“Ignorare l’assenza” di Valeria Roma

Pubblichiamo, ringraziando l’autore e l’editore, un estratto dal libro di Valeria Roma Ignorare l’assenza. La letteratura palestinese nell’immaginario italiano (Meltemi) con i rispettivi testi antologici.

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Ignorare l’assenza: tale è il complesso e paradossale obiettivo di questa ricerca. Parlare, attraverso la letteratura, di una realtà e di una storia invalidate dalla ideologia coloniale e razzista più potente mai esistita.

La capacità di conquistare un territorio dipende solo in parte dalla forza fisica: vi è piuttosto una forte componente intellettuale e morale che rende la conquista stessa secondaria a un’idea, che legittima (e quindi facilita) l’uso della forza con argomentazioni prese dalla scienza, dalla morale, dall’etica e dalla filosofia.

Tutto parte da un’idea. Il movimento sionista nacque sulla base di una potente e radicata ideologia, che ebbe come esito la fondazione dello Stato di Israele. Parte integrante di questa ideologia era la cancellazione del popolo palestinese dalla terra di Palestina: la sua presenza era considerata fastidiosa e ingombrante, stridente contro il progetto dei sionisti europei di creare la prima nazione al mondo etnicamente e religiosamente pura. Per questo motivo, la guerra contro il popolo palestinese è stata intrapresa, oltre che sul piano dell’espropriazione e dell’occupazione territoriale, anche su quello delle immagini. La Palestina per come era prima dell’arrivo dei sionisti doveva essere fatta scomparire o, nei casi in cui ciò non fosse stato possibile, marginalizzata agli occhi dell’opinione pubblica internazionale. I palestinesi, quando non sono scomparsi dalla propaganda culturale, sono stati rappresentati variamente, o come popolo arretrato, o come bestie, o come terroristi, o come massa indistinta di uomini privi di aspirazioni individuali.

I libri di testo in uso nelle scuole hanno giocato la loro parte, contribuendo, attraverso la costruzione di un’immagine deformata dei palestinesi, a educare i giovani studenti alla normalità della discriminazione.

La propaganda islamofobica ha completato l’opera: da più di vent’anni a questa parte la religione islamica è diventata il bersaglio preferito delle politiche identitarie e reazionarie dei governi degli stati occidentali, Italia compresa. A essere preso di mira è l’Islam, non tanto come religione quanto come simbolo della cultura delle popolazioni arabe e della loro storicamente attestata resistenza all’oppressione europea. Fra tutte le popolazioni arabe, quella palestinese in particolar modo ha, con le sue lotte, sia ostacolato gli eserciti che contribuito a danneggiare la consolidata immagine pubblica dell’Occidente come portatore di valori morali irreprensibili. E tanto maggiore è la paura delle sollevazioni popolari quanto più violenta è la guerra preventiva volta a contrastarle.

Nel caso specifico della Palestina, le cose non stanno così come sono state raccontate. Esiste una letteratura palestinese contemporanea che testimonia l’esistenza di una quotidianità, di un desiderio di rivalsa, di una creatività quanto mai vivi nella popolazione. Questa letteratura vanta una buona presenza anche nell’immaginario letterario italiano, ovvero nella letteratura circolante in Italia e scritta in italiano, o come lingua originale o come lingua di traduzione. Essa contribuisce ad allargare gli orizzonti della letteratura italiana per come oggi viene insegnata nelle scuole: lo fa nei contenuti, negli stili, nel valore etico e sociale delle storie.

Le opere degli autori palestinesi, in particolare, testimoniano di quanto ancora sia alto e riconosciuto il valore simbolico della Palestina, vera e propria fucina di ideali anticolonialisti e antirazzisti, che restano un punto di riferimento per i movimenti di popoli in tutto il mondo. Convinzione di chi scrive è che, nella società sempre più anestetizzata e indifferente di oggi, di questi valori ci sia un gran bisogno. A partire da luoghi di formazione come la scuola, va intrapresa una vera e propria lotta contro una malattia: quella della discriminazione contro una popolazione – non l’unica al mondo, senza dubbio la più significativa – cancellata dalla storia, dalla geografia, dalla letteratura.

