Come mettere i personaggi nei guai (senza farli morire) – Intervista a Terézia Mora
di Daria Biagi
Da anni tra le voci più originali della Germania contemporanea, Terézia Mora è scrittrice e traduttrice dall’ungherese, insignita dei principali riconoscimenti letterari tedeschi tra cui, nel 2018, il prestigioso premio Büchner. Al centro delle sue storie ci sono uomini comuni eppure mai del tutto “a posto”, rifugiati poliglotti come Abel Nema, protagonista del romanzo Tutti i giorni, o informatici neo-disoccupati come Darius Kopp, al quale è dedicata una trilogia ancora inedita in Italia. Dopo aver ripubblicato il suo romanzo di maggior successo nella traduzione di Margherita Carbonaro, l’editore Keller presenta ai lettori italiani le opere principali di Mora a partire dalla sua ultima racconta di racconti: L’amore tra alieni.
Il tuo esordio letterario è legato a una raccolta di racconti, Seltsame Materie [Materia strana]: come sei arrivata al romanzo, e a un romanzo complesso come Tutti i giorni? Quali autori sono stati importanti in questa fase della tua scrittura?
Seltsame Materie contiene i primi testi completi che ho scritto in vita mia. Ho messo insieme il libro nel giro di sei mesi, perché mi portavo dietro quel materiale ormai da quasi trent’anni. Avrebbe potuto venirne fuori anche un romanzo, ma non ho voluto per diverse ragioni. Anzitutto, essendo i miei primi testi, non volevo cominciare subito con un romanzo. Secondo, dato che elaboravano materiale legato alla mia infanzia, volevo evitare il corto circuito di un io o di un protagonista unico che venisse associato a me. Volevo che lo sguardo fosse, diciamo così, “distribuito” sia su quel materiale che su ciò che ne veniva fuori, il libro. Ma considerando che era un volume costruito, e non una serie di racconti nati in momenti diversi e solo vagamente collegati, è chiaro che anche Seltsame Materie era un romanzo sotto mentite spoglie. Prima di scrivere Tutti i giorni ho comunque cercato di capire quali romanzi potevano essere importanti per me e per la mia scrittura. Ne cito solo alcuni: James Joyce: Ulisse, Dostoevskij: L’idiota, Gogol’: Le anime morte, Updike: i romanzi del Coniglio (ancora più importanti dopo, per Darius Kopp), e naturalmente: Péter Esterházy: Harmonia cælestis. Non erano soluzioni specifiche che cercavo, volevo piuttosto trarre da questi romanzi una sensibilità per l’universale. Insomma: farmi coraggio.
Abel Nema, il protagonista di Tutti i giorni, è un rifugiato che conosce dieci lingue e non vuole parlarne nessuna; Darius Kopp è un “uomo qualunque” che viene licenziato e assiste al crollo di tutto il suo mondo. Perché scegli spesso di raccontare dalla prospettiva di un personaggio maschile, e marginale?
Potrei rispondere come Flaubert: «Abel Nema/Darius Kopp c’est moi». La marginalità è la cosa che conosco meglio a questo mondo, e anche quella che più mi interessa. Dubito, anzi, che esista qualcosa come un “punto medio” della società. Che i personaggi siano uomini deriva spesso dal semplice fatto che una protagonista donna distrarrebbe troppo dal “vero tema”. Potrei aggiungere che i rifugiati come Abel Nema se la passano peggio delle rifugiate (fanno più paura, sono considerati più pericolosi, si è meno disposti ad aiutarli), e io volevo mettere il mio personaggio nei guai. In una trilogia su un ingegnere informatico come Darius Kopp il protagonista non poteva essere una donna, altrimenti tutti avrebbero guardato solo quello: “Ah-a, una donna ingegnere informatico!”. Certo, potevo anche prefiggermi di mettere in scena sempre e solo donne, ma in genere sono partita dalla realtà, dalle persone che mi ispiravano questi personaggi, e si trattava appunto di uomini. In tutte queste figure maschili ho incorporato altri uomini, e anche una donna: me.
In Germania sei nota non solo come scrittrice ma anche come traduttrice dall’ungherese, in particolare per le opere di Péter Esterházy. La traduzione del suo Harmonia cælestis ha coinciso con la stesura del tuo primo romanzo: come interagiscono per te scrittura letteraria e traduzione?
