Dentro la poesia di Louise Glück: L’iris selvatico, Averno, Ararat

Dal 1968 a oggi Louise Elisabeth Glück ha pubblicato negli Stati Uniti 14 libri di poesia, alcuni di saggi, ha vinto molti premi tra i quali il Premio Nobel per la Letteratura nel 2020. In questi anni in Italia sono circolati solo tre suoi volumi: nel 2003 per Giano, con traduzione di Massimo Bacigalupo; nel 2012il magnifico Ararat, in un monografico di “In forma di parole” del lungimirante Gianni Scalia, con la traduzione e la cura di Bianca Tarozzi; nel 2019, con traduzione di Massimo Bacigalupo per la Libreria Dante & Descartes.

Dopo l’assegnazione del Nobel a Glück tutte e tre le opere sono state pubblicate da Il Saggiatore: esce oggi, infatti, Ararat, sempre nella traduzione di Tarozzi. Sono libri che vengono pubblicati in Italia, nella loro prima edizione a distanza di circa venti anni dalla loro prima pubblicazione negli Stati Uniti, e sono 3 su circa appunto 14 sillogi.

Quello che porta l’editoria italiana di una certa portata a guardare così poco alla grande poesia mondiale è un mistero che negli anni viene svelato; ma ciò che conta è altresì riconoscere come la piccola editoria, pur in una fatica costante di sopravvivenza, abbia avuto il fiuto e il coraggio di lavorare e pubblicare così grande poesia.

Gli anni, le date, la pubblicazione delle opere della Glück hanno un senso se si parla di editoria, hanno un significato relativo quando si parla della poesia della loro autrice perché, proprio in quanto grande poesia, non ha relazione col tempo, andandosi a collocare nell’eterno.

Ciò che accumuna la sua scrittura in poesia in questi tre libri è la sua incessante attenzione alla sequenza narrativa, non uguale da un libro all’altro ma sempre originale: Glück infatti non scrive unicamente poesie, ma costruisce libri di poesie con un discorso narrativo ininterrotto, inconsueto e straordinario. L’iris selvatico (uscito negli Stati Uniti nel 1992) è un viaggio in un giardino nella bella stagione, la poetessa intitola ogni poesia a un fiore ed è il fiore a dialogare o a descrivere la scena. Nella vicenda si muove l’umano, la poetessa, il marito, il figlio, e le innumerevoli declinazioni che prende il pensiero quando sosta in una meditazione che comprenda natura e persona.

Apre la silloge la poesia che dà il titolo al libro, e lo fa parlando al secondo verso di passaggi, “una porta”, di morte al terzo, che è segno non tanto di chiusura ma di un nuovo esistere, di una nuova voce. È come se già dai primi versi di questa raccolta Glück, parlando attraverso l’iris, mettesse in luce i materiali del suo poetare per creare una possibilità nuova, come a dire che ciò che torna dalla dimenticanza serve a ritrovare qualcosa. Il viaggio nell’estate e nei fiori è un viaggio che comprende la morte, l’incomprensione, la durezza della battaglia, soprattutto nelle ultime poesie in cui compare come titolo un tempo del giorno – “Vespro”, “Mattutino” –  in cui è il poeta a cercare un dialogo con il “padre irraggiungibile” fino alla sua risposta, in “Tramonto”, inudibile se non attraverso dei segni.

Tramonto

La mia grande felicità
è il suono che fa la vostra voce
chiamandomi anche nella disperazione; il mio dolore
che non posso rispondervi
in parole che accetti come mie.

Non hai fede nella tua stessa lingua.
Così delegate
autorità a segni
che non potete leggere con alcuna precisione.

Eppure la vostra voce mi raggiunge sempre.
E io rispondo costantemente,
la mia collera passa
come passa l’inverno. La mia tenerezza
dovrebbe esservi chiara
nella brezza della sera d’estate
e nelle parole che diventano
la vostra stessa risposta.

Averno (uscito negli Stati Uniti nel 2006) è una raccolta composta come un viaggio, un viaggio nel buio delle dimenticanza e nel blu della cancellazione: è un viaggio agli inferi, un percorso costellato da “non” – da ciò che non è, da ciò che non riesce, da ciò che non importa – una costante sottrazione per giungere al nulla, il freddo che ostacola il sentire: “forse già non essere basta del tutto, / per quanto sia difficile da immaginare”.

Qui sta la poetessa, qui sta Glück, nello scrivere ciò che è difficile da immaginare: ciò che resterà dopo la morte, e metterlo in relazione con il presente e il passato. Ai rimandi più evidenti, come Dickinson, emerge un affine sentire e scrivere con Marosia Castaldi che spesso invoca, in Dentro le mie mani le tue, il “blu della cancellazione”, quel neon ospedaliero che in tutto il bianco del reparto tende e ipnotizzare in una continua fetta di presente, quella che va dal letto alla porta. Il delirio ipnotico di Castaldi è esso stesso un viaggio negli inferi della mente, dove oggetti e persone compaiono a ricordare un passato talvolta irriconoscibile. Come in Glück gli oggetti e le persone, correlativi oggettivi di vita, sono ciò che nel suo viaggio agli inferi appariranno più dolorosi nell’immaginare il dopo vita: “Questo è il momento in cui vedi di nuovo /le bacche rosse del sorbo selvatico / e nel cielo scuro / le migrazioni notturne degli uccelli. / Mi addolora pensare / che i morti non le vedranno – / queste cose su cui facciamo affidamento, / esse svaniscono” (da “Le migrazioni notturne”). Il percorso negli inferi è pieno di buio, blu, lo “spazio nero”, una strada in cui la poetessa fissa le tappe della propria esistenza passata e presente e quella della sua famiglia: per fare ciò invoca la presenza del buio, del non vedere che però è al contempo richiamo alla luce, e del “ghiaccio”, del non sentire, un modo di difendersi: “E poi: / il ghiaccio / era lì per la tua stessa protezione / per insegnarti / a non sentire”, “Cielo blu, ghiaccio blu, / strada come un fiume ghiacciato / stai parlando / della mia vita / lei mi disse”. È lo stesso ghiaccio che incontriamo nella poesia di Janet Frame, un ghiaccio che protegge e non fa provare nulla, ne “I ghiaccioli”, Ogni mattina mi congratulo / coi ghiaccioli per il loro rigore. / Penso che abbiano coraggio, carattere, / i loro cuori duri non cederanno mai”. Il ghiaccio è anche in Amelia Rosselli che nei suoi versi chiede “un’armatura gelata” per farsi indifferente: “Ma l’aria, seppur pungente di inverno, non è abbastanza fredda per lei che ora vorrebbe solo esser ricoperta da una pelle che non sente, indifferente, insensibile a tutto ciò che può far male, come un’armatura gelata.”

La sintassi e la punteggiatura in Averno sono come il contenuto, desolate, disruttive, sincopate, essenziali: si accordano al continuo togliere dell’autrice in cerca dell’“anima”, si raccordano con “Il campo inaridito, secco – / l’assenza di vita già in atto / per così dire”. Il viaggio ha fine, ha risalita, ha speranza? “Non sei sola, diceva la poesia, nel buio del tunnel”.

Tordo

La neve cominciò a cadere, sulla superficie di tutta la terra.
Questo non può essere vero. Eppure sembrava vero,
cadeva sempre più fitta su tutto ciò che potevo vedere.
I pini divennero vitrei dal ghiaccio.

Questo è il luogo di cui ti ho detto,
dove ero solita andare di notte per vedere i merli dalle ali rosse,
che qui chiamano tordi,
barlume rosso della vita che scompare –

Ma per me – penso che il mio senso di colpa significhi
che non ho vissuto tanto bene.

