Il falso Borges

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Questo pezzo è uscito sull’Unità, che ringraziamo.

Una delle poesie più famose di Jorge Luis Borges non è di Jorge Luis Borges. S’intitola Istanti e su Google è citata decine di migliaia di volte. La storia del suo successo non si limita però all’apprezzamento di tanti anonimi fan. L’ultimo ad aver abboccato è stato Fabio Volo, che l’ha declamata con grande enfasi durante il suo programma mattutino a Radio Deejay, ma nel corso del tempo aveva già ispirato un’opera d’arte contemporanea di Riccardo Orsoni, era stata menzionata in un romanzo di Sergio Calamandrei e in un manuale di lingua castigliana (Por supuesto 2 di Joaquin Masoliver), fu usata nello spot pubblicitario della compagnia di assicurazione spagnola Mapfre, e il cantante degli U2 Bono Vox la recitò alla televisione messicana. Tutti, naturalmente, credendola autentica.

Se ne occupò perfino il Centro Borges della Pittsburgh University, al quale pervenivano numerose richieste di expertise dai lettori che non trovavano quei versi nell’opera omnia dell’argentino. L’ente, preoccupato per il diffondersi del falso che sembrava impermeabile a ogni smentita, incaricò il professor Almeida di individuarne il responsabile. Al termine di una lunga ricerca, lo studioso rintracciò due versioni simili dalle quali era stata tratta la poesia, una firmata dal caricaturista Don Herold, che la pubblicò nel 1958 sul Reader’s Digest, e l’altra uscita su un giornale del Kentucky vent’anni dopo ad opera di Nadine Strain. Entrambe presentavano il medesimo titolo: If I had My Life to Live over («Se potessi vivere di nuovo la mia vita»), sul modello della celebre If di Kipling, cioè come un elenco di cose che l’autore farebbe diversamente se gli fosse concessa una seconda opportunità.

Nel passaggio da una variante all’altra si contano parecchi adattamenti, ma i più consistenti si avvertono nell’ultima, quella ascritta a Borges, e sono l’abbandono della prosa in favore della lirica e la chiusa patetico-testamentaria («ma ho 85 anni e so che sto per morire»). È pur vero che fu lo stesso Borges (in saggi e racconti come Pierre Menard) a istigare la pratica dell’apocrifo, sostenendo che la valutazione di un testo è condizionata da fattori esterni, in primis dall’autore cui lo si attribuisce, come se l’opinione del lettore comune fosse irrilevante.

Succede qualcosa di analogo al fruitore del ready made nell’arte contemporanea, il cui spazio critico è confiscato perché non gli si chiede di esprimere un giudizio estetico, bensì di ratificare quello più autorevole di chi l’ha preceduto. In questo senso l’apocrifo di Istanti vanta precedenti illustri.

Nel 1984 uno sconosciuto, stanco di vedere respinti i suoi scritti dalla rivista Nuovi Argomenti, decise di vendicarsi inviandogli un falso racconto di Borges intitolato Il mistero della croce. Millantando la traduzione di Franco Lucentini e la licenza editoriale di Franco Maria Ricci, il testo fu incautamente pubblicato. In seguito il vero autore partecipò al programma televisivo Io confesso con Enza Sampò, in cui svelò l’inganno restando però anonimo nel timore di ritorsioni, giacché lavorava nell’ambiente editoriale.

Oggi questa beffa assume i tratti di un formidabile apologo. Nella vicenda del protagonista, che abdica a se stesso pur di vedere pubblicato il suo lavoro, è in gioco la titolarità dell’opera come problema metafisico. L’impossibilità di sposare il proprio nominativo al destino pubblico dell’opera è il segno della radicale inappartenenza di quest’ultima all’artefice; il quale, nell’istante del suo compiersi, ne ha già esaurito ogni diritto di paternità, anche puramente formale. Prelevato dal cassetto e consegnato al mondo, ogni testo è anzitutto apocrifo. E in verità lo è costitutivamente e da sempre, perfino nel segreto di una sua mancata divulgazione.

A questo episodio si riallaccia l’autentico racconto Borges ed io, incluso nella raccolta L’Artefice. Qui, nell’incontro dell’autore famoso con lo sconosciuto che gli presta il nome, dai più interpretato come la rappresentazione della scissione fra l’io pubblico e quello privato, l’eterna e inconciliabile dicotomia della maschera e il volto, c’è tutta l’incapacità dell’artista di convivere con la sua prosaica incarnazione terrena. E non tanto perché mediocre in assoluto, quanto perché, pur nello sfoggio di ogni virtù, irrimediabilmente estranea; eppure è ad essa che il mondo attribuirà (anche nel senso di rendere tributo) l’opera.

Niente può lenire il trauma dello spossessamento, sembra dirci lo scrittore triestino Francesco Burdin nell’epilogo della sua novella intitolata Manes. Il protagonista, ghost writer di un capolavoro acclamato, visto il successo del proprio libro contravviene ai patti e cerca di rivendicarne la paternità. Incapace di rassegnarsi all’anonimato, tenta con ogni mezzo un impossibile recupero, fino al gesto estremo, il plateale omicidio-suicidio dell’usurpatore (sulla scia del William Wilson di Edgar Allan Poe), quasi a farci capire che l’unica alternativa all’opera apocrifa rimane quindi, di fronte all’umanità, l’opera postuma.

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