All’inizio, mentre scrivevo Tutti i giorni, Harmonia cælestis mi disturbava, essenzialmente perché richiedeva molto tempo. Avevo a disposizione nove mesi per ottocento pagine, e se traduci a tempo pieno va bene, ma se intanto devi anche scrivere un romanzo tuo diventa difficile. Via via però mi sono resa conto che tradurre il capolavoro di un autore geniale mentre scrivevo il mio primo romanzo era la cosa migliore che potesse capitarmi. Avere di fronte il coraggio, la giocosità, la libertà, l’intelligenza di Esterházy, anche l’intelligenza con cui affronta i suoi punti di forza e le sue debolezze di scrittore, mi ha dato il coraggio di dire a me stessa: «Non c’è motivo di tirarsi indietro. Non c’è motivo di non mettere nel mio romanzo tutto ciò di cui sono capace». Harmonia cælestis, soprattutto, mi ha liberata. È da allora che amo tradurre. Non c’è dono più grande che poter entrare così a fondo in un testo. Posso fare quello che mi viene facile – giocare con la lingua –, e non devo fare quello che mi viene difficile – costruire una trama, perché questo lo ha già fatto l’autore.
Dopo tre romanzi impegnativi sei tornata al racconto con L’amore tra alieni. Chi sono gli “alieni” di cui parli?
L’alieno è quello che in ogni situazione sta sempre un po’ “fuori”, un po’ decentrato, quello un po’ strano. Cos’è che lo rende strano? Al di là di una certa predisposizione che tutti ci portiamo dietro dall’inizio o che viene da traumi successivi, in genere è il problema di cui devi venire a capo in quel momento, e che fondamentalmente devi risolvere da solo. Il tuo amico d’infanzia è morto e nessuno ti vuol dare spiegazioni. La possibilità di vivere insieme a tuo figlio è quasi sfumata (ma appunto: quasi, c’è ancora speranza). Vorresti fare da madre a qualcuno che forse ne avrebbe anche bisogno, ma oltre un certo punto non puoi più far niente per lui (e non potrebbe neanche sua madre), eccetera. Sono cellule, frammenti, momenti che osservo intorno a me e che mi colpiscono, e col tempo ne nascono storie e personaggi.
Spesso i tuoi protagonisti sono bloccati in situazioni da cui non riescono a uscire. Per molti liberarsi significa abbandonare la competizione e finalmente “mollare”. È anche per questo che appaiono un po’ tagliati fuori?
Chi non va allo stesso ritmo degli altri sembra sempre un po’ tagliato fuori, ma il punto è: ha più ragione chi continua a correre? Io penso che sapersi sottrarre a situazioni che non fanno (più) per te sia in realtà una buona cosa. Dirsi “sono bloccato” è già un passo nella direzione giusta. A essere sincera ammiro i miei personaggi per la loro tenacia, e per l’onestà a cui la maggior parte di loro prima o poi arriva. Non possono più mentire a se stessi, e alcuni di loro riescono persino a non mentire più al mondo. Spesso ci vuole tutto il racconto, e la questione di cosa faranno una volta ottenuta questa consapevolezza rimane aperta.
Una volta, durante una lettura a Berlino, hai raccontato come dal personaggio del tassista che in Tutti i giorni investe Abel Nema sia nata, anni dopo, la figura dell’infermiere Tom, protagonista del racconto Perpetuum mobile. Come nascono i tuoi personaggi? Come si trasformano?
Nascono tutti dall’osservazione. Chi come me è spesso in giro per letture ha visto centinaia di tassisti sull’orlo del collasso nervoso. Era inevitabile che mi portassi dietro un personaggio del genere. Mi piaceva anche l’idea di mettere nei racconti piccoli personaggi secondari provenienti da altri libri, e di scoprire, ad esempio, come mai il tassista di Tutti i giorni fosse tanto di cattivo umore. Poi però, dopo una serata con un moderatore insopportabile, mi è capitato di passare una notte insonne in albergo, e guardando la televisione ho visto un programma sugli infermieri del servizio notturno. In quella puntata facevano quattro interventi, tre dei quali presso anziani che vivevano da soli, che non erano in pericolo di vita ma si ritrovavano, appunto, soli col loro dolore e le loro paure, e avevano bisogno di qualcuno che li assistesse. Allora ho deciso di trasformare il tassista in un infermiere, anche perché, a dirla tutta, non è che il tassista aggressivo mi affascinasse poi più di tanto.
Negli Alieni la voce narrante riesce a immedesimarsi nei personaggi e allo stesso tempo a guardarli con ironia. Come si ottiene un equilibrio così delicato?
