L’arte di legare le persone

Questo pezzo è uscito su Robinson de La Repubblica, che ringraziamo.

di Nicola Lagioia

C’è una città nella città, ed è quella in cui si muove chi soffre di problemi mentali. A volte la separazione tra sani e malati è segnata da un confine chiaro (clinica psichiatrica, comunità terapeutica), ma assai più spesso gli abitanti dei due regni condividono lo stesso spazio senza che i sani – a cui un certo tipo di vista difetta sempre un po’ – se ne rendano conto.

“Io non capisco come fai a mantenerti. Quanti matti ci sono in città?”, chiede una ragazza allo psichiatra invitato a cena dai suoi genitori. “Vediamo”, risponde lo psichiatra, “proviamo a contare quanti ce n’è in questo palazzo”. “C’è solo il pazzo del terzo piano, quello che parla da solo”, ribatte troppo certa l’interlocutrice. “C’è per caso una ragazza magra, magra che sembra uno scheletro?”, indaga lo psichiatra. “Giovanna, sul nostro pianerottolo”, risponde la giovane. “Ora voglio sapere, non c’è un signore scavato che esce poco, non apre mai la porta, è silenziosissimo e non si spinge nemmeno sul poggiolo tutto sporco di cacche di piccione?” “Sì, Silvio, al terzo piano”. “Beccato il paranoico”, ribatte lo psichiatra, “passiamo ai depressi. Hai mai sentito un vicino dire: non andiamo al mare, mia moglie sta a letto?” “Sì, ultimo piano”. “Una sola depressa? Facciamo finta che sia così. Non mi dire che in tutto il palazzo non c’è una vecchietta che straparla e butta oggetti dalla finestra?” “Per la verità sono due”, risponde la ragazza censendo involontariamente anche i casi di Alzheimer. “Vedi”, conclude lo psichiatra, “se si curassero tutti potrei mantenermi solo con questo palazzo”.

La ragazza inconsapevole di ciò che accade nel proprio condominio siamo noi. Lo psichiatra che mina le sue certezze a colpi di maieutica è Paolo Milone, autore di L’arte di legare le persone, opera letteraria sulla malattia mentale tra le più belle, inusuali e poetiche degli ultimi anni. Nato a Genova nel 1954, Milone ha lavorato in un Centro di Salute Mentale, poi in un reparto ospedaliero di Psichiatria d’urgenza. Proprio quest’ultimo – ribattezzato nel libro Reparto 77 – è l’osservatorio dal quale Milone racconta la sua esperienza quarantennale, al tempo stesso è un passaggio doganale, la “stanza magica” dove sani e malati si scambiano per qualche istante i passaporti ingaggiando un corpo a corpo senza il quale, forse, l’intera umanità sarebbe perduta.

“Il vasto mondo della Psichiatria si spalanca quando vi avvicinate a due metri dal paziente. Se vi avvicinate al metro, diventa fantasmagorico. Se vi avvicinate oltre, diventa un inferno”. Compito dello psichiatra è scendere ogni giorno in quell’inferno per aiutare chi ci vive, ma anche per attraversare un luogo dove le emozioni – nonché alcune strategie di sopravvivenza, l’arte del raggiro e della manipolazione – vengono spinte al massimo, portando i sani a contatto con qualcosa di fondamentale che gli appartiene da sempre, ma che (sogni notturni esclusi) non ritroverebbero da nessun’altra parte. Con una scelta sapiente Milone utilizza uno stile che mette il verso libero a servizio della narrazione pura – può ricordare L’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Master –, così facendo sintetizza efficacemente in duecento pagine ciò che altrimenti avrebbe richiesto il doppio. Pura emozione, intuizioni non banali, qualche provocazione, non ci si annoia mai. Seguiamo l’io narrante nei momenti più critici del suo mestiere ma anche nelle fasi di routine, la burocrazia, i colleghi simpatici, i carrieristi senza spessore, le lotte tra le diverse scuole di pensiero, la nobile scuola degli infermieri di psichiatria d’urgenza, la percezione sempre un po’ falsata che gli altri hanno di chi si occupa di malattia mentale. Il centro del libro resta il rapporto con i pazienti, le loro vite fuori e dentro le cure mediche, il loro tenersi aggrappati alla vita o il lasciarla andare (le pagine sul suicidio sono tra le più toccanti), le esplosioni di rabbia, i crolli, e poi la speranza, la dolcezza devastante, le ricadute, il legame emotivo, intellettuale, sentimentale (il verbo all’infinito del titolo non riguarda solo la contenzione) che lo psichiatra instaura con loro. La malattia mentale come esercizio d’alterità (“negare l’esistenza della follia dicendo che siamo tutti uguali è annullare la diversità dell’altro, rendendo tutto grigio. Nell’epoca manicomiale i matti venivano esclusi dalle città, oggi sono esclusi dalla mente: la stigmatizzazione assoluta”), e come stato eversivo (“chi è triste esce poco di casa, e spende meno di chi è allegro. L’ideale per la società dei consumi è tutti allegri e nessuno triste”).

C’è poi Genova, raccontata nel Novecento in modo unico da poeti e cantautori, poi sprofondata nell’oblio, e qui di nuovo alla ribalta come teatro ideale della rappresentazione. Ci sono le felici misurazioni dello spazio (“nel centro storico di Genova, le piazze più grandi sono gli interni delle chiese, a volte, per girare in città conviene entrare da una navata e uscire dall’altra.”) e il modo in cui quello spazio precipita sullo spirito di chi ci abita (“Cesare, smettila di dare antidepressivi a tutti i genovesi che incontri. È vero, i genovesi si lamentano tutti, ma non sono depressi. Il mugugno ha i suoi canoni, è musica popolare. È un blues laico, che parla della fatica dell’uomo ma non cerca nessuna salvezza”).

L’arte di legare le persone è un libro unico nel panorama italiano. Per forma, oggetto di scavo, capacità di indagine, arte del paradosso. Se ho citato Spoon River l’ho anche fatto con spirito provocatorio poiché, in questa ballata del mare salato, da quale regno escano i vivi e da quale i morti non è mai del tutto chiaro.

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