Nella presente ricerca si traccerà una mappa della letteratura palestinese nell’immaginario italiano nell’ambito specifico del genere narrativo (romanzi e racconti brevi). Oggetto di analisi saranno le opere degli autori di origine palestinese immigrati in Italia che hanno scelto l’italiano come lingua originale di scrittura; quelle degli autori di origine palestinese che hanno scritto nella propria lingua madre o in altre lingue che successivamente sono state tradotte in italiano; quelle – molto esigue – degli autori italiani che hanno scritto a proposito della Palestina.

L’immaginario italiano risultante dalla convergenza di queste opere letterarie compone una sorta di mosaico le cui tessere sono gli oggetti, le tradizioni, i giochi, ma anche le macerie della Palestina dimenticata. Un mosaico che chi scrive restituisce idealmente al popolo che ne è stato privato per quasi un secolo.

La frammentazione costituisce una cifra della ricerca. Ma chi scrive sa che questo è il prezzo da pagare per provare a stare in equilibrio nella complessità, cercando nuove soluzioni, formulando proposte impensate. Come scrive Glissant: “Dobbiamo avere la forza immaginaria e utopica di capire che il caos non è il caos apocalittico della fine del mondo. Il caos è bello quando se ne concepiscono tutti gli elementi come ugualmente necessari”.

I fazzoletti di seta

Impossibile non pensare a Calvino leggendo La signora di Tel Aviv, romanzo di Rabai al-Madhoun. Numerose sono le affinità con Se una notte d’inverno un viaggiatore: personaggi che escono dalla pagina per diventare reali; autori di romanzi che si ritrovano a essere essi stessi personaggi delle storie che stanno scrivendo; finali aperti; espliciti appelli alla collaborazione del lettore. L’istanza narrativa non è mai univoca, identificandosi alternativamente con l’autore, l’eroe o il narratore, e risolvendosi in un’entità misteriosa che si muove, agisce, ricerca senza soluzione di continuità nella realtà e nel romanzo, nella verità e nell’ombra.

Gli espedienti metaletterari utilizzati da Rabai al-Madhoun sono tanti e tali che quest’opera rappresenta il vero salto della letteratura palestinese contemporanea nel postmoderno. Non a caso, La signora di Tel Aviv risultò candidato nella short list dell’IPAF (Internation Prize for Arabic Fiction) nell’edizione del 2010.

Questa, in sintesi, la trama del romanzo: il protagonista Walid Dahman, giornalista e scrittore che da decenni vive e lavora in Inghilterra, riesce a tornare e Gaza dopo trentotto anni di assenza: vuole far visita alla madre e rivedere alcuni cari vecchi amici. Vi riesce in virtù del suo passaporto britannico. Durante il volo verso Tel Aviv, Walid si imbatte in una misteriosa e affascinante viaggiatrice, Dana Lahova, attrice israeliana famosa per aver recitato in alcune serie televisive di successo. Walid le racconta la trama del romanzo che sta scrivendo: il protagonista è Adel al-Bashiti e anche lui torna a Gaza dalla Germania, suo paese di residenza. Scopo principale del viaggio di Adel è la ricerca dell’amata Layla, di cui si era perdutamente innamorato in gioventù e il cui marito è morto di recente. Walid confessa a Dana di non aver ancora chiaro quale finale dare al racconto: il suo viaggio a Gaza servirà anche a questo. In Palestina Walid intende mettersi sulle tracce del personaggio da lui creato, mettendo a confronto il viaggio da lui compiuto nella sua immaginazione di romanziere con il viaggio reale. Quale titolo dare al romanzo? A questo dilemma dello scrittore Dana fornisce una risposta soddisfacente, suggerendogli di intitolarlo Due ombre per una casa: “Noi, Walid, siamo due ombre di due tragedie che ci hanno riuniti in un solo luogo”. Tale scelta appare ulteriormente suffragata dalla circostanza che, riflette Walid a voce alta, l’incontro con Dana diventerà esso stesso materiale per l’evoluzione del suo racconto. Nella percezione dello scrittore la realtà è già parte della storia; le persone reali sono già personaggi dell’intreccio romanzesco:

La cosa più bella del viaggio è l’alterazione della realtà davanti al viaggiatore […] La sua presenza mi ha salvato da una narrazione che avrebbe potuto finire col presentare una normalissima storia d’amore tra Adel e Layla […] Siamo tutti e due il personaggio di un romanzo i cui eventi prendono forma ora. L’autore ci sposta, ci conosce più di quanto conosciamo noi stessi. E prima che me lo chieda, le confermo che io non lo conosco, né tantomeno so il titolo del romanzo di cui ha fatto me protagonista; è stato soltanto per il puro caso a farla partecipe in quanto eroina. Perché anch’io, come lei, non posso uscire dal testo, intrufolarmi sulla copertina e leggere cosa c’è scritto su.

L’opera di al-Madhoun si rivela, al suo fondo, un’indagine sull’identità palestinese. Il racconto delle complesse vicende dei singoli personaggi e la tortuosa intromissione dell’immaginario nel reale, e viceversa, non sono che pretesti per riflettere su come l’identità degli uomini e delle donne palestinesi sia oggi multisfaccettata, riluttante all’analisi, irriducibile alle etichette semplificatorie e discriminanti della nazionalità, della cittadinanza, dell’appartenenza religiosa.

Un episodio su tutti risulta emblematico di questa ricerca sull’identità, per sua natura destinata a rimanere inconclusa. Walid rievoca la giornata trascorsa a Gaza quasi quarant’anni prima, alla vigilia della sua partenza per il Cairo, dove si sarebbe recato per concludere la laurea in storia. La madre lo invita a far visita alla tomba del padre, morto per un attacco cardiaco anni prima. Lui è inizialmente reticente, non amando i cimiteri, ma infine si convince. Sulla tomba del genitore gli si palesa un inaspettato ornamento:

Walid alzò gli occhi verso la tomba di cemento. Prese ad osservare l’ombra delle foglie dell’acacia […] Si meravigliò dei fazzoletti trasparenti ricamati coi colori dell’amore appesi ai rami che svolazzavano con una timidezza antica […] era stata sua madre ad appendere quei fazzoletti ai rami dell’acacia ogni volta che era andata sulla tomba di suo padre? O era stata Sawsan ad ornare l’albero sulla sua testa con quei pezzi di stoffa?

Il nonno gli aveva rivelato alcuni particolari sulla morte del padre: l’attacco cardiaco era stato la conseguenza del licenziamento dal centro di distribuzione dei rifornimenti dell’UNRWA, con l’accusa di aver rubato dei pacchi. Accusa che, era stato successivamente chiarito, gli era stata falsamente attribuita dal direttore del centro, innamorato di Sawsan, donna di cui pare anche il padre di Walid fosse invaghito.

L’enigma dei fazzoletti viene risolto trentotto anni dopo. Walid si reca di nuovo al cimitero di Khan Yunis. Il camposanto è stato distrutto dai bombardamenti, ridotto a un cumulo di pietre deformi e frammenti di lapidi disseminati. Ma l’uomo ritrova il punto di sepoltura del padre grazie all’albero di acacia, un tronchetto ormai secco su cui ancora svolazzano i fazzoletti di seta ricamati della donna misteriosa. È la stessa madre Amina a chiarire a Walid ogni dubbio sulla presunta relazione extraconiugale del padre:

Un giorno tuo padre tornò a casa dal lavoro; appena lo vidi, tirò fuori dalla tasca un fazzoletto da donna ricamato di seta. Me lo diede e disse: Questo me lo ha dato una donna di Giaffa, Umm Walid… non te lo voglio nascondere. È sposata; quando me lo ha dato, non gliel’ho restituito per non metterla in imbarazzo, ma le ho chiesto di non farlo più. Se n’è andata e da quel giorno non è tornata più. Ho tenuto il fazzoletto in tasca per due settimane, prima di capire che dovevo dartelo.

A restare irrisolto è l’enigma di chi, tra le due donne, sia stata autrice del fregio. La moglie, in un tentativo di simbolica riappropriazione di un amore non più suo? L’amante, nell’ultimo disperato gesto d’amore per l’uomo che la morte aveva reso definitivamente irraggiungibile?

I fazzoletti ricamati appesi all’albero sono la traccia di un amore mai nato, il simbolo di una realtà più immaginata che vera, ma che, sopravvissuta alla devastazione del paesaggio circostante, ribadisce tenacemente la sua presenza.

Il tunnel sotterraneo

Tra il 27 dicembre 2008 e il 18 gennaio 2009 Israele lanciò su Gaza l’offensiva militare denominata “Operazione Piombo Fuso”. Il massacro durò 23 giorni: lo stesso numero dei racconti della raccolta intitolata Gaza writes back, che commemorano la tragedia a cinque anni di distanza. Gli autori sono quindici giovani e giovanissimi autori gazawi, molti dei quali emigrati all’estero per intraprendere gli studi universitari.

Questa raccolta è un inno, disperato ma non fiaccato, alla resistenza. Raccontare è resistere, afferma Refaat Alareer, curatore dell’opera e autore di una delle storie: “La Palestina è stata occupata per prima cosa metaforicamente, ad esempio nei racconti e nelle poesie. Così dobbiamo controbattere con la scrittura”.

La letteratura, in modo particolare, è vista come uno strumento attivo di lotta. La narrativa crea un luogo d’incontro, dando ai palestinesi dispersi uno “spazio centralizzato” in cui trovare nuove occasioni di appartenenza e radicamento.

Gaza viene occupata per la prima volta nel 1956, anno della colonizzazione della penisola del Sinai. Dal 1967 il regime di occupazione israeliano si è intensificato e, a poco a poco, normalizzato. Dopo la fine delle Primavere Arabe, c’è stato un ulteriore inasprimento degli attacchi militari alla popolazione palestinese che abita nella Striscia. L’aggressione dell’estate del 2014 ha fatto più di 2200 morti. Ma Gaza non si è mai piegata, ha cercato delle vie d’uscita, per esempio costruendo una rete di tunnel sotterranei per far passare beni di prima necessità, benzina, materiali da costruzione, libri, perfino alcuni profughi palestinesi dalla Siria. La popolazione gazawi continua, nonostante tutto, a resistere e a reagire al regime di morte che la vorrebbe sopraffatta. Gaza risponde anche con la scrittura, writing back, “per espandere la consapevolezza tra le persone accecate dalla multimilionaria campagna israeliana di Hasbarà (persuasione, o meglio, disinformazione)”.

Riusciva a vivere in mezzo all’oscurità [e] aveva un’ineguagliabile capacità di scavare a fondo in ciò che lo circondava, e piccole cose insignificanti per altri lo ispiravano profondamente”. Hamza, protagonista di Un giorno di guerra di Mohammed Suliman, è un ragazzino appassionato di lettura. Adattatosi perfettamente alle condizioni precarie di una casa sotto perenne minaccia di bombardamenti, il buio e il silenzio sono le condizioni ideali per la sua concentrazione. Persino per leggere, sforzandosi con tutto sé stesso di decifrare i segni dell’unico libro in suo possesso, un regalo del padre morto. Tutti i rumori, le voci, le luci provenienti dalla realtà esterna sono una fonte di distrazione. Hamza sprofonda nella lettura un po’ come si sprofonda nel sonno: lì sa di poter trovare un senso e di poter essere sé stesso. Il fratello Jihad è il suo opposto: “Odiava il silenzio e non voleva mai avere freddo”. Un improvviso bombardamento sconvolge il già precario equilibrio quotidiano. Hamza viene privato del conforto delle sue tenebre silenziose, naufragando in un mare di macerie. Si sforza di mettere a fuoco, ma tutto ciò che lo circonda risulta sfumato. Fuori dal buio, non riesce a vedere più nulla: finché non gli appare la mano del piccolo Jihad, protesa immobile verso il suo libro ridotto a brandelli.

Nel racconto Uscirò mai? di Nour al-Sousi, Said ha abbandonato gli studi di medicina per aiutare la famiglia, dopo la morte del padre sotto un bombardamento che ha colpito la loro casa. Un amico gli propone di andare a lavorare con lui a Rafah, a scavare tunnel sotto le case vicine al confine. 50 shekel lo convincono a trascorrere le sue giornate a più di venti metri sottoterra. Said si sforza di distrarre la mente pensando al mare, anche se tutto ha preso il sapore della terra e della polvere. È la stessa terra a sommergerlo, con una frana improvvisa. Il cellulare ha la batteria quasi scarica e non c’è campo, nelle viscere della terra. Ma Said è convinto che qualcuno lo verrà a prendere presto.

Niente descrive il senso di soffocamento meglio del racconto di Rawan Yaghi, intitolato Dal di sotto. Una ragazza è rimasta intrappolata sotto le macerie: “Non ero mai stata intrappolata prima in uno spazio così piccolo. Il mio mondo era diventato stretto e duro”. L’oppressione, l’incapacità di muoversi e di respirare non lasciano spazio che all’immaginazione: “Mi sembrava di avere abbastanza forza da spingere via tutto attorno a me, ma non riuscivo a muovere niente”. Dopo una lunga attesa e un’interminabile immobilità, la giovane scopre di stare sanguinando. Vive ancora, e riemergerà dalle macerie.

Il buio, nei tunnel sotterranei in cui hanno luogo queste storie, è il vero protagonista. Un buio che, nel sottosuolo o sotto le macerie di una casa bombardata, prepara e custodisce una risposta tanto più forte quanto più inattesa.

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Il tunnel sotterraneo / Nour al-Sousi, Uscirò mai? (in Gaza writes back)

Il protagonista del racconto si trova intrappolato in un tunnel mentre scava nei sotterranei di Gaza. Costretto all’immobilità, l’uomo rievoca il suo passato e le difficoltà economiche della sua famiglia, ma anche il suo sogno di diventare un medico. Mentre il suo cellulare si spegne, continua a sperare, in qualche modo, di uscirne vivo…

Ed eccomi qua. Il livello della batteria del cellulare è a metà. Il mio caso è senza speranza, perché non riesco a chiamare nessuno da qui.

Questo cellulare mi è stato regalato per la promozione con lode al liceo; era il modo di mio padre per esprimere la sua grande gioia in quel giorno. Ricordo quando mi ha detto cosa sognava per il mio futuro: “Oh, si! Ti vedrò diventare un dottore come ho sempre sognato, Said! Sì, ti vedrò dottore!”.

All’epoca credevo che avrei svolto i miei studi all’estero, ma poi il destino ha voluto in un altro modo. La sola idea che lasciassi il paese per non tornare mai più era fuori questione per i miei genitori. Loro volevano che io rimanessi. E quindi non avevo altra scelta che iscrivermi alla facoltà di Medicina, qui a Gaza. A dire il vero, non era così male. Non del tutto. Quel che rendeva le nostre vite complicate e intollerabili non erano altro che le continue interruzioni di corrente, la crisi dei prezzi del cibo, l’eterna chiusura delle frontiere che ci impediva di viaggiare, la crisi dei trasporti e la disperata lotta per la sopravvivenza. Solo questo, nient’altro.

Oh, come sembrano felici quei giorni paragonati a questo! Non importa, non durerà più di un’altra ora. È passato un anno. La nostra casa è stata bombardata. Solo una stanza è stata totalmente distrutta. Mio padre era in quella stanza. È passato un anno, e ancora mi tengo lontano da quella stanza. Sento ancora l’odore di carne bruciata. Anche qui, nella mia prigione, lo sento.

Provavo un dolore così grande che non era alleviato neanche dalle lacrime. Non riuscivo a piangere per la morte di mio padre.

All’improvviso, ero diventato l’unico a poter badare alla famiglia. Dovevo trovarmi un lavoro qualsiasi. Che inaspettatamente non tardò molto fin quando qualcuno mi sussurrò all’orecchio: “Vieni a lavorare con me, Said. Non troverai un lavoro migliore che scavare tunnel!”.

Ma…”

Niente ma. La paga è doppia che per qualsiasi altro lavoro. È garantito tutto l’anno”, disse l’uomo. “E ti chiameremo ‘dottore’”, aggiunse con un ghigno.

Non riuscendo a dividermi tra gli studi e il mio nuovo lavoro, lasciai la scuola di medicina.

L’indicatore della batteria non la smette di tormentarmi.

Con le mani benedette al cielo, mia madre pregò per me. Pregava per me, non sapendo che tipo di lavoro andassi a fare. Dopotutto, non poteva sopportare l’idea che i suoi figli andassero a letto con la pancia vuota. Neanch’io potevo.

Presi un taxi per Rafah. Lo scavo avveniva sotto le case vicino al confine. L’unica cosa a cui pensavo era come avrei fatto a sopportare di rimanere in una fossa profonda più di venti metri. I cinquanta shekel alla fine della giornata, e le borse della spesa che portavo a casa, che riportavano il sorriso sui volti di mia madre, dei miei fratelli più piccoli e della mia unica sorella, rendevano il compito un po’ più semplice.

Cominciammo a scavare. Dentro era soffocante. Eravamo tre squadre: la prima scavava, la seconda portava la terra fuori, la terza portava i pali per i ponteggi. Anche se avevo la mascherina, la terra mi finiva comunque in bocca, e bere dell’acqua peggiorava la situazione. Tossivo e tossivo. I miei compagni, senza mascherina, se la ridevano. “Presto ti abituerai, Doc”, mi disse qualcuno.

Andai con la mente lontano. Immaginavo il mare, dove ero solito passare la maggior parte del mio tempo nuotando; era il mio hobby. Una goccia fredda di sudore mi riportò alla realtà, scivolandomi lungo la schiena. Anche quella piccola goccia era sporca di sabbia.

Una volta pensai di metterli in guardia, di non scavare vicino al mare. Ma mi trattenni. Questi scavatori di tunnel non erano degli studenti di medicina, dovevano saperne più di me. Il lavoro era semplice, anche se faticoso, finché la terra non ha cominciato a cadere dal cielo – dallo scuro cielo di questo scuro tunnel. Ero indietro, alla fine del tunnel a reggere i pali.

Mi chiedo da quanto sia bloccato in questo tunnel. I miei compagni se ne sono andati e mi hanno lasciato solo. Le preghiere di mia madre non mi hanno aiutato. Il tunnel è collassato sull’uscita prima che ne venissi fuori.

Verranno a salvarmi, di sicuro.

Il mio cellulare si lamenta, con le sue luci tremolanti.

Sento un freddo amaro che mi punge le ossa. Uno spasmo di dolore. E sento il calore della terra sotto i miei piedi, come se volesse accompagnarmi verso il sonno. All’orizzonte, sembra esserci una luce che viene da lontano. Sembra tangibile.

Un canto. Sento un canto ora. La preghiera di mia madre. La pancia vuota di mia sorella. L’odore di carne bruciata. E il gusto dell’acqua di mare.

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I fazzoletti di seta / Rabai al-Madhoun, La signora di Tel Aviv

Walid accompagna il nonno Nimr al mercato e sente per la prima volta la verità sulla morte di suo padre. Chi è l’autrice delle decorazioni sull’albero della tomba paterna? Il mistero sul passato del genitore si infittisce…

Dopo la sua morte, Umm Walid divenne molto agitata e profondamente distratta; alle volte non si rendeva conto neanche di quello che le accadeva intorno. Sedeva davanti alla porta di camera sua per ore; talvolta, faceva uscire le galline dal pollaio con un: “Ta-ta-ta-ta-ta”, mentre spargeva a terra pugni di orzo e gli animali correvano a beccarlo. Le contemplava ripulire la terra dai chicchi coi becchi tenendole d’occhio nel caso ne chiedessero ancora. Discorreva con le galline come chi si rivolge alle vicine per consegnare ai loro cuori i propri segreti: “L’hanno ucciso… quei ladri, figli di puttana lo hanno ucciso… rubavano i pacchi alimentari e se li spartivano tra di loro… e Abu Walid deve averli scoperti e minacciati di rendere tutto pubblico a tal punto che se lo sono tolto dai piedi, e pure dal mondo… Dio, vendica quei figli di puttana; Dio, vendic…”.

