La caparbia distanza

Pubblichiamo l’introduzione della curatrice Marta Barone a I padri lontani di Marine Jarre, pubblicato da Bompiani, ringraziando la curatrice e l’editore. Tutte le immagini provengono dall’archivio personale della famiglia Jarre, che ringraziamo per la gentile concessione.

Marina Jarre è stata un grande e protratto mistero. Cosa è successo perché i suoi romanzi straordinari e la sua voce unica, fredda e indagatrice, ma anche ironica, tenera, brutale e incredibilmente attenta alla vita e ai dettagli della vita – tutto questo, tutto insieme – non siano sopravvissuti al tempo? Perché non è considerata, se non da pochi conoscitori, tra i grandi scrittori italiani del secondo Novecento? Il caso, la sfortuna (in una lettera a un amico lamentava con la sua solita ironia, ma anche un po’ di stanchezza, di scrivere sempre le cose al momento sbagliato: racconti quando non andavano di moda, romanzi “tradizionali” quando era la sperimentazione a dominare la scena letteraria, scritti autobiografici quando non interessavano a nessuno), il “duro riserbo” di cui parla Claudio Magris in un articolo sul Corriere della Sera del 2015, che l’ha portata a tenersi sempre in disparte, lontana dai circoli e dalle mondanità, a evitare le presentazioni e tutto quello che non avesse a che fare direttamente con la scrittura e la lotta con la scrittura, ciò che unicamente la interessava come autrice. Qualunque sia la spiegazione del silenzio caduto su di lei, forse è ora di spazzar via la polvere e ridare a Marina Jarre, morta novantenne nel 2016, il posto che le spetta nella narrativa italiana.

I padri lontani, uscito originariamente per Einaudi nel 1987, si pone a metà della sua produzione, ed è probabilmente il suo capolavoro. È un libro scritto quasi senza speranza di pubblicazione, nel corso di molti anni, riveduto in continuazione fino a un nitore magistrale, le parole e le frasi levigate come ciottoli in un ruscello di alta montagna – nelle lettere parla spesso del gioco degli spostamenti di visioni e capitoli, come carte che scompigliava per trovar loro il posto più giusto, la luce migliore. Lei lo chiamava “la mia autobiografia”: ma come tutti i grandissimi libri supera e sfalda le convenzioni e le etichette, ed è soprattutto un’intensa interrogazione identitaria, un’opera di ricreazione del passato che procede in un montaggio serrato di immagini spesso separate tra di loro, ma che alla fine, come in Parla, ricordo di Vladimir Nabokov o in molti romanzi di Annie Ernaux, formano un enorme quadro organico di una compiutezza impressionante.

Come se ponesse di fronte al lettore le lastre di una lanterna magica, Jarre comincia a raccontare la sua vita decisamente particolare per macchie di luce gettate qui e là su vari momenti della propria infanzia, muovendosi di continuo e con grazia sinuosa tra i tempi verbali (dal presente al passato e dal passato al presente) e tra gli eventi, che mescola, anticipa e poi riprende all’improvviso molte pagine dopo. Così i tempi e gli spazi, come le immagini del labirinto e dell’oceano secondo Cristina Campo nella poesia della misteriosa Alexia Mitchell, pseudonimo di cui non si è mai scoperta l’identità, “sembrano entrare di continuo l’una nell’altra e, ugualmente fluide e scolpite, riproporci l’inestricabile enigma dell’oggi e del sempre, del labile e del permanente”.

Marina, detta “Miki”, nacque nel 1925, a Riga, figlia di un ebreo lettone, Samuel Gersoni, e di un’italiana, Clara Coïsson, che insegnava in una scuola italiana e veniva dalle valli valdesi, ed è stata un’importante traduttrice dal russo per Einaudi (tra gli altri avrebbe tradotto Propp, Bulgakov, Tolstoj e Dostoevskij). La lingua d’infanzia di Marina Gersoni, sposata Jarre dopo la seconda guerra mondiale, era il tedesco: ed è per questo che spesso il suo italiano si muove in uno spazio incerto che abbiamo scelto di preservare nei suoi piccoli, strani “errori”, una fatica e un imbarazzo con cui ha dovuto avere a che fare per tutta la vita, e che allo stesso tempo dà alla sua prosa una strana magia, l’irrealtà e l’intensità della mezza lingua.

Samuel Gersoni, 1910

La bambina Marina osserva, con precocissima consapevolezza di sé e dello spazio che ha intorno. Osserva gli adulti e i loro comportamenti spesso insensati e melodrammatici: “Gli adulti non hanno paura, questa è la differenza tra loro e me. Non so se abbiano ragione a non avere paura: camminano sul ghiaccio dei laghi. Il ghiaccio scricchiola; chi glielo assicura, agli adulti, che non si romperà?” Osserva, senza mai riuscire a conoscerlo, il padre assente, sventato e allegramente irresponsabile, bello come un “principe arabo”, che sta fuori tutta la notte e di giorno si aggira per la casa in vestaglia e pantofole, fumando sigari con la fascetta dorata. Osserva se stessa: la Jarre scrittrice anziana riporta con esattezza stupefacente, a distanza di sessant’anni, i sentimenti strani, incomprensibili e anche feroci dell’infanzia, la gelosia per la sorella minore Sisi, la vergogna (“Ci sono in me sussulti irragionevoli e io li percepisco con stupore. Certo, non sono istinti normali, ma tant’è, […] l’importante è che nessuno lo sappia”), il rapporto con il proprio corpo, il senso doloroso di inadeguatezza di fronte alla madre, che per lei bambina e poi adolescente rappresenta la Ragione e il coraggio, ma anche la punizione ingiusta, la derisione delle sue mancanze e la rabbia che continua a crescere in Marina, silenziosa e disperata perché impotente (tutti i bambini sono impotenti di fronte agli adulti). Che cos’è la rabbia di una bambina? Questo, ci dice Jarre: “Davanti a me si allarga e si estende fino all’orizzonte il mare gelato nel suo moto ondoso. Così bianco e irto di avvallamenti ghiacciati appare più invalicabile che d’estate quando vi passano le navi, anche se mi raccontano che i finlandesi in certi inverni molto freddi sono giunti sino a Riga scivolando sul mare con le loro slitte. Sta immobile, ma io so che ribolle là sotto, che vuole uscire come la Düna in primavera quando spacca la sua coltre di ghiaccio e, la notte, la sento scorrere con rumore di tuono.”

 

Marina Jarre, la madre Clara Coïsson e la sorella Annalisa, Riga, 1931.

Nel miscuglio di nazionalità della Riga multiculturale in cui vive, Marina sa che le identità restano intoccabili, anche se preferisce “i nomi non nominati – come il suono del pianoforte e il fiato ancora trattenuto del vento d’inverno quando sta per gettarsi vorticando attraverso la pianura innevata”, che la “attraggono e immergono in un’attesa segreta, più dei nomi nominati sui quali devi sempre precisamente ragionare”. E sono tanti i nomi nominati, “e si deve saperli tutti e tenerli ben in ordine e non perderli mai”. Lei, “così mi hanno detto”, è lettone e cristiana, anche se “parlo tedesco e non ho capito chi sia Gesù Cristo”. I suoi nonni da parte di padre, lui lettone e lei russa, sono ebrei. I suoi nonni italiani, ma anche un po’ francesi, sono valdesi. Sua madre è valdese. Suo padre sarebbe ebreo, ma non ha religione. I cattolici nella sua famiglia sono considerati stupidi, e nessuno le spiega la differenza tra gli ebrei e i cristiani: “sono di nuovo dei nomi che devo accettare come sono”. Forse per questo, da adulta, Marina Jarre scaverà nei nomi e nelle parole con tanto impegno, cercando di portarne a galla il mistero, la libertà e i molteplici significati, puntando sempre a una precisione che sia diversa dal luogo comune (o come dicono i francesi, idée reçue, idea ricevuta, che restituisce ancor meglio il senso del suo discorso sui nomi che le vengono imposti senza spiegazioni).

Nel 1935, dopo il divorzio dei genitori, Marina e la sorella vengono allontanate dal padre e spedite dalla madre a Torre Pellice, dalla nonna. È a questo punto, all’arrivo nelle valli valdesi, in quel mondo che porta una tragica storia di persecuzioni e lotte di padri lontani, gli avi fieri e torvi che hanno combattuto su per le valli fino a poco meno di un secolo prima per mantenere la propria indipendenza, un mondo severo, in cui anche i luoghi “portavano il tempo in grembo”, è a questo punto, dice Jarre, che “il tempo entrò nella mia vita”. Il tempo, uno dei temi più importanti che innervano il romanzo e legano le sue parti in una costellazione: “Mi diede per la prima volta un passato uno spessore in cui immergermi sfuggendo a indagini e assalti; la storia della mia infanzia era quanto mi rimaneva della mia esistenza precedente poiché nel giro di poche settimane cambiai paese, lingua e ambiente familiare.” È qui che comincia il lungo corpo a corpo di Marina con l’italiano, che non ha mai parlato né scritto prima.

La terribile sorte del padre (verrà ucciso insieme a una bambina avuta da un’infermiera tedesca e a tutti i suoi familiari nello sterminio degli ebrei di Riga del 1941) in questo libro viene appena sfiorata, come se Jarre si ritraesse dalla Storia e dalla sua storia personale. Solo molto più tardi deciderà di farci i conti, nella sorta di completamento di questo libro che sarà Ritorno in Lettonia (pubblicato nel 2003).

Marina Jarre

Jarre continua a osservare, dunque. Ritrae il mondo valdese, il Dio barbetto e tremendo degli antenati di sua madre al quale mal si adatta, la sua adolescenza, le battaglie con la nonna, la lenta separazione dalla sorella Sisi nei due diversi momenti di crescita, le amicizie e le prime infatuazioni, la nostalgia della madre che lavora all’estero e vede raramente, una nostalgia mai chiamata col suo nome; ma quando parla delle lettere che lei e Sisi le scrivevano, all’improvviso irrompe un’immagine futura: “Avevo già vent’anni quando, entrando un giorno nella camera di mia madre, vidi sullo scrittoio una lettera già completa di saluti e firma, redatta nella sua bella e chiara scrittura. Tuttora la vista d’un qualsiasi scritto suo mi commuove, come se con la sua scrittura io avessi rapporti più intimi che con lei stessa.” Questo rapporto di amore, odio, bisogno, incomprensione reciproca, gelosia e incrollabile fedeltà durerà per tutta la vita della madre. Il fascismo quasi non penetra nelle valli, se non nelle cerimonie scolastiche, e Marina lo percepisce appena, se non appunto nella sua fascinazione per le cerimonie e nel suo desiderio di essere uguale agli altri, anzi, migliore – pur sbagliando sempre qualcosa e sentendosi continuamente inadatta.

C’è qualcos’altro, però, che arriva nella sua vita in questo momento. “Ricordo benissimo quando mi accorsi che le parole collocate in un certo modo – secondo una necessità assoluta – erano belle. Rileggendo per l’ennesima volta il Don Carlos […] lessi del principe che rivede per l’ultima volta Elisabeth e ‘So sehen wir uns wieder’ (così ci rivediamo), le dice. Ripetevo la frase e mi commuovevo. Sentivo una piccola pausa dopo il so e il prolungarsi verso la morte del finale wieder. Non mi commuovevo perché il principe stava per morire – avvenimento consueto ai drammi – ma per l’ineluttabilità per cui le parole erano unite e separate tra di loro, quelle parole e in quel modo.” Jarre ancora non lo sa, ma ha scoperto il suo destino, anche se avrebbe cominciato a scrivere davvero molti anni più tardi, a Torino, già sposata e incinta della prima figlia.

