Il poliziesco di Maria Angélica Bosco: “La morte arriva in ascensore”

Pubblichiamo la postfazione di Francesca Lazzarato al romanzo La morte arriva in ascensore di Maria Angélica Bosco in uscita il 15 aprile per Rina Edizioni. Si tratta del primo titolo della nuova collana “ÁGUA VIVA” diretta da Luciano Funetta e dedicata a scrittrici straniere uniche e innovatrici come María Angélica Bosco. Ringraziamo l’autrice della postfazione e l’editore per la gentile concessione.

di Francesca Lazzarato

«Sono venuta al mondo quando Yrigoyen fu eletto Presidente» diceva di sé María Angélica Bosco, che all’inizio della sua tardiva carriera letteraria aveva deciso di calarsi gli anni, confessandone otto di meno. Era nata, in realtà, nell’agosto del 1909, in una Buenos Aires ancora scossa dai tumulti della “settimana rossa” seguiti al massacro del Primo maggio, quando l’esercito aveva fatto fuoco su una folla di operai, ma anche estasiata dalla proiezione di Revolución de mayo, il primo film argentino realizzato con attori professionisti e diretto dall’italiano Mario Gallo, e scandalizzata dal modernismo di Lunario sentimental, esordio poetico di Leopoldo Lugones.

L’Argentina era allora un paese ricco e in piena espansione, pur se tra enormi diseguaglianze sociali, feroce repressione delle rivolte operaie e soprattutto tensioni destinate a sfociare in futuri colpi di stato, dittature e regimi autoritari. Un paese, inoltre, in cui il ruolo delle donne era definito da regole così rigide che per sfuggire a un destino già scritto occorrevano l’audacia e la determinazione di figure eccezionali come la poetessa Alfonsina Storni e la drammaturga Salvadora Medina Onrubia – non a caso chiamate las modernas – o l’imperiosa fondatrice di Sur, Victoria Ocampo.

María Angélica, cresciuta in una buona famiglia borghese di origine italiana – il padre veniva dalla provincia di Salerno – non possedeva una tempra del genere, tanto che, messi da parte il mai utilizzato diploma di maestra e i due libri di racconti pubblicati in giovanissima età, nel 1935 fece quel che ci si aspettava da lei, salendo doverosamente all’altare e consacrandosi alla famiglia. Tre figli, un appartamento nell’elegante barrio Norte, una certa agiatezza, una vita senza sorprese… e poi, alla soglia dei quarant’anni, l’amore per un altro uomo e lo scandalo della separazione, che per qualche anno la privò dei figli, mentre famiglia e amici le voltavano le spalle, facendole sperimentare un’incertezza economica destinata, dopo la morte prematura del marito, a sfiorare la povertà.

Per guadagnarsi decorosamente da vivere, Bosco tornò alla scrittura, passione che aveva dovuto abbandonare con riluttanza e che incanalò in molti e differenti formati: romanzi e racconti di vario genere, saggi, biografie, copioni televisivi, recensioni, rubriche su quotidiani e riviste, raffinate traduzioni dal francese. Scrivere le diede accesso a un’indipendenza non facile, ma vissuta con crescente consapevolezza, come testimonia la lunga intervista concessa al quotidiano «Pagina/12» nel 2005 – l’anno precedente alla sua morte – : «Ci educavano per il matrimonio, per questo c’è stato un tempo in cui pensavo di costruire la mia vita al braccio di un uomo forte, finché non mi sono resa conto che l’unico braccio davvero forte era il mio, e ho fatto in modo di cavarmela da sola, considerando l’amore solo un allegro compagno di strada. Il lavoro mi ha fatto capire cosa significhi essere padrona della mia vita».

