film di propaganda antisemita. Al di là di questo eclatante episodio di appropriazione e manipolazione di una fonte ebraica a scopi antisemiti, il racconto Odisseo e i maiali, scritto nel 1947, immaginava un Ulisse sessantenne tornare a Scheria, la terra dei Feaci: la scoperta del ferro, che l’anziano re Antinoo ha importato dai fenici, turba Ulisse in quanto simbolo del nuovo, e al tempo stesso l’eroe con l’aedo cieco Demodoco si permette di decostruire sé stesso, raccontando una versione più autentica dell’episodio di Circe che il cantore rifiuterà in quanto “poco cantabile”. Nella lucida delicatezza con cui Feuchtwanger tratteggia l’eroe, tanto nostalgico del passato quanto pavido del futuro, è assai facile rintracciare un’identificazione da parte dell’autore, in esilio da anni negli USA, verso questo Ulisse esitante fra due terre, fra Ithaka e Scheria. Al tempo stesso, nel sottotesto del racconto, si può cogliere una più problematica relazione con le modalità del pensiero ebraico: la diffidenza ulissiaca nei confronti della scrittura, di cui gli dà notizia Antinoo, e la contro-narrazione della trasformazione dei compagni di Ulisse in allegri maiali hanno le sue implicazioni per uno scrittore di origine ebraica. Non è però senza significato il fatto che, negli stessi anni de Odisseo e i maiali, Feuchtwanger scrisse un’analoga novella che andava a destrutturare l’archetipo dell’Ebreo errante. Riallacciava Ulisse a questa figura archetipica, leggendario ebreo senza nome che per aver schernito Gesù durante la Passione era stato condannato dal messia a vagabondare per sempre sulla terra senza potersi fermare né morire fino alla fine dei tempi, anche il film Nuit sur la mer di Marc Scialom, regista e italianista francese.
Se Joyce e Feuchtwanger prendono Ulisse come paradigma dell’Ebreo errante mentre Adorno, Horkheimer e Levinas lo contrappongono polemicamente ad Abramo fino a inserirlo direttamente in una genealogia che porta direttamente ad Hitler, una sintesi particolarmente lucida e disperata di queste due tesi la si ritrova in Primo Levi. “Il canto di Ulisse” è uno dei capitoli più celebri e densi di significato di Se questo è un uomo. Levi e Pikolo, il ragazzo più giovane del Kommando chimico del sotto-campo di Auschwitz in cui era stato deportato l’intellettuale torinese, devono andare alla mensa a prendere la zuppa. Lungo il cammino verso la mensa Levi sente il bisogno, che è quasi ossessione, di insegnare a Pikolo l’italiano prendendo ad esempio il canto XXVI dell’Inferno, quello di Ulisse e Demodoco. Fra i viali del Lager risuonano allora i versi di Dante, ricordati dall’italiano solo a metà, ma trattati con un rispetto sacrale – verrebbe da chiedersi se, senza questa rievocazione dantesca, Levi sarebbe riuscito a sopravvivere al Lager, se non come uomo come scrittore. Il significato di questo episodio però non è solo la cultura che, embrionalmente, ricomincia a conquistare terreno sulla barbarie del totalitarismo. C’è qualcosa di più profondo, di più ancestrale, di sovrastorico: “com’altrui piacque” – pronunciando questo inciso dantesco, Levi dice di aver colto “qualcosa di gigantesco che io stesso ho visto ora soltanto, nell’intuizione di un attimo, forse il perché del nostro destino, del nostro essere oggi qui”. Com’altrui piacque – “come Autrui piacque”, si sarebbe tentati di parafrasare – l’innominabile che si fa volontà e storia, l’impronunciabile che guida la storia – quel sospetto inesplicitabile e quasi blasfemo racchiuso già nel termine Olocausto/sacrificio, rivolto quasi contro quell’Innominabile che è il Dio della Torah.
È qui che la questione entra nel vivo. Ulisse rispetto a Poseidone, Abramo-Giacobbe-Mosé rispetto a JHWH: mettendo a confronto l’Odissea e la Bibbia si ricava un rapporto col divino simmetrico ed opposto. In entrambi i casi, vi è un elemento di dialogo e di conflittualità col trascendente a fare da contrappunto al viaggio che gli eroi fondanti della cultura occidentale – Ulisse da un lato, i patriarchi di Israele dall’altro – compiono alla ricerca di una meta. Il principio del sacrificio – sacrificio che presto diventa, in forme diverse, sacrificio di sé, rimozione di una parte della propria individualità attraverso ora la circoncisione ora il più rigoroso autocontrollo – sembra essere centrale in questo duplice viaggio. Tanto Ulisse quanto i patriarchi ebrei sembrano collocarsi, dinnanzi al divino, in un rapporto quasi contrattualistico: la loro lettura può risultare a tratti estremistica, ma era non senza motivo che Adorno e Horkheimer avevano visto in Ulisse il “prototipo dell’individuo borghese”.
