di Adele Errico

Alla domanda “Perché scrive?”, Flannery O’Connor rispondeva “Perché sono brava”, “perché mi riesce bene”. Queste parole lasciavano sbalorditi intervistatori, studenti, curiosi che erano in attesa di risposte, magari, più complesse e personali. Ma quando, nell’intimità della sua camera, nel tepore della malattia, nell’intesa con “A.”, la sua confidente epistolare, si ritrova a dover rispondere alla stessa domanda quello che ne risulta è molto diverso: “La scrittura è un bell’esempio di autorinuncia. Io non dimentico mai completamente me stessa come quando scrivo e non sono mai completamente me stessa come quando scrivo” (Flannery O’Connor, Un ragionevole uso dell’irragionevole, minimum fax, 2019, p. 342). Le ragioni sono allo stesso tempo la consapevolezza e la dimenticanza, il sentirsi vivere dentro come non riesce a fare fuori, percepire la vita con la mente come non riesce a fare con il corpo. Flannery O’Connor non esisterebbe senza la sua scrittura. La scrittura sofferta, la scrittura pregata, la scrittura supplicata e invocata. “Per favore aiutami, caro Dio, a essere una brava scrittrice” (Flannery O’Connor, Diario di preghiera, Bompiani, 2016, p.5) scriveva nel diario di preghiera e quell’invocazione rivolta a Dio diventa implorazione a superare la pigrizia e la consapevolezza che “è più piacevole sognare ad occhi aperti che lavorare” (p. 38). Ma quando il desiderio di scrittura finalmente giunge e la infiamma, allora quelle ossa inutili che si ritrova non le servono più e possono anche bruciarle dentro, corrodendosi sotto la pelle nell’ardore di quella passione.

La scrittura è il suo corpo, scrivere le consente di arrivare là dove non lo consentono le sue gambe: all’età di ventisei anni, quella che i medici credevano fosse artrite reumatoide, le viene diagnosticata come lupus eritomatoso diffuso, la stessa malattia che le aveva portato via il padre quando aveva solo quindici anni. Dopo nove mesi trascorsi a entrare e uscire dall’ospedale di Atlanta, non è più in grado di salire le scale e la madre decide per il trasferimento nella casa in campagna. Comincia a essere costretta a usare le stampelle e dopo sei mesi, le viene detto che non potrà sbarazzarsene mai, dovrà sorreggersi sempre su quelle “gambe d’alluminio” (O’Connor, Minimum fax, 2019, p. 228) e assomigliare, così, a una “struttura ad archi rampanti” (p. 256). Flannery accoglie la malattia come un dono del Signore, piacevole come “una pallottola nel fianco” (p. 158). Il lupus la trasforma. La debilita nel fisico ma la rafforza nell’animo. Mentre il cortisone le gonfia la faccia “come un cocomero” (p. 182), la consapevolezza di dover scrivere il primo romanzo si rafforza. Mentre i capelli le cadono e rimane “praticamente calva in cima alla testa” (p. 182), i suoi personaggi si alzano tra le zolle delle terre del Sud per insinuarsi nei suoi racconti. Mentre le ossa, prive di calcio, “si stanno sciogliendo o sgretolando o diventando porose o che so io” (p. 332), la sua lingua si dimena e lotta per raccontare. Mentre “il cervello muore di sfinimento” (p. 229) sotto l’effetto del cortisone, i personaggi del suo primo romanzo, La saggezza nel sangue, assumono forma e come racconta in una delle lettere ad “A.”

(…) in quel periodo in un certo senso vivevo sia la mia vita che quella di H. Motes, e siccome la malattia mi colpiva le articolazioni, mi andavo convincendo che alla fine mi sarei trovata paralizzata e cieca e che nel libro avevo presagito il mio destino (p. 182).

Quando per Flannery gli amori non arrivano (“E per quanto riguarda l’altro aspetto sentimentale, l’amore, potrebbe continuare a illuminare la mia esistenza solo come prodotto della mia fantasia” – p. 317), quando il dolore la piega a metà, la spezza, la infrange, quando viene meno il coraggio di guardarsi allo specchio (“il più delle volte non sembro nemmeno io, o magari sembro come sarò un paio di giorni dopo la mia morte” – p. 361), la scrittura diventa salvezza. Vive in funzione e per mezzo della scrittura. Scrive racconti, diari, romanzi, lettere e così tesse rapporti, contatti, amicizie che dureranno fino alla morte, a 39 anni. Ma la scrittura non è la sola passione a tenerla in vita.

Io lavoro solo un paio d’ore al giorno perché è tutta l’energia che ho a disposizione, ma in quelle due ore non permetto a niente di interferire: stesso orario, stesso posto (p. 291).