Finalmente libera dai lacci delle convenzioni, con il suo romanzo d’esordio si avventurò in un territorio dove le donne argentine non avevano mai messo piede, quello del poliziesco, e che era rigorosamente maschile sin da quando, alla fine del diciannovesimo secolo, pionieri quali Paul Groussac, Luis V. Varela ed Eduardo L. Holmberg avevano proposto storie criminali confezionate in loco e modellate sul canone fissato dai grandi autori francesi e inglesi. Dopo quei primi esperimenti, il genere si era largamente diffuso tramite riviste popolari e collane destinate alle librerie, e nel 1933 Jorge Luis Borges lo aveva posto al centro del dibattito letterario, formulando le sei regole di base del poliziesco e scrivendo insieme ad Adolfo Bioy Casares, nove anni dopo, i celebri Seis problemas para don Isidro Parodi, un’esaltazione della trama a enigmi e insieme una sua sfrenata parodia. Altra impresa comune dei due amici fu El Séptimo Círculo, serie poliziesca che a partire dal 1945 curarono per Emecé: una collana di grande successo, alla quale approdò nel 1955 La muerte baja en el ascensor di María Angélica Bosco, vincitrice di un concorso indetto da Emecé.

La scelta di affrontare un genere “virile” – e, ieri come oggi, frequentato occasionalmente o in modo sistematico da autori argentini di eccezionale livello, come Rodolfo Walsh, Manuel Puig o Ricardo Piglia – fece scalpore, anche se nel catalogo di El Séptimo Círculo esisteva il precedente di Chi ama, odia, divertissement scritto a quattro mani da Silvina Ocampo e da suo marito Bioy Casares: un esperimento in cui Bioy aveva fatto la parte del leone e che Ocampo preferì non ripetere.

Incurante delle altrui perplessità, María Angélica Bosco decise di diventare la prima autrice argentina di polizieschi per più di una ragione: non solo il “giallo” la divertiva, ma le permetteva di distinguersi dai best seller al femminile dell’epoca, drammatici e passionali – firmati da scrittrici oggi dimenticate e allora popolarissime, come Marta Lynch, Silvina Bullrich e Beatriz Guido – e di fare un debutto senza affettazione né pretese, “per modestia, con la sola ambizione di intrattenere il lettore”, offrendogli un momento di pura evasione.

Con notevole mancanza di fantasia, venne subito etichettata come la Agatha Christie argentina, nonostante ci tenesse ad affermare che la scrittrice inglese non le piaceva granché e che le preferiva Vera Caspary, autrice americana di “gialli” sofisticati e ricchi di atmosfera, largamente presenti in «El Séptimo Círculo». Come i romanzi di entrambe le autrici, La morte arriva in ascensore appartiene comunque al cosiddetto whodunit – contrazione dell’inglese Who has done it? – e fa ricorso a elementi collaudati del poliziesco deduttivo, come la falsa pista e la camera chiusa, che qui diventa un palazzo cui si può accedere soltanto se si possiede la chiave del portone, condividendo con Christie e Caspary anche le ambientazioni suggestive e attendibili, o il risalto assegnato ai caratteri femminili e alle relazioni sentimentali. Allo stesso tempo, in nome della verosimiglianza, Bosco rifiuta la figura del detective dilettante e manda in scena autentici membri della polizia, illustrandone con minuzia risorse e procedimenti, senza trascurare le pratiche della scienza forense.

Nel romanzo vengono inoltre impiegate tecniche narrative relativamente insolite per il poliziesco, come il monologo interiore di uno dei primi sospettati, il playboy Pancho, o l’esplorazione dei pensieri di vari personaggi, e l’indagine non si limita al delitto, ma si estende a una complessa rete di rapporti, sentimenti, segreti, desideri e memorie che unisce gli abitanti del palazzo, un microcosmo soffocante cui corrispondono gli esterni e le voci di una Buenos Aires alla vigilia del colpo di stato contro Perón, ricostruita grazie a sottili notazioni sul contesto sociale e politico dalla capitale nei primi anni Cinquanta. Bosco ritrae fedelmente la realtà ibrida e conflittuale di una metropoli in cui si va esaurendo la prodigiosa spinta verso la modernità dei decenni precedenti, ma sempre connotata dalla presenza di correnti migratorie individuate anche attraverso il linguaggio che, oltre a definire l’appartenenza dei personaggi all’una o all’altra classe sociale, ne rivela anche i diversi luoghi di origine: chi arriva dalla Spagna, per esempio, usa il tu invece del vos argentino, e parlano uno spagnolo «ermetico» o «zoppicante» i numerosi immigrati giunti dalla Germania o dall’Europa dell’Est, dapprima in fuga dal nazismo e poi dalla sua fine.

