Freeman’s. Voci sull’amore e sull’oblio in ventuno incursioni poetico-narrative

Nel descrivere il suo lavoro di traduzione alle Visioni di Blake, Ungaretti riconosce nella memoria la chiave per il ritorno o l’illusione del ritorno all’innocenza, come appreso da Mallarmé. “L’uomo che tenta di arretrarsi sino al punto dove, per memoria, la memoria si abolisce e l’oblio illuminante: estasi, suprema conoscenza, uomo vero uomo – è dono di memoria”. Sembra nutrirsi di tale immagine John Freeman per muoversi nella verticalità del tempo e tracciare nel nuovo numero della rivista letteraria antologica Freeman’s, Black Coffee, una cartografia poetico-narrativa dell’amore composta da voci e incursioni di natura diversa.

Cosa può fare di noi l’amore, e noi di lui?, è l’interrogativo a cui sono stati chiamati a rispondere ventuno autori di provenienza e formazione diverse, dalla canadese Anne Carson, al norvegese Niels Fredrik Dahl, la giapponese Mieko Kawakami, il bosniaco Semezdin Mehmedinović e la polacca Olga Tokarczuk. Un mosaico in prosa e versi che si apre con sette fulminanti corti per poi proseguire un percorso costantemente teso tra potenti rimandi simbolici e costanti avanzamenti e arretramenti tradotti in prose ritmiche in grado di dilatarsi o restringersi. Un ritratto eterogeneo, composto da immagini fugaci da luoghi della memoria ormai irraggiungibili, storie dell’infanzia che raccontano la cura, voci di alberi, musica di sigari, cuciture di calzini come esili fili contro la dissoluzione dell’altro, e cigni che si muovono leggeri sull’ignoto.

Diventano opachi i contorni del reale nelle confessioni e nelle visioni costruite sulla pagina per aprirsi a chi legge. In tale prospettiva la distanza misura il dolore di una perdita, rendendo i dettagli minimi i custodi di un significato che esula dagli eventi narrati. Può allora accadere che un’infradito abbandonata a bordo piscina a Santa Fe accenda i ricordi di un amore lontano (Deborah Levy), un paio di scarpe di cotone descriva l’ostinazione nell’attaccamento ai propri luoghi – la Shangai narrata da An Yu – per contrastare il terrore dello sradicamento, e un braccialettodiventi la promessa d’amore tra una nonna rimasta in Etiopia e sua nipote, che con la partenza in America prosegue un viaggio iniziato prima della sua nascita, come narra Maaza Mengiste.

Ho immaginato che sarei rimasta la stessa persona al momento di dare la mia parola io ti prometto, ti giuro. Eppure: quale «io» resta indenne alla vita?

Il percorso attorno alla parola che prende forma in Freeman’s si nutre di costanti ingrandimenti sul particolare personale reso emblema di una condizione riconoscibile e condivisa. La labilità delle relazioni, l’incertezza e la difficoltà nel trovare la propria via nell’incontro con l’altro risentono di deviazioni e deformazioni: nei compromessi dell’ambito accademico narrato da Anne Carson; in quel che resta di un poeta – una biografia non più attendibile, il ricordo imbarazzante di un incontro mancato in albergo e la morte a coprire ogni cosa, come nei versi di Valzhyna Mort – e negli affanni adolescenziali resi da Marco Rossari nel racconto della perdita dell’innocenza in una società gravata da dinamiche maschiliste.
Che si tratti di prose poetiche o di narrazioni, ogni contributo pare costruito a partire da un intrico di analogie che trova nel verso l’esaltazione delle sonorità dell’intimo e nei racconti i bagliori degli entusiasmi fugaci e la penombra di un dolore privato.

Sono le notti disperate, le notti giovani tra lacrime e sesso, a narrare debolezze e fragilità di amanti perduti quando, come racconta Mariana Enriquez, la sospensione e l’attesa sono il preludio a una fine non accettata. I tentativi di rifuggire la realtà, come racconta Matt Sumell, conducono a cercare furiosamente di seppellire i sentimenti invece di accoglierli. Ma cosa accade se si prende coscienza di un amore guasto che narra l’inadeguatezza, un’estensione che secondo Tommy Orange “non unisce ma rende vaga la nostra relazione”?