Non saprei dirlo. Utilizzo, credo, un giro di frase che ho messo a punto lavorando a Tutti i giorni, e che spero sia abbastanza flessibile da trattare il suo oggetto come se questo fosse fisicamente libero nello spazio. Per riuscirci è necessario cambiare agilmente il punto di vista, e non puoi farlo se sei un purista secondo cui una frase che inizia col passato remoto del narratore onnisciente deve per forza finire con lo stesso tempo verbale. Può darsi che qui entri in gioco la mia lingua materna, l’ungherese, che non ha generi grammaticali e che per esprimere il tempo ha solo due forme che possono alternarsi nella frase, e che non prevede neanche un ordine fisso per le parole. Anche se il tedesco funziona diversamente, essere cresciuta parlando una lingua così duttile avrà le sue conseguenze.
Hai parlato del tuo lavoro in due cicli di lezioni che hai tenuto rispettivamente a Francoforte e a Salisburgo. Una delle tue lezioni francofortesi è interamente dedicata al racconto Il dono ovvero la dea della misericordia cambia casa, che conclude il volume degli Alieni. È un racconto che ha un significato particolare per te?
Mi piace molto, credo che sia forse il migliore della raccolta, ma a Francoforte ne ho parlato perché si adattava bene al tema dei “viaggi di ricerca”. E di quello dovevo parlare per forza, perché i cambi di luogo hanno un ruolo molto importante in tutti i miei testi, che io lo voglia o no – e questo sebbene io sia una persona che viaggia molto malvolentieri. Viaggiare è doloroso, fisicamente ed emotivamente, ma anche necessario. Non si può trovare tutto nello stesso posto, si sa. Il viaggio in Giappone mi ha quasi steso (già solo per il fatto che non mi sono mai ripresa dal jet lag e che ho beccato un’infezione virale; la combinazione delle due cose non è affatto piacevole). Dovevo compensare in qualche modo: una lezione e un racconto erano il minimo come risarcimento.
Le tue Lezioni di Francoforte sono uscite in Germania nel 2016 con il titolo Nicht sterben [Non morire]: perché questo titolo, e perché è così difficile trovare per l’eroe «una fine migliore della morte»?
Il viaggio in Giappone di cui sopra ha senz’altro avuto un ruolo in questa scelta, ma in generale: raccontare mette a riparo almeno dalla morte emotiva, sia che si tratti di vecchie narrazioni (memoria, storia) sia dell’elaborazione di qualcosa di nuovo, ancora sconosciuto. Trovare un proprio modo di parlare, parole proprie, può anche metterci a riparo dalla demagogia. Quanto all’eroe: la morte è una soluzione a buon mercato, e con le soluzioni a buon mercato è bene essere critici. Se l’eroe muore, drammaturgicamente parlando ho comunque messo un punto. In questo modo anche nel mondo reale tutti i guai sarebbero risolti, almeno per il morto. Ma poiché preferisco problemi più complessi e più difficili da risolvere, ho deciso di lasciare il mio eroe in vita. Perché, come ha detto benissimo Thomas Bernhard, chi vive deve farlo ininterrottamente, e se a due terzi della vita ci chiedessero Preferisci liberarti da tutte le tue angosce (morire) o affrontare l’ultimo terzo, per quanto possa essere stressante, meno spettacolare e magari anche doloroso?, la maggior parte di noi sceglierebbe la seconda opzione. E alcuni direbbero anche che non è mai troppo tardi per diventare la persona migliore che sei in grado di essere.
A proposito di Das Ungeheuer [Il mostro], il secondo volume della trilogia di Darius Kopp: c’è qualcosa, per te, di cui non si può parlare? O sono proprio queste le zone in cui uno scrittore deve addentrarsi?
Sono dell’idea che, di base, si possa parlare di tutto, solo che lo non si può fare sempre. In Das Ungeheuer ho a volte trattato questioni che ero in grado solo di scrivere, o di leggere fra me, ma che per esempio non potrei leggere ad alta voce – sarebbe troppo. Questa è, anche eticamente, una questione delicata: la carta è paziente, lo sappiamo, ci si possono scrivere sopra cose tremende che non diremmo mai. Ogni volta mi chiedevo: ce la fai ad affrontare anche questo, sei in grado di fartene portavoce? E per contro: ho osservato come mi sentivo quando toglievo qualcosa da un testo. Se avevo la sensazione che questo si trasformasse in una “pietosa bugia” dovevo rimettere il passaggio al suo posto, non importa quanto fosse tremendo. Scrivere è una continua lotta con il dicibile – ma è anche il nostro compito. Che appunto non sta nel confezionare al meglio una qualche trama.
Una delle tue lezioni di Salisburgo prende le mosse da Gogol’: sei uscita anche tu dal suo cappotto?
In parte sì. Ma anche da quelli degli altri che ho nominato sopra. Abbiamo tutti i nostri antenati letterari e non esisteremmo senza di loro. È bello saperli intorno a noi.
Lo scatto di Terézia Mora è opera di Peter von Felberg.