Terminate quelle due ore giornaliere di scrittura intensa, Flannery abbandona la sua stanza e si dedica alla cura dei suoi pavoni. La passione per i volatili la accompagna da quando è solo una bambina, quando a sei anni riesce a insegnare a una gallina a camminare al contrario. Da allora si interessa a tutti i tipi di volatili, inizia ad allevare polli, prediligendo “quelli con un occhio verde e uno arancione, o con il collo troppo lungo e la cresta deforme” (p. 35). Fino a quando, un giorno, non decide di spendere 65 dollari in una coppia di pavoni. Quello che nasce come interesse di ricerca, si muta in passione e il numero dei pavoni cresce a dismisura: “Ne voglio così tanti da trovarmene uno fra i piedi tutte le volte che esco di casa” (p. 38). Quando, poi, le chiedono di scrivere un pezzo su rivista sui suoi pavoni, Flannery O’Connor scrive, dunque, un articolo dal titolo “Il re degli uccelli”, in cui la narrazione di questa passione e la dimostrazione dell’incredibile esperienza acquisita di questa tipologia di volatile fanno da fulcro. Il pavone, il re degli uccelli, è una creatura complessa e meravigliosa che non tutti sono in grado di apprezzare. Osserva come per molti sia un animale inutile, per altri un animale da intrattenimento, per via dello spettacolare uso che fa della coda. Alcuni vorrebbero che il volatile facesse la ruota a loro piacimento e quando, in seguito a petulanti insistenze, vengono ignorati dal pavone se ne vanno stizziti. Nella sua casa in campagna gremita di pavoni, Flannery li osserva e li cura come creature superiori.

Superiori all’uomo anche per il solo fatto di essere animali, in quanto più vicini – come sosteneva sant’Ambrogio – al mistero di Dio perché, nell’ordine della Creazione, precedono gli uomini. Inoltre, i pavoni sono simbolo di Cristo, rappresentano l’immortalità dal momento che, secondo le credenze popolari e secondo sant’Agostino, la loro carne non andrebbe mai in putrefazione e sono simbolo di resurrezione, perché ogni anno rinnovano le piume. I pavoni, con il collo lungo, le estremità delle ali color argilla, gli artigli affilati, il petto blu e la coda immensa, colorata, cangiante dal bronzo al verde, sono “intrusioni della grazia” (p. 88) nella vita quotidiana. Chiusa nella sua cameretta, Flannery scrive di profeti fasulli seppelliti in una bara troppo piccola dalla quale spunta fuori una pancia grottescamente comica, di ladri di gambe di legno, di predicatori ciechi e bambini annegati. Scrive di loro e cerca, per loro e con loro, un manifestarsi della grazia divina nelle loro vite, una grazia che è come la scrittura, una forma di “autorinuncia”, che sale e scende come la marea, che può salvare le anime perdute nel “territorio del diavolo” (p. 90), nella terra infestata da Cristo, tra fanatici e greggi di uomini investiti dal male. Cammina insieme a loro, a Hazel Motes, a Enoch, a Francis, a Mason, a Parker, al Balordo e cerca di scovare barlumi di grazia nelle loro vite appestate da Cristi che, tra i boschi, si arrampicano di albero in albero per depositarsi in fondo alle loro menti, attirandoli nel buio, in un’oscurità senza fine. Quando, poi, finito di scrivere, raggiunge il cortile, allora è il suo turno di ricerca della grazia, che risiede nei colori di quei pavoni:

Negli ultimi tempi faccio un sogno ricorrente: ho cinque anni e sono un pavone. Un fotografo è stato inviato da New York e per l’occasione è stato apparecchiato un lungo tavolo. Sarà servito un pasto speciale: la sottoscritta. Urlo: “Aiuto! Aiuto!”, e mi sveglio. Poi dallo stagno, dal fienile e dagli alberi intorno alla casa sento che inizia quel coro giubilante:

Lii-ooo lii-ooo,
Mii-ooo mii-ooo!
Iii-i-ouu iii-i-ouu!
Iii-i-ouu iii-i-ouu! (p. 49).

Il coro giubilante dei pavoni la salva dall’incubo. È la grazia che, nel gorgogliare delle loro gole, nel roteare delle loro piume, si introduce nell’incubo per dissiparlo, nella sua vita per illuminarla. È la grazia che le rende il corpo leggero, di là dal dolore e dalla malattia. È la grazia che le dona il vigore della mente mentre le ossa le si disfano in brandelli. È la grazia che fa di quella stampelle non ingombranti gambe di alluminio ma ali, come quelle dei suoi pavoni, che la aiutano a librarsi, come creatura meravigliosa, nelle coscienze di chi la legge.

 

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