Quando tra il disordine si fa strada il rimpianto, l’attesa e l’incertezza di chi sembra non riuscire a evadere dal proprio torpore diventano sulla pagina sagome che riemergono dalla penombra. Sono visioni evanescenti i viaggi notturni di Daniel Mendelsohn, i tentativi di trovare l’amante giusto che possa riempire i vuoti dell’insonnia per comprendere che “il luogo della psiche dove ha origine la nostra capacità di amare si trova talmente in profondità che i nostri tentativi di raggiungerlo, di scavare un tunnel per portarci luce e aria, saranno sempre fallimentari”.

Abbagli di un paradosso colto da Mieko Kawakami nel titolo di un dipinto – Paradiso – che narra un’unione inviolabile, in un tripudio di immagini che conduce chi guarda nella dimensione brutale e opprimente del sogno. A rappresentare un elemento comune nei testi una visione della scrittura sul margine tra una realtà concreta resa per elementi riconoscibili e dettagli minimi, e situazioni misteriose, oscure, che si aprono al vuoto. Rinnovare il quotidiano allestendo con toni luminosi e tragici i momenti che lo scandiscono può allora narrare la costante mutevolezza dell’esistenza tra la noia e l’incanto.

La misura dell’amore risiede nell’attesa, avvertono i versi di Louise Erdrich, si cela nella cura del ricordo, annuncia Semezdin Mehmedinović quando gli esiti di un ictus – la rimozione degli ultimi quattro anni di vita – conducono a rimodellare la routine del quotidiano sulla ripetizione. Il segreto anelito del ritorno impossibile a una condizione precedente genera la continua replica di gesti, visite a luoghi cari in un paese straniero – gli Stati Uniti, nuova patria dopo la guerra in Bosnia – nel vano intento di arginare la dimenticanza.

Sono brandelli dell’esistenza dell’autore a comporre nel tempo del racconto la trama di una drammatica finzione. Mehmedinović ordisce il distacco che vive chi si sente più vicino ai morti che ai vivi e non si riconosce nei luoghi della maturità, sopravvivendo al pari di un profugo costantemente diviso tra la perdita e l’illusione. Risiede nell’antagonismo tra i due poli – la terra d’origine e quella d’approdo – la natura di un esilio perenne che cela una solitudine misurata anzitutto attraverso ciò che la lingua è in grado o meno di rendere, per intravedere in tale scarto la raffigurazione dell’oblio.

È la zona franca della malattia a congelare attese e disillusioni – racconta Daisy Johnson – per destinare uno spazio a parte alla manifestazione di un legame nei gesti che precedono la fine. Una giovane vita si consuma di fronte all’impotenza di una sorella che si inventa rituali assurdi per non arrendersi all’inesorabile, dalla ciotola di latte con l’aglio sotto il letto ai bigliettini nascosti. Sarà però l’ultima attenzione, la costruzione di un pupazzo di neve per lei, a rappresentare un appiglio nella memoria, un sentimento destinato a permanere nonostante la trasformazione della materia che lo genera. Johnson definisce la comune incapacità di dominare quel che sovrasta l’essere umano, su cui è vano qualsiasi tentativo di controllo, per assegnare alla costruzione di un nuovo inizio sulle fondamenta del ricordo la via per sopravvivere al presente.

Un’indagine sul corpo, sul peso di ruoli imposti in ambito famigliare che nel racconto di Marco Rossari si sofferma sui tentativi di una giovane donna di collocarsi nell’esistenza nella costante percezione di incarnare un’antica vergogna e paura e con l’urgenza di un riscatto tra piccole crudeltà inferte dopo le innumerevoli subite.

A reggere l’intera raccolta la costante tensione tra un richiamo interiore a riferimenti emotivi primari, fugaci visioni naturalistiche e una raffigurazione fisica e a tratti carnale del rapporto tra l’individuo e il mondo che lo circonda. I tentativi di ricostruire un rapporto con la realtà sono nascosti nelle sottili analogie e negli scorci di tenerezza e dolore di chi prova a sopravvivere a una perdita e si interroga velatamente su quel che rimane dell’individuo che ha ceduto una parte di sé all’altro.