Tuttavia, questa conflittualità è di senso opposto: la “lotta con Dio” che Giacobbe e i suoi discendenti attaccano è solo un momento di un rapporto con il Trascendente che, in generale, favorisce anzi quasi comanda il viaggio, il pellegrinaggio, la quest; al contrario, Poseidone lancia all’eroe omerico una sfida di segno opposto: il dio del mare vuole impedire il ritorno ad Itaca, vuole inghiottire e mangiare il corpo di Ulisse nei suoi abissi – sarà una curiosa operazione di diplomazia olimpica a salvarlo. Nella forte affinità dell’azione – il viaggio ostinato verso una meta apparentemente irraggiungibile – non si può non riconoscere al tempo stesso una parziale distanza nel telos fra Ulisse e i patriarchi. Ma il dubbio che Levi rinuncia a formulare, al termine del suo racconto della passeggiata con Pikolo – il dubbio che JHWH in qualche modo volesse, quell’ultima prova per il suo popolo eletto, così come lo aveva guidato tra tentazioni e benedizioni per il deserto via dall’Egitto – riapre la questione scombinando ancora una volta le carte.
Ciò a cui in ultimo si riduce il parallelismo conflittuale fra “l’Ulisse” e “l’ebreo” è la questione del nome e della nominazione. Dare nomi, avere un nome – è evidentemente una questione esistenziale prima ancora che culturale o civile. Dare nomi vuol dire conoscere, avere un nome vuol dire averlo ricevuto, e aver ricevuto un nome vuol dire, entro una certa misura, essere stati scelti – “eletti” – e conosciuti. Ulisse conosce e dà nomi e leggi ai mondi preistorici che attraversa così come Adamo, nel secondo racconto della Genesi, dà il nome agli animali. Se dare nomi vuol dire, entro una certa misura, legare a sé – con tutto che Horkheimer, in un testo di poco precedente alla Dialettica dell’illuminismo, riconosceva in una ragione nominatrice un’alternativa alla ragione strumentale e manipolatrice che nella sua lettura viziava l’Occidente – è evidente che il nome di Dio non possa essere pronunciato né scritto – già il tetragramma JHWH è una concessione, un rischio, un punto di fuga. Ulisse non è un dio, ma rispetto al suo stesso nome sembra provare un’esitazione uguale e contraria. L’episodio è quello celeberrimo di Polifemo: al ciclope Ulisse nasconde la sua identità e si presenta come “Nessuno”, dal momento che, per un gioco di parole del greco che nella traduzione italiana si perde, fra Ὀδυσσεύς e οὐδείς c’è una forte assonanza. Secondo Adorno e Horkheimer, con questo inganno Ulisse “afferma sé stesso rinnegandosi come nessuno, salva la propria vita facendosi scomparire”, scoprendo per primo il dualismo della parola e trasformando il “formalismo” dei nomi e delle leggi in un manipolativo nominalismo. Ma in questa lettura, tanto dai testi sacri dell’ebraismo quanto dall’Odissea – se considerati fino alle loro implicazioni ultime e se vogliamo post-moderne – emerge un’interessantissima problematizzazione del principio di identità: ed è in questo tema che forse il poema omerico e la Torah hanno, nel nostro tempo, i loro maggiori elementi di attualità.
Allora ecco perché per i maggiori autori e pensatori ebrei del Novecento Ulisse è al tempo stesso inconsapevole simbolo e fastidiosa negazione dell’essenza stessa della cultura e della mentalità ebraica. Ulisse e l’ebraismo si ritrovano in un chiasmo, ab origine arbitrario, a posteriori necessario: tanto le figure dell’eroe omerico e dei patriarchi ebrei erano lontane al momento storico della loro “origine” quanto vanno inevitabilmente accostate come le matrici archetipiche del pensiero occidentale. Prima ancora di Gerusalemme e Atene ci furono Ithaka e Canaan, è da queste due terre promesse, perdute ritrovate e forse perdute di nuovo, che è sgorgato l’Occidente. È ancora una volta nella prosa sfilacciata ed esplosiva di Joyce che si trova la sintesi di tutto questo pensiero. Si tratta di un’enigmatica frase che, nel capitolo XV, quello del bordello in cui Bloom ritrova Dedalus, viene attribuito a un inanimato berretto all’interno di un testo strutturato a mo’ di copione teatrale: “Jewgreek is greekjew. Extremes meet” (“Ebreogreco è grecoebreo. Gli estremi si toccano”, nella traduzione storica di de Angelis). In questo chiasmo che è anche simmetria sembra essere contenuta una parte importante non solo delle problematiche del Novecento, ma di tutta la cultura occidentale nella sua duplice origine.