Le colonie ebraiche ne La Nuova Russia di Singer: storia di un mondo perduto
di Caterina Panetta
Un uomo viaggia in treno attraverso la steppa. Indossa un abito grigio chiaro, da buon europeo d’altri tempi. Cerca di non addormentarsi, poiché ha paura che gli rubino il cappotto. Il suo peregrinare lo porta a scoprire e documentare come vivono gli ebrei in Unione Sovietica. È il 1926.
“Dopo i feroci pogrom e la guerra civile in Ucraina, gli ebrei hanno abbandonato le città e i villaggi devastati e sono partiti a gruppi alla ricerca di nuove terre. Non è stata una migrazione semplice. Questi ebrei – ex bottegai, intermediari, artigiani, maestri itineranti, carrettieri, mezzadri […] – investivano i pochi soldi loro rimasti nell’acquisto di cavalli e calessi, facevano fagotto con le loro ultime, povere cose – lenzuola lacere, candelabri di Shabbat, libri od opuscoli religiosi – e tristi e sconfortati attraversavano le steppe dell’Ucraina per stabilirsi su queste terre. “
Un racconto di viaggio affascinante quello di I.J. Singer ne La Nuova Russia, recentemente ristampato da Adelphi. Il mondo descritto quasi cento anni fa da questo giornalista ebreo-polacco, nel suo reportage per il quotidiano newyorkese Forverts, pubblicato in yiddish, oggi non esiste più. Non esiste più l’URSS, ma soprattutto non esistono più le numerose comunità ashkenazite in Europa Orientale e in Russia, decimate dall’Olocausto, dalle deportazioni staliniane e dall’emigrazione verso il continente americano e quella che allora veniva chiamata, semplicemente, la Palestina. Ad essersi quasi estinta è anche la lingua yiddish, che veniva parlata negli Shtetl, i quartieri ebraici. Una lingua derivante principalmente dal tedesco, scritta però con caratteri semitici, come anche il cosiddetto giudeo-romanesco. Nel romanzo autobiografico Una storia d’amore e di tenebra (2002), Amos Oz, descrivendo i suoi genitori, ci regala un affresco indimenticabile di questa diaspora di stampo germanico in Israele: “[…] mio padre era in grado di leggere sedici o diciassette lingue e di parlarne undici (tutte con accento russo). Mia madre aveva dimestichezza con quattro o cinque, e ne leggeva sei, otto. Fra loro, conversavano in russo e in polacco, quando non volevano farsi capire da me (capitava quasi sempre…). Se il senso culturale li spingeva a leggere per lo più in tedesco e in inglese, certamente era l’yiddish ad abitare i loro sogni, la notte. Quanto a me, insegnarono solo e soltanto l’ebraico: forse per paura che la padronanza di tante lingue esponesse anche me alle seduzioni della letale Europa […]”.
Ma torniamo a Singer. Il suo racconto è una rassegna di immagini vivide che fotografano la vita del popolo di Abramo nella terra dei soviet, una volta terminata la guerra civile. Si parte da Mosca, con la sua Piazza Rossa “ampia, immensa, autenticamente russa e favolosamente bella” e Minsk “a detta di tutti una città allegra e vivace. Conserva ancora oggi il fascino delle città ebraiche lituane di confine”, per poi percorrere le strade che attraversano le campagne, in cui “non si vedono alberi, non si vedono cespugli, solo steppa e ancora steppa” fino a raggiungere Charkiv “dura, industriale, poco attraente”, Kiev “in questa assurda città ho trascorso i giorni più amari e forse anche i più dolci della mia vita” e i luoghi più sperduti della Crimea “immersa nella luce e nei fiori”. È una testimonianza scritta all’impronta, tuttavia minuziosa. Singer descrive le persone che incontra; compagni di viaggio, camerieri, vetturini, passanti, agronomi, contadini, ebrei anziani con mogli giovani: “ho visitato numerose città e incontrato ebrei di ogni sorta: comunisti e benestanti, pii ed eretici, mercanti e artigiani, operai e impiegati. L’argomento che più sta a cuore, quello di cui tutti parlano, è quel che si deve fare con i giovani.” I suoi ritratti hanno un nonsoché di impressionistico; poche semplici pennellate che restituiscono i tratti nitidi di una persona incontrata per strada. Nella casualità delle conversazioni, Singer cerca di cogliere speranze, desideri, ma anche amarezza, disincanto, talvolta la disperazione, degli abitanti della nuova Russia.