La guerra si svolge ancora lontana, ancora irreale, lei non la capisce e quando infine entra anche nelle loro vite di nuovo si trova a osservare, o piuttosto ad assistere, da spettatrice guardinga, sempre strattonata tra gli impulsi più diversi (“Trovavo il tutto incongruo, non scorgevo nessi tra gli avvenimenti che non corrispondevano affatto alle mie abituali frequentazioni con la Storia, cui corrispondevano, invece, le folle acclamanti e gli eserciti ben ordinati”). Con la stessa implacabilità con cui ha sezionato i suoi sentimenti d’infanzia e con cui esplorerà quelli dei suoi personaggi di finzione in altri romanzi, anche i più indicibili, i più oscenamente naturali, Jarre racconta i suoi sentimenti incerti, estraniati, frettolosi nel giudizio, di fronte alla guerra e poi alla resistenza, la sua difficoltà e anche la sua giovanile arroganza nell’accettare che quel che è stato giusto e obbligatorio fino a poco tempo prima sia di colpo diventato sbagliato, travolta dall’incomprensione degli eventi e dai gesti prima inconcepibili che compiono le persone che conosce, compresa sua nonna che l’8 settembre nasconde dei disertori dietro la clematide del giardino, li fa spogliare delle divise e dà loro abiti civili; ed è ben conscia della propria inanità: “Ero in genere una ragazza prudente, non partecipe e spesso vile.”

È sempre ferma su una soglia, scrive: anche quando alcuni suoi amici vanno partigiani e uno di loro muore, e Marina incontra un professore, Franchi, che sa essere anti-fascista, che viene su dal paese barcollando e le chiede se sa che l’amico è stato ucciso. Solo più tardi “un’intuizione incominciò lentamente a farsi strada in me: Franchi non era ubriaco; barcollava perché era disperato. Si rimproverava per avere incamminato Sergio verso la morte con i propri insegnamenti […] Sentii però […] una specie di rispetto. In quel suo vacillare intravedevo, infatti, la disperazione della vera pietà, quel che mi era ancora negata poiché continuavo a compassionare solo coloro nei quali riuscivo a impersonarmi”. Molto Marina si interroga sulla pietà e sul proprio strano distacco, anche quando decide di partecipare ad alcune azioni partigiane come staffetta; ma “l’ira mi cuoceva dentro mentre passavo in un tram deviato a bella posta davanti agli impiccati di corso Vinzaglio; la sua violenza era tanto più grande quanto più mi sentivo impotente, suscitata in quel caso, tuttavia, ancora più dagli immondi cartelli appesi sopra gli impiccati che dalla vista dei loro cerei volti di pupazzi”.

Solo il grido di un ragazzino, impiccato per vendetta alla fine della guerra dai tedeschi in fuga, un grido nella notte che invoca la mamma, spezza infine la dissociazione che la abita e la apre alla “vera pietà”: quando una donna glielo racconta, “mi ero messa improvvisamente a piangere, ma le lacrime che mi bagnavano il viso non venivano dai miei libri e dalle mie fantasticherie e neppure più indietro dall’ormai pietrificata infanzia, sgorgavano dal mio corpo per la prima volta consapevole di sé, dentro il quale avrei voluto nascondere e proteggere il ragazzo sconosciuto”.

Dell’infanzia lettone non rimane più nulla, se non il miraggio rosato di una lunga spiaggia baltica dove lei e Sisi raccoglievano conchiglie e sassolini; della sorte del padre sapranno solo dieci anni più tardi, ma come la sua persona prima anch’essa, e la sua spaventosa immensità, cadrà nel silenzio e nella rimozione; ma, scrive Jarre, “la sua morte è rimasta dentro la mia vita come un seme nascosto e via via che vivevo e invecchiavo, essa è cresciuta nel ricordo, non diversamente da un lungo amore”.