La segreta brama di annullare le distanze per assorbire un logoramento che impedisce scambi e annulla le parole porta a chiedersi come farcela, come Niels Fredrik Dahl, a “essere più vicino, sempre un po’ più vicino a te, come una dottrina stanca, forse, una caparbietà a cui non ho diritto, ma non cheta come quella nel cuore della tua inquietudine, senza gesti, più vicino alla pelle”.

Non risiede allora in quel che si palesa di sé, ma soprattutto in ciò che si nasconde, scopre Richard Russo, la misura del disfacimento amoroso, che nello scambio fisico e materiale traduce la deriva stabilizzata di una relazione, come sottendono i versi di Robin Coste Lewis. Se un melo insegna l’attesa, la pace, e la pazienza, intuisce Gunnhild Øyehaug, “un sognatore/ deve sognare come sognano gli alberi/ di frutta alla fine” (Inger Christensen). La parola rivendica il valore della contaminazione come necessario esito delle continue immersioni in un dolore ignoto e nitide emersioni sonore.

L’amore come manutenzione del ricordo secondo Olga Tokarczuk segue la lentezza e la solennità dei gesti minimi di un uomo smarrito dalla scomparsa di sua moglie. Preda dell’improvvisa consapevolezza di essere asincrono rispetto allo scorrere del tempo, conviene con la vicina di casa di essere come le vecchie clessidre: “A forza di scendere, lentamente i granelli si smussano e si consumano facendo scorrere la sabbia più in fretta”. Lo tormentano la presenza e il significato delle cuciture nei calzini. Quelle su cui Antonella Anedda in Salva con nome si interrogava, contemplandole come fili invisibili tra passato e futuro, mentre si muore e intorno “ci cresce la vita e la realtà si addensa, si intreccia, diventa una radice che sale fino a un tronco e ridiventa foglio”.

L’amore come melodia si innesta con Sandra Cisneros sulle note di el Hokey Pokey per trasformarsi in verso, e comporre il gioco, la fuga, i ritorni possibili o letali, davanti al costante interrogativo: “Chi siamo noi?”. La musica e l’armonia delle parole tratteggiano il movimento del testo, restituendone i restringimenti e i punti in cui allargandosi cede, per costruire un senso ulteriore, collettivo, che sovrasta quello strettamente letterale.

Il rilievo di Freeman’s risiede nella capacità di restituire l’insieme nella dissonanza per sottrarsi, grazie al suo tessuto composito, alla prevedibilità linguistica e semantica e rivendicare, così, l’identità del discorso poetico-narrativo. Una ricerca ininterrotta che tra immagini vorticose, imprese tragiche, coincidenze e occasioni perdute, mostra le immagini sul vuoto di una potente ispezione negli abissi.

Le immagini costruite nelle narrazioni riecheggiano nei versi per affondare inesorabilmente nello stesso mistero. Sono i componimenti di Andrew McMillan a indicare la sospensione finale. La quiete del lago è un’illusione di pace, in attesa di uno stravolgimento, reso ripercorrendo l’evoluzione dell’individuo nell’apprendere a avanzare nell’esistenza, metaforicamente resa nel costante riferimento all’acqua. La disposizione grafica dei versi ritrae la grazia del cigno “minuto sbucato dall’uomo come nube precipitata sull’acqua/ ora è soltanto pioggia madre tanta così tanta/ percuote il lago lo porta a ebollizione/”, che impone con la sua bellezza l’accettazione di un orrore oscuro, custodisce un pregiudizio da cui deve ripulirsi, da estirpare per riuscire a trasformarsi. Il terrore che incede, inesorabile, degrada ogni cosa, la bellezza, l’amore, la vita, radicandosi nella parte più oscura, in attesa dell’ultimo movimento.
“[…] ho sollevato entrambe le inutili ali solo carne ora/ nulla per il vento da voler sostenere/ lo specchio è andato in frantumi con le correnti/ mi sono rialzato trasalito mi sono visto/ in frantumi precipitare verso me stesso”.

 

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