La narrazione comincia con un tono allegro andante. Il treno che da Berlino porta a Mosca è piacevolmente riscaldato e pieno di persone interessanti ed entusiaste di recarsi in Unione Sovietica per fare affari e, più in generale, per scoprire un nuovo modo di vivere ricco di promesse. In sostanza, il migliore dei mondi possibili. Il giornalista sale a Varsavia e si trova immerso in una moltitudine di lingue: tedesco, polacco, francese, inglese, russo. Un afflato di vecchia Europa che si ritrova, per dirla con Elias Canetti, sul suo simbolo di massa per eccellenza, il treno, ad intavolare educate conversazioni tra perfetti sconosciuti in abiti eleganti. Un’abitudine che R.D. Kaplan definisce la cultura dei caffè in Adriatico. Un incontro di civiltà (2022).
In un primo momento, la cronaca è volutamente in stile pubblicità progresso. Mosca viene descritta come un’araba fenice che risorge dalle sue ceneri, in cui gli antichi simboli delle aquile zariste si fondono con la falce e il martello. Con scuole e orfanotrofi in ogni vicolo, istituti professionali per i figli degli operai, che si erano sempre visti chiudere la porta in faccia, e dove le donne hanno diritti e salari uguali a quelli dei loro mariti, Mosca appare come un luogo in cui accade solo ciò che è giusto. Onnipresenti i ritratti di Lenin, trasformati in icone benedicenti e adorati come tali. Mosca e le sue chiese, le cui campane suonano all’unisono, la sera, mescolandosi ai canti rivoluzionari dell’Armata Rossa in marcia. Una scena struggente, che porta ad immaginare la neve sulle guglie del Cremlino, un vento a trenta gradi sotto zero, le vecchie coi rosari e i film di Eizenstein sulla rivoluzione, per citare la Prospettiva Nevski di Battiato.
In maniera accidentale, quasi avesse dimenticato di parlarne prima, Singer descrive anche i bambini che vivono in strada, randagi e afflitti da malattie veneree, i prezzi esorbitanti, i negozianti che non riescono a sbarcare il lunario e che vengono discriminati in quanti non appartenenti al proletariato e quindi, quasi borghesi. Lui stesso aveva vissuto a Mosca pochi anni prima, nel 1921, ai tempi del comunismo di guerra. La profondità emotiva nel suo ritratto della città tradisce un legame personale. Ma il mondo che trova è molto diverso rispetto dalla realtà che aveva conosciuto. Più volte ammette di non credere ai propri occhi e rimane attonito davanti ad una situazione che era cambiata radicalmente in così poco tempo.
L’argomento che lo interessa di più è, ovviamente, l’ebraicità e la sua integrazione nel tessuto sociale. Il suo è un racconto appassionato sul sogno dell’emancipazione. Un inno, a tratti messianico, al nuovo inizio. Dopo la rivoluzione d’Ottobre gli ebrei russi acquisirono cittadinanza e i diritti civili, da sempre loro negati. Una cosa simile accadde tra l’altro anche in Italia, quando dopo l’Unità gli ebrei ottennero la cittadinanza e si sentirono italiani, soprattutto in virtù del fatto che molte comunità avevano attivamente sostenuto i vari movimenti risorgimentali. In Russia, i diritti arrivarono dopo i terribili pogrom subiti in epoca zarista.
L’acquisizione dello status di cittadini consenti l’accesso di molti ebrei a professioni prima loro precluse, come ad esempio quelle di tranviere, facchino, postino, operario, telegrafista. Per altri significò l’abbandono delle attività commerciali in città e una nuova vita nelle campagne, da contadini. È soprattutto questo il nuovo inizio che Singer illustra.
La sua testimonianza è lo spaccato prezioso di un mondo perduto che, attraverso i suoi occhi, torna ad essere per noi lettori vibrante di vitalità. Accade quando descrive le numerose istituzioni yiddish che trova a Mosca: editori, circoli, facoltà universitarie, corsi e addirittura un teatro. Tutte cose che prima della Rivoluzione non esistevano. Segni tangibili della nuova posizione sociale raggiunta. Con orgoglio, riferisce di come a Minsk l’Istituto di cultura bielorusso stesse redigendo un dizionario accademico yiddish. Oppure quando ci dice che nei vicoli sudici di Minsk “ convivono, gomito a gomito, le grandi idee e il contrabbando, la pavidità e la noncuranza, la devozione e l’eresia, il pudore e la dissolutezza, il vecchio e il nuovo, e questo miscuglio è pieno di vita, di irrequietudine e di speranza”. È l’immagine di uno Shtetl, dal tedesco Städtlein, ovvero “piccola città”; un piccolo agglomerato urbano, povero e intriso di religiosità, generalmente appartenente a qualche pezzo grosso della comunità. Una realtà scomparsa in Europa Orientale. Alcuni Shtetl sopravvivono oggi nelle comunità haredim presenti negli Stati Uniti, in particolare nello stato di New York (Kyrias Joel, New Square e Kaser).