È evidente che La morte arriva in ascensore appare in controtendenza rispetto al crescente successo dell’hard boiled, variante nordamericana del poliziesco che proprio in quegli anni si andava imponendo in Argentina e che sarebbe diventata dominante, assumendo caratteristiche peculiari, sfumando i confini del genere e spodestando la rigida struttura del romanzo-rompicapo, che tanto affascinava Borges – non a caso Carlos Gamerro e Juan Sasturain, due tra i massimi cultori argentini della novela negra, hanno fatto notare come il whodunit non potesse sedurre fino in fondo una nazione che per gran parte della sua storia è stata un’unica, gigantesca “scena del crimine”, in cui il colpevole veniva quasi sempre identificato con le forze dell’ordine.

Anche se per lo più si attiene alle leggi del poliziesco d’enigma, tuttavia, va sottolineato che in questo primo romanzo Bosco comincia a discostarsene con cautela e a proporre una terza via, quella del thriller psicologico, in cui colloca figure femminili ricche di sfaccettature, lontane dai consueti stereotipi del genere – la vittima, la fanciulla in pericolo, la femme fatale – e raffigurate a tutto tondo, esaminando da vicino la loro posizione nella società, le relazioni che stabiliscono con l’altro sesso, i condizionamenti cui sono sottoposte, le regole non scritte che le imprigionano e alle quali tentano di sottrarsi, ciascuna a suo modo.

Anche se in La morte arriva in ascensore gli investigatori sono tutti uomini, le donne ricoprono ruoli centrali e almeno una di loro, la giovanissima Betty, sembra annunciare future rivendicazioni e l’avvicinarsi di un tempo in cui l’indagine passerà in mani femminili, tanto è vero che già nel 1956 la protagonista di La muerte soborna a Pandora – il secondo dei sei romanzi gialli scritti da María Angélica Bosco nel corso della sua lunga carriera – accennerà una timida investigazione; ma solo In Historia privada, del 1972, l’indagine ruoterà intorno a una consulente della polizia, Laura, pronta a scoprire dettagli significativi e moventi psicologici, ma costretta a rassegnarsi all’impunità di due colpevoli ricchi e privilegiati. La capacità dell’autrice di registrare l’evoluzione dei costumi e di cogliere il cambiamento del gusto, risalta sia nel carattere e nel ruolo di Laura sia nel modo di costruire un universo narrativo non troppo lontano da quello del poliziesco “duro”, soprattutto nel finale, quando svanisce la speranza di far coincidere legge e giustizia: coincidenza che in La morte arriva in ascensore non viene messa in discussione, perché il whodunit esige sempre  un solido e palese “ristabilimento dell’ordine”.

Si potrebbe dire, in conclusione, che María Angélica Bosco è stata sotto molti punti di vista un’innovatrice e una pioniera, un’artigiana sensibile e acuta che ha saputo adattarsi ai tempi e ha aperto la strada ad altre autrici, da quelle venute subito dopo di lei, come Syria Poletti, Olga Pinasco o Angélica Gorodischer, a quelle, numerosissime e di notevole successo, che oggi abitano il poliziesco argentino – prima fra tutte Claudia Piñeiro, così abile nel disegnare borghesissimi interni chiusi – in linea con una tendenza ormai dominante ovunque. Ed è anche grazie a libri come La morte arriva in ascensore che, finalmente, non è più vero quanto scriveva nel 1997 la sociologa, attivista e romanziera canadese Danielle Charest in Littérature policière et rapports sociaux de sexe: «Non si può negare che gli uomini – collettivamente – si siano appropriati del genere poliziesco (almeno in qualità di autori) e che le donne – collettivamente – ne siano state escluse».

Aggiungi un commento