Qualcuno come me non evade. Penso che per un po’ dormi,
poi scendi nel terrore della vita che verrà
solo che

l’anima assume qualche forma diversa,
più o meno cosciente di prima,
più o meno avida.

Dopo molte vite, forse qualcosa cambia.
Penso che alla fine quello che vuoi
sarai in grado di vederlo –

Allora non hai più bisogno
di morire e ritornare ancora.

Ararat (uscito negli Stati Uniti nel 1990) è un libro che narra in versi il togliere e lo scavare nella vita e dalla vita, nei versi e dai versi: un narrazione che prosegue attraverso i cerimoniali del lutto alla ricerca della salvezza: nella tradizione leggendaria, infatti, Ararat è il monte della salvezza di Noè, e il “Monte Ararat”, titolo di una poesia, è un cimitero di Long Island. Un romanzo in versi lo si può definire, ogni poesia è un capitolo, e la vicenda che narra è quella di una famiglia, i protagonisti sono i membri della sua famiglia. Se “chiunque può […] amare un’assenza”, quello che fa Glück è cercare di dare invece un nome all’assenza, un sentimento coerente, e così va nel passato e a colpi di machete si fa largo nel buio dei ricordi, sfrondando l’inutile, eliminando l’orpello nel verso, per andare a fissare i fatti e contornare l’assenza.

Qui le sue poesie sono costruite con frasi incisive, una scelta delle parole accurata, una costruzione strutturata e scarna, essenzialità di verso, punteggiatura varia e attenta. Ogni verso, per lo più libero, gode di una sua autosufficienza ma al contempo crea una aspettativa nel verso successivo e un legame col precedente, a creare una narrazione, anche grazie a parole che provengono sia da un lessico alto sia da un lessico colloquiale. Una poesia che, in questo modo, si fa comprensibile, accessibile, aperta alla condivisione dei significati. In Ararat compaiono tutti i temi essenziali del poetare di Glück: esistere, il mondo, la ferita, i grandi misteri, la vita, la morte, le prove. Ogni poesia si schiude con un quadro, dove la protagonista, la poetessa stessa, si deve relazionare con il lutto, la morte, la perdita, la separazione, la mancanza, in una dimensione familiare.

La raccolta, come questa poesia, ruota introno all’elaborazione del lutto e, più specificamente, attorno al luogo cimitero, qui il Mount Ararat; il libro, così come ogni testo, dà l’impressione di srotolarsi di verso in verso, di pagina in pagina, nel dispiegare un mistero, nel cercare di capirne l’essenza e l’assenza. La disperazione è piana, la tragedia è controllata dall’uso sapiente del linguaggio che talvolta lascia affiorare il respiro. Quello di Glück è un incedere parola dopo parola alla ricerca di una rivelazione, e man mano che la rivelazione procede viene meno l’autodeterminazione dell’autrice a essere “un pezzo di legno. Una pietra”, o del “ghiaccio”, come in Averno. Il suo è uno sguardo sulle cose ironico e tagliente, affilato come la vita, che cerca un equilibrio tra il guardare indietro e il cercare un futuro “questo, questo, è il significato di / una vita fortunata: esistere / nel presente.

Molto tempo fa, sono stata ferita.
Imparai
a esistere, come reazione,
fuori dal contatto
con il mondo: vi dirò
cosa volevo essere –
un congegno fatto per ascoltare.
Non inerte: immobile.
Un pezzo di legno. Una pietra.

Perché dovrei stancarmi a discutere, replicare?
Quelli che respiravano negli altri letti
non erano certo in grado di seguirmi, essendo
incontrollabili
come lo sono i sogni –
Attraverso le veneziane, osservavo

la luna nel cielo notturno restringersi e gonfiarsi –

Ero nata con una vocazione:
testimoniare
i grandi misteri.
Ora che ho visto
e nascita e morte, so
che per la buia natura esse
sono prove, non
misteri –

 

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