L’immagine del tribunale ebraico visitato a Minsk è altrettanto intensa: un normalissimo appartamento con il tavolo della corte coperto da un panno rosso e, ancora una volta, il ritratto di Lenin al posto d’onore. I casi presentati in yiddish, il giudice che era un ex bracciante e gli avvocati che parlavano metà in yiddish e metà in russo. Singer arriva addirittura a descrivere i tranci di carne appesi fuori dall’appartamento stesso, lasciati a gocciolare sangue affinché diventino kosher.
Il territorio che Singer percorre è vastissimo. L’integrazione ebraica cambia man mano che egli si dirige più a Sud. A quei tempi la capitale dell’Ukraina era Charkiv, che Singer chiama Charkov, in russo. Qui, nonostante esistessero diversi giornali yiddish, gli ebrei e gli ucraini preferivano parlare russo. In questa città, migliaia di ebrei lavoravano nelle fabbriche come operai. Non mandavano i figli nelle scuole yiddish e preferivano che la loro lingua madre fosse il russo. I figli però non capivano una parola di ciò che veniva detto a scuola.
Singer racconta anche di come diventare cittadini portò molti ebrei ad abbandonare il loro abbigliamento tradizionale. Recandosi in sinagoga per il kaddish, il reporter si stupisce quando nota che nessuno indossa una kippah come si deve ma cappelli da ciclista, berretti, cappelli di pelo. Accade anche in campagna, i contadini indossano pellicciotti rossi e stivali come i goy, i gentili, cioè i non ebrei. Una relazione, quella tra ebrei e non ebrei, antichissima, travagliata, irrisolta, sempre attraversata dal sospetto reciproco. Come attraverso uno squarcio, Singer ce ne offre un archetipo: “Proprio come in passato, gli ebrei si avvicinano silenziosamente ai carri dei contadini, tenendo stretto il borsellino e masticando fili di paglia. Proprio come in passato i contadini e le contadine, poveri contadini bielorussi, si aggirano con passo pesante e tastano le merci sulle bancarelle degli ebrei, esattamente come gli ebrei palpano i loro sacchi di grano. Sembra che gli ebrei e i gentili si limitino a questo gran smanacciare – nessuno compra nulla.”
Invece, nella nuova Russia gli ebrei non sembrano ebrei e si confondono con i gentili. Nelle colonie ebraiche arrivano perfino ad allevare maiali inglesi e, orrore, a mangiarne la carne. É proprio in campagna, visitando le colonie ebraiche, che il racconto si fa toccante e, ancora una volta, personale. Singer ci dice che i protagonisti della colonizzazione ebraica nella Russia sovietica furono gli ebrei stessi. Fuggivano dalla guerra civile e dai pogrom in Ucraina ed erano alla ricerca di nuove terre.
Abbandonarono città e villaggi e diventarono agricoltori. All’inizio, vivevano accampati in tende e i primi anni furono difficili, in quella terra incolta in cui non c’era un solo albero e tutto era da fare da zero. Ma loro costruirono carri coperti con tovaglie di Shabbat, trascinarono assi e pali comprati molto lontano per costruire le loro case. Non avevano idea di come mettere i finimenti ad un cavallo e tenere in mano le redini, per non parlare di maneggiare un aratro o una vanga. Le cose cominciarono a migliorare con il supporto di organizzazioni internazionali quali il Joint Distribution Committee, la Gezerd, la sezione ebraica del partito comunista, e altre organizzazioni minori. Ancora, Singer ci parla delle tegole rosse tipiche dei villaggi ebraici, così diverse dai tetti di paglia nelle case dei contadini russi, dell’accoglienza dei coloni che non vedono l’ora di ricevere notizie dal mondo, e delle loro case che finalmente hanno i comignoli.
Il corrispondente viaggia in lungo e in largo per la steppa. In treno, in automobile, persino sui carri dei coloni. Visita villaggi e fattorie collettive dove gli ebrei vivono in più famiglie, ma anche quelle dove i giovani non si sposano perché sperano un giorno di poter emigrare in Terra Santa. Ogni singola colonia ebraica visitata viene descritta, sia essa florida o meno, così come ogni ebreo incontrato. Sono storie di riscatto, di malinconico abbandono e dure ripartenze nelle quali si percepisce, tra le righe, quