“Errante, erratica. Pensare il limite tra letteratura, arte e politica” di Diamela Eltit: un estratto

Pubblichiamo, ringraziando il curatore e l’editore, un estratto, “La macchina Pinochet”, dal capitolo “Spettri della dittatura” del libro di Diamela Eltit “Errante, erratica. Pensare il limite tra letteratura, arte e politica” pubblicato da Mimesis con la cura e la traduzione di Laura Scarabelli.

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Riconosco – non posso fare altro – che non pensai mai in maniera seria e approfondita alla morte di Pinochet, da un lato per una certa forma di confusa superstizione: pensavo, infatti, che pensare alla sua morte l’avrebbe mantenuto in vita. Dall’altro, gli anni passavano e lui era sempre lì, ostinato, caparbio.

Preferivo non pensare perché inevitabilmente si apriva la porta del rancore e del tormento. Per questa ragione quando il dittatore – diventato ora il senatore Pinochet – venne arrestato a Londra sperimentai per la prima volta la meravigliosa sensazione di qualcosa di simile alla giustizia, o forse alla vendetta. Il suo arresto mi sembrò un fatto prodigioso, perché, a rigor di logica, il suo viaggio di guarigione a Londra non fece altro che annientarlo, spezzandogli definitivamente la schiena (1). Proprio in quella circostanza incominciò la sua fine. In quel momento la colonna vertebrale che lo sosteneva iniziò a cedere.

Venne deriso. La sua prigione era di lusso, sì, ma le telecamere ripresero da tutte le angolazioni e riportarono su tutti i notiziari un’immagine totalmente inedita: quella di un dittatore che camminava avanti e indietro in un giardino dal quale non sarebbe mai uscito, per un intero anno. Un anno che indebolì l’immagine di Pinochet. I giovani, i figli adolescenti del neoliberalismo, iniziarono a considerarlo uno strambo, un improbabile personaggio scappato fuori da un fumetto. Dopo i fatti di Londra si susseguirono i processi in materia di Diritti Umani. Pinochet perse la sua carica di senatore a vita e, in questo modo, si chiuse definitivamente uno dei capitoli più orrendi della lunga e difficile transizione democratica.

Non ci fu nessun giudice in grado di condannarlo, l’intero sistema politico non riuscì a condannarlo ma, anche senza condanna, la sua immagine continuò a deteriorarsi. I suoi seguaci erano sempre più scarsi, più vecchi e più ridicoli. La destra prese le distanze, l’immagine del Generale non era più conveniente, sottraeva voti, marcava a fuoco. Soprattutto quando vennero resi pubblici i conti della Banca Riggs (2) e si scoprì l’esistenza milioni di dollari depositati sotto falso nome. Questa situazione colpì profondamente la destra: non il crimine, bensì il ladrocinio. Evidentemente la destra era al corrente di questi illeciti, la famiglia del dittatore fu sempre molto pretenziosa. Troppo denaro venuto fuori dal nulla, non dal nulla, in realtà, dai fondi pubblici.

E ora i suoi seguaci non accusavano solamente i “comunisti”, come venivano chiamati tutti i detrattori di Pinochet, ma anche la destra, di aver usato e abusato di Pinochet per i loro scopi economici. Pinochet, che non voleva proprio morire, si ammalò: un infarto al miocardio e un edema polmonare. I suoi seguaci, un centinaio di persone, pregavano per la sua salute. E, come in altre occasioni, sembrava migliorare, camminava su e giù per sua stanza, perfino si diceva che sarebbe stato dimesso. Improvvisamente arrivò la morte, uno scompenso, dissero i medici, impossibile da rianimare.

L’arena mediatica impazzì: Pinochet tornò a occupare tutti gli schermi. Pinochet morto. Si scatenò quello strano fervore che accompagna le morti mediatiche, spuntarono dal nulla migliaia di seguaci di Pinochet in fila per ore a contemplare il volto del cadavere. Rifece capolino anche il volto della destra. Dopo anni di silenzio riapparve sulla scena, per attirare a sé gli elettori. Pinochet non ebbe funerali da capo di Stato. Migliaia di persone celebrarono la sua morte e molteplici associazioni per la tutela dei Diritti Umani e delle vittime della dittatura denunciarono che, nel momento della sua morte, non pesava su di lui nessuna condanna.

Quando realizzai che Pinochet era morto mi dissi: è finalmente morto. Qualche ora dopo pensai che era molto positivo che fosse morto prima di noi, che gli fossimo sopravvissuti. Ma in quel momento pensai anche ai morti, ai desaparecidos, ai prigionieri, alle torture, all’esilio. Penso che Pinochet rimanga in latenza, è una macchina che non si spegne, una macchina di distruzione e di abuso che si chiama Pinochet, in una delle sue identità possibili. La destra politica sbucata fuori durante i funerali si chiama Augusto Pinochet, in uno dei suoi lati oscuri. L’esercito incuba Pinochet tra le sue armi e decorazioni, siamo sopravvissuti a uno dei tanti Pinochet ma ne esistono degli altri e degli altri ancora, all’infinito. Per questo non riposeremo in pace. Mai.

(1) Pinochet giunse a Londra il 22 settembre 1998 per operarsi di un’ernia lombare. Proprio dopo l’intervento, il 16 ottobre, venne arrestato nella sua camera d’ospedale per mandato del giudice spagnolo Baltasar Garzón, che poi avviò la procedura d’estradizione per corruzione e crimini contro l’umanità. Eltit gioca sull’ironia del destino, che trasforma il viaggio di guarigione programmato dall’ex-dittatore nell’inizio della sua fine.

(2) La Banca statunitense Riggs per anni amministrò i conti segreti di Pinochet. A seguito delle denunce aperte da Baltazar Garzón, fornì importanti informazioni sui movimenti bancari del dittatore, oltre a indennizzare le vittime di desaparición con 8 milioni di dollari.

 

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