La catabasi come palingenesi: su “La Luce Inversa” di Mota

di Pierfrancesco Trocchi

Per responsabilità di altri, talvolta si è costretti all’idea di un carotaggio salvifico dentro sé stessi, senza sapere quale sarà l’approdo finale. La Luce Inversa (Wojtek, 2025) è il romanzo dell’extrema ratio, dove Mota, al suo esordio, si chiede se l’atomizzazione dell’io procurata dal dolore e dalla sua stagnazione sia reversibile. Se una psicanalisi quasi distopica, smaterializzante possa riportare a una normalità che, in realtà, è una vera e propria palingenesi.

In La Luce Inversa la dottoressa Hollis, psicoterapeuta, ha elaborato una terapia in grado di fare dialogare il paziente con il trauma originario per eliminarlo definitivamente e creare un «corpo nuovo di zecca, transitorio ma fatto di luce, costruito dall’inverso, riforgiato da zero senza pecche». Al trattamento, che si svolge nella camera a luce inversa, partecipano Vanessa, Siddiq e Martin. Più che persone, sono coscienze, idee, che riescono a raccontare con lucidità evenemenziale e teorica i traumi delle loro infanzie: Vanessa gli abusi del compagno della madre, Siddiq quelli di un sacerdote e Martin quelli del nonno paterno. Il percorso è straziante e vivissimo. Le tre voci si intersecano e, per la prima volta dopo anni di decubito dell’animo, fanno comunione del proprio dolore e si reificano vicendevolmente. Sono responsabili l’una dell’altra, e questo le rende dinamiche, spiega Siddiq: “Non posso frenare quello che loro provano, perché lo fanno attraverso di me, e io già vivo in parte dentro di loro”.

I ricordi vengono vissuti collettivamente e personalmente al contempo. L’esperimento della luce inversa – quella che riflette all’indietro, capace di riportare chi la introietta all’origine – è una metafora dell’intangibilità del pensiero, che scarnifica e rende pulviscolo. I protagonisti sono come espettorati, senza carne in cui abitare. Sono preda degli occhi della memoria, che vivono in una dimensione sincronica, dove passato, presente e futuro possono stringere legami definitivi, ossia risolutivi o abissali. L’esperimento della dottoressa Hollis è volto al bene, ma la stanza in cui i protagonisti regrediscono verso la propria radiazione cosmica è un brodo primordiale popolato di ogni pensiero svolto fino a quel momento. Come spiega Martin: “il mio buio a volte chiama le cose in un modo diverso, ma non per questo le dimentica; il mio buio può travisare o enfatizzare i toni, ma non equivarrà mai a una rimozione, a un oblio antincendio della memoria”. Nella camera non esiste periplo che suggerisca come permettere di toccare la propria terraferma. I protagonisti sono costretti a costruirselo in autonomia.

Tutto in La Luce inversa si svolge nel recinto del pensiero, o meglio di una realtà aumentata che è a-realtà, fuori dal tempo, dalla parola e dall’azione. Si rimane spiazzati, come davanti a un testo di psicanalisi, di come i fatti rappresentino solo una parte del mondo e delle nostre scelte. Rispetto al cosmo che giudichiamo reale, ovvero quello quotidiano e limitato degli atti e delle cose, l’universo della camera a luce inversa è forse più simile, perché infinito, a quello in cui il nostro e tutti gli altri pianeti sono inseriti. Nella camera vita e morte, presente e assente non sono in antagonismo. La loro convivenza, la stessa che alberga ricordi e miti, è la luce originaria, l’unica forma di comprensione e di ermeneutica dell’esperienza umana.

Mentre rivivono i propri ricordi, Martin, Vanessa e Siddiq possono entrare l’uno nell’altro, conoscersi al punto da non «avere più niente da dirsi», tra di loro «basta uno sguardo nella casa tra le nuvole». Vedono insieme la luce, vedono insieme il proprio «io», in maiuscoletto, come fosse un enorme monumento di una sacralità spaventosa della cui conoscenza non si sentano fino in fondo degni. È la contraffazione progettata dal dolore e dai suoi epigoni pensieri, che porta al terrore dell’aria pulita e invoglia all’urgenza di rientrare entro la cortina della devastazione. È l’abuso che dà vita a un paradossale senso di colpa capace di alimentare un sottile autolesionismo, una sindrome dell’impostore. «Quando mi riscopro io», confessa Vanessa, «quando ri­acquisto coscienza dei miei confini, sto già parlando con loro, dico, ragazzi, torniamo dentro casa», una casa scannata eppure accogliente perché non ne è mai esistita un’altra.

Vanessa e Siddiq rientrano nel proprio lacerato passato per uscirne rassegnati, quasi apatici, vivendolo come compiuto e conservandone le sole macerie, tra le quali sono costretti a trovare spazio per i propri passi. Per Martin, invece, gli abusi subiti in età infantile non sono materia inerte. Martin teme di esserne inquinato e di diventare a sua volta carnefice. Vive il passato come un’irruzione virale ancora energica e capace di riprodursi. Si può dire che lotti anche contro l’eventualità del suo io futuro, non soltanto contro l’io tumefatto dalle violenze del nonno, intrusione a tal punto tentatrice da parlare a Martin con la propria stessa voce, segnalata nel testo dall’uso del corsivo. Difatti, il ragazzo, mosso dal desiderio di uccidere, è l’unico a perdere di vista i compagni di esperimento e a finire in una mostruosa terra di nessuno, un altro pianeta dove si confronta con «lui», il nonno – anche in questo caso, la scelta del maiuscolo è indice di invalicabilità. Il racconto di Martin, poi, è in grado di indagare una precisa deviazione del rapporto tra eros e thanatos. Quello che il nonno paterno persegue è un eros morboso, putrescente che con la morte ha un rapporto di degenerazione e non di liberazione estatica, che si attacca alla pelle come l’odore dei cadaveri e sul quale il ricordo ha l’effetto di un panno bagnato strofinato su un coltello inamidato: sparge l’alone senza mai davvero cancellarlo.

Gli abusi e quel senso di disagio fermentato, crescente che ne accompagna l’esposizione sono resi da Mota con una lingua di un’esattezza inquietante, visuale, rivelatrice. Il lessico è, come la sintassi, poetico in quanto ricchissimo nella sua loquace essenzialità: non fa perdere tempo al lettore e non desidera piacergli. Anzi, talvolta lo repelle, lo esclude, gli fa chiudere il libro per andare a stendere i panni, servirsi un bicchiere d’acqua, riaggiustare la simmetria di una sedia; lo spinge, insomma, all’eucarestia di quei più anonimi atti il cui godimento è precluso ai protagonisti dalla corruzione delle loro intimità abusate.

Più che essere un libro sugli abusi, La Luce Inversa è un libro con gli abusi. Mota parla delle violenze sessuali come si dovrebbe sempre fare, vale a dire studiandone l’inafferrabilità evitando appiattimenti da dépliant informativo. La Luce Inversa è l’utopia o, meglio, la speranza di darsi un nuovo nome e una nuova grammatica di fronte alla gratuità del male. Come Adorno sosteneva l’impossibilità della poesia dopo Auschwitz, Mota suggerisce l’insufficienza della parola dopo il trauma, invitando a nuotare dentro di sé e cercarvi un abbaglio per ritrovare un centro.

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