Marina Jarre

La terza parte è quella di se stessa donna: con il suo sguardo distaccato, talvolta straniante e spesso permeato di un sottile, delizioso umorismo, pieno di osservazioni e riflessioni sorprendenti, Jarre racconta dapprima la propria vecchiaia, le mutazioni della sua immaginazione, della sua intelligenza, della sua attività onirica e dei suoi desideri, il piccolo quotidiano di vedova (sono tra l’altro fra le pagine più alte e interessanti sulla vecchiaia femminile della narrativa italiana; ne scriverà di altrettanto indimenticabili, e più crude forse con l’approssimarsi della morte, in Il silenzio di Mosca, quando sarà molto più vecchia), e poi, con lo stesso movimento ondoso della prima parte, torna indietro, a se stessa giovane sposa, all’impossessamento del proprio corpo solo nel momento in cui diventa madre (“Come donna sono dovuta nascere da me stessa, mi sono partorita insieme ai miei figli”), alla fatica negli anni della vita di donna di casa, insegnante di francese in una scuola di periferia torinese, madre di quattro bambini, moglie e infine scrittrice, anche se a quella che diventerà la sua vera vita sotterranea non fa che pochi cenni: “l’esigenza di trasformare, la spinta a rappresentare, a ricreare, la persuasione che tutto può essere riprodotto e raffigurato. Non su una tappezzeria con fili di seta e d’oro: il mio unicorno è pur sempre un cane randagio addormentato nella calura di luglio al riparo fresco d’un’edicola chiusa”.

Sì, lei è un raffinatissimo cane randagio: ed è questo l’altro grande tema dei Padri lontani. La mancanza di appartenenza, di “patria”, di identità, a volte fieramente perseguita, a volte più sofferta, a volte soltanto registrata come dato di fatto. Un’estraneità che sente anche rispetto al mondo valdese, pure in parte il suo: “Non c’era legame tra me e quel mondo che mi restava esteriore. No, le povere e pietrose case in ombra, le quattro creste affilate, la donna dalla voce alta, chiara, segnata dalle erre, non mi erano parenti. La loro storia non mi precedeva, non ero venuta da quella.” Così come la distanza-vicinanza con la madre e con le proprie origini, chiuse nell’immagine degli anatroccoli nati da poco che inseguono il carro su cui le bambine lasciano la foresta dove sono state nascoste al padre e la loro infanzia, e l’elusione per tutta una vita di un dolore straziante, irreparabile e cancellato. Ritorno in Lettonia verrà parecchi anni dopo a colmare almeno in parte quella mutilazione.

I padri lontani è un libro di pietra e di splendori. Marina Jarre non è una scrittrice metafisica, non cede mai al grido eall’eccesso (“Io non piango e non mi stupisco, io racconto”): la sua prosa rimane sempre asciutta, liscia e bellissima anche nei momenti di massima intensità. E forse è per questo che le sue aperture di lirismo, le sue magnifiche metafore, certe incredibili intuizioni nel suo studio penetrante della mente dei vivi erompono sulla pagina con tanta emozione e vividezza, grandiose come uno spettacolo naturale, come il ghiaccio della Düna che si spezza. I padri lontani, così indefinibile e originale, così simile alla sua altera autrice, era qualcosa che mancava del tutto nel panorama italiano di allora, prefigurando inconsapevolmente tutte le scritture autofinzionali di questi anni e le nuove direzioni che stanno prendendo; ed è quindi qualcosa che ancora ha molto da dire sulla scrittura e sugli umani nel nostro presente e nel nostro futuro, perché questo fanno i grandi libri. Continuano, e ci continuano.

2021 Giunti Editore S.p.A./Bompiani

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