Erano passati più di tre mesi dalla morte di Ahmad Dahman quando suo nonno Nimr chiese al nipote Walid di accompagnarlo al mercato a comprare un po’ di tabacco secco prodotto da piccoli agricoltori. Diceva che questi ne vendevano tantissime varietà alla metà del prezzo dei negozi; diceva pure che di solito ne mescolava diversi tipi così bene che neppure i marchi di sigarette Rothmans, Kent o Craven A ci riuscivano. Affermava con vanto, lo si vedeva dai suoi lineamenti, che la sua miscela era superiore alle sigarette della marca locale Si Salem e insisteva su questo punto.

Nonno e nipote discesero insieme lungo la via principale in direzione del mercato cittadino. Walid taceva per dare ascolto alle parole del nonno ossessionate da tutti i diversi tipi di aromi di sigarette e di fumo senza riuscire ad accendersene una in sua presenza, per rispetto alla tradizione. L’anziano disse: “Walid, figlio mio, conosci Khamis al-Sawafiri, il direttore del centro dell’UNRWA? Era lui, Khamis, che rubava i pacchi di viveri. Ho sentito che aveva avuto un diverbio con tuo padre, che riposi in pace, circa una donna di Jaffa, tale Sawsan al-Ghandur. Dicono sia estremamente bella; Khamis le aveva già messo gli occhi addosso. La gente dice – solo Dio sa la verità – che lei invece avesse adocchiato tuo padre. Khamis cominciò a rubare dal centro di distribuzione e uno degli impiegati puntò il dito contro tuo padre finché Khamis non lo ha licenziato causandogli il malore al petto che lo ha ucciso. Ma io, ragazzo, non ho mai creduto che il mio compianto figlio avesse una qualsiasi relazione né con questa Sawsan né con altre. Ero suo padre, lo conoscevo benissimo”.

Walid, sorpreso dal racconto, proseguì:

Nonno, se lo avessi saputo, lo avrei ucciso”.

No, Walid, ragazzo mio… lascia che sia Dio a punire gli oppressori”.

Walid alzò gli occhi verso la tomba di cemento. Prese ad osservare l’ombra delle foglie dell’acacia; alcuni rami dell’albero pendevano mossi sulla tomba da sbuffi di vento carichi degli odori guasti dei fiori secchi lì sparsi. S’alzò un vento improvviso e le foglie di un ramoscello toccarono la fronte di Walid che alzò la testa all’insù come a rimproverarle. Si meravigliò dei fazzoletti trasparenti ricamati coi colori dell’amore appesi ai rami che svolazzavano con una timidezza antica. Dimenticò del rimbrotto fatto al vento e ascoltò i propri tormenti: era stata sua madre ad appendere quei fazzoletti ai rami dell’acacia ogni volta che era andata sulla tomba di suo padre? O era stata Sawsan ad ornare l’albero sulla sua testa con quei pezzi di stoffa?

Tornò a guardare la tomba, i dubbi lo avevano già ferito: “Lo ha fatto davvero, papà? Amava Sawsan al-Ghandur e lei lo ricambiava? E mia madre, il fiore delle ragazze della famiglia Dahman, così come la chiamano, mia madre, la cui anima si è frantumata il giorno in cui è morto e di cui ha distribuito una parte a tutti quelli che erano in lutto, meritava che egli amasse un’altra donna che non fosse lei? D’accordo, mamma è nervosa, il vocabolario della sua lingua abbatterebbe le montagne, ma è dolce e ha un cuore buono; ancora oggi giura sulla sua vita come se non fosse mai morto”.

Tutt’intorno a lui s’innalzavano i mormorii del vento al pari di lamenti funebri in lontananza. Sentì qualcuno ripetere: “Pensa a tua madre, Walid…”. Si rese conto che era la voce di suo padre.

Recitò la Fatihah alla sua anima e lasciò in fretta il cimitero.

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