“In fabbrica canti / Cazzo se canti”: su “Alla linea” di Joseph Ponthus

«Lo sfinimento finisce col farmi dimenticare le vere ragioni della mia permanenza in fabbrica, rende quasi invincibile la più forte fra le tentazioni che comporta questo genere di vita: quella di non pensar più, unico mezzo per non soffrirne. Solo il sabato pomeriggio e la domenica mi tornano dei ricordi, dei lembi di idee, e mi ricordo che sono anche un essere pensante». Questo scriveva tra le pagine del suo diario Simone Weil riflettendo sulla sua esperienza come operaia presso la fabbrica di prodotti meccanici Alsthom, un periodo che contribuì a fiaccare ancora di più il suo corpo già fragile e ad avvicinare il momento della morte. Questi pensieri tornano alla mente leggendo Alla linea di Joseph Ponthus (pubblicato da Bompiani con la traduzione di Ileana Zagaglia), un libro dove l’autore, prematuramente scomparso poco dopo la pubblicazione di questo lavoro, uomo istruito e colto che lascia l’area parigina per trasferirsi in Bretagna con la moglie, racconta la sua esperienza come operaio interinale in varie industrie della filiera agroalimentare della Bretagna.

Ma rispetto alla scelta di Simone Weil, che decise volontariamente di provare sulla sua pelle le dinamiche fisiche, psichiche e sociali del lavoro in fabbrica, per Ponthus non esiste altra scelta perché trasferitosi a Lorient per l’amore di sua moglie («Mi chiede perché sono in fabbrica / Gli rispondo come rispondo a tutti quanti la verità semplice e bella / Aver lasciato tutto per la donna che amo / Essersi sposati / La gioia di essere lì / E la fabbrica be’ si deve pur lavorare Un bambino presto mi chiede subito / Si spera e intanto ci si lavora») e non trovando lavoro nel mondo dell’educazione (Ponthus, nato in una famiglia popolare, è riuscito a studiare in una delle Grandes Écoles che in Francia aprono le porte dei vertici occupazionali, ma ha poi scelto di fare l’educatore nella periferia parigina) non può fare altro che rivolgersi a un’agenzia interinale che gli trova momentanei, precari e faticosi lavori nell’industria della zona, caratterizzati dal freddo, dal buio e dal dolore di un corpo e una mente sempre sull’orlo del collasso («“Il corpo è una tomba per l’anima” / Diceva una massima degli antichi greci / E mi rendo conto che / Anche l’animaè una tomba per i corpi»), tra la cottura di tonnellate di gamberetti e la pulizia dei mattatoi.

Ma c’è anche un’altra differenza, che dà misura degli effetti devastanti del lavoro alla linea di produzione, perché per Ponthus, a differenza di Simone Weil, neanche il sabato e la domenica offrono pace perché in ogni giorno di riposo il pensiero si riversa sul lavoro che presto ricomincerà («È il fine settimana / Non riesco a dormire / A quest’ora sarei alla linea / Mi resterebbero ancora due ore di lavoro / Due ore di lavoro di merda / Di catena / Di linea» e ancora con un’anafora dolorosa «È il fine settimana / Dovrei rigenerare la mia forza lavoro / Cioè / Riposarmi / Dormire / Vivere / Fuori dalla fabbrica / Ma mi consuma / La stronza»), ogni pausa si consuma nel pensiero della sua fine («I tiri di sigaretta diventano più nervosi / Le occhiate ai cellulari più frequenti / Frenetiche / Man mano che il tempo passa / Non lo recuperi più / Via / Bisogna andare») e neanche il sonno, di giorno, quando gli altri vivono, offre requie con il suo affastellarsi di incubi abitati dalle mostruosità del turno («Non una pennichella non una notte senza questi brutti sogni di carcasse / Di animali morti / Che mi cadono addosso / Che mi aggrediscono / Atrocemente» o, poco dopo, «Tutte le notti so che porterò il mattatoio nei miei brutti sogni / Eppure / A spingere i miei quarti di carne da cento chili / Non credo di essere quello da compatire di più»).

Quando nel 2019 il libro uscì in Francia, pubblicato dalla casa editrice Table Ronde, si trattò di un inaspettato successo (Alberto Prunetti nel suo Non è un pranzo di gala racconta un aneddoto secondo il quale Daniel Pennac, fermato per strada da un ammiratore, si allontanasse sventolando il libro di Ponthus e dicendo qualcosa come “Io sono vecchio, dovete leggere Ponthus”) che portò al licenziamento dell’autore da parte dell’agenzia interinale perché, questo pare il sottotesto della decisione, sembra essere proibito parlare del lavoro in fabbrica, anche se non ci sono invenzioni ed è tutto vero, perché il magma che ribolle tra queste pagine è troppo reale, troppo vero per essere letto e conosciuto.

Altrettanto straordinaria in quest’opera, dove la letteratura e l’esistenza si mescolano fino a diventare un unico flusso, è la forma scelta da Ponthus che appartiene tanto al regime della poesia quanto a quello della prosa, con un andamento frammentato che sembra obbedire ai ritmi della linea di produzione, all’obbligatoria cancellazione di ogni tentennamento e di ogni pausa, un testo quindi che si costituisce per sua natura oltrepassando ogni confine di genere perché si basa su un dio ulteriore, sulla necessità del racconto e della testimonianza di una violenza che il corpo e la mente subiscono. Per questo, pur essendo imbevuto di ricercati e mai didascalici riferimenti letterari (da Apollinaire, i cui versi danno il titolo alle varie sezioni, a Blaise Cendrars, richiamato, lui che perse un braccio durante la Prima Guerra Mondiale, per riflettere sugli infortuni sul lavoro, fino al poeta Thierry Metz del Diario di un manovale, opera straordinaria in italiano tradotta dalle Edizioni degli Animali, di cui scrive: «Solo l’essenziale / Questa lingua / Ciò verso cui vorrei tendere»), Alla linea oltrepassa la letteratura e si impone come un’opera assoluta dove la prosa si sgretola e si frammenta per giungere alla natura più profonda di ciò che racconta.

Il titolo suggerisce poi anche una linea di demarcazione netta nella vita di Ponthus perché da una parte c’è il lavoro in fabbrica, ma dall’altra c’è la vita esterna che, nonostante gli strascichi della fatica e del pensiero, sa avere un valore, se non completamente curativo, almeno palliativo. Questo libro unico quindi non è fatto solo di alienazione e solitudine, di vita in fabbrica che, per forza del tempo trascorso lì, può offrire tempo per riflettere e pensare (è l’occasione per pensare a sé stessi, «La fabbrica è un lettino» e «Molto tempo dopo aver smesso l’analisi lacaniana / La fabbrica mi ha sbattuto in faccia le mie ore e ore sul lettino» scrive Ponthus, oppure per pensare a un guarigione, vera o presunta: «è da quando sono entrato in fabbrica che non ho più questi maledetti attacchi di panico / Terribili / Ingovernabili / L’infinito e il suo vuoto che sfondano il cranio»), ma è anche il racconto di ciò che succede fuori dai turni. È infatti anche il resoconto della vittoria quotidiana contro l’abbrutimento e della felicità della resistenza, è la moglie amata con cui assaporare ogni secondo insieme (commoventi per la loro forza evocativa le pagine dell’ultimo capitolo a lei dedicato, miracolo anaforico di tutto ciò che c’è di straordinario nella banalità dell’amore quotidiano), è il cane Pok Pok da portare fuori, stanco morto ma felice, alla fine del turni («Sopraffatto dalla fatica / Quasi mi addormento in piedi appena arrivo / Ma ogni volta rincasando / La gioia e anche più della gioia di saperti dietro la porta»), sono la voce e le parole di Charles Trenet («Il grande Charles “senza il quale saremmo tutti contabili” / come diceva Brel»), è il canto che libera e che fa continuare a esistere: «In fabbrica canti / Cazzo se canti / Canticchi mentalmente / Urli a squarciagola coperto dal rumore delle macchine / Fischietti la stessa melodia ossessionante per due ore / è il più bel passatempo che ci sia / E ti aiuta a resistere / Pensare ad altro / Alle parole dimenticare / E a stare allegro».

Sono proprio la musica e il canto ad assumere un valore decisivo per la resistenza alla linea di montaggio, una riduzione nobile della poesia, che invece non riesce a oltrepassare i cancelli, elementi che «porta[no] gioia in questo cazzo di mattatoio». Quando anche il canto manca, come quando Ponthus sente un’operaia che lamenta lo stress che non lascia il tempo di cantare, il silenzio spalanca la verità del lavoro, la desolazione della solitudine, la schiavitù dalla macchina: «Quei momenti in cui è così indicibile che non hai neanche il tempo di cantare / Solo di vedere la catena che avanza senza fine l’angoscia che sale l’ineluttabile della macchina e dover continuare a tutti i costi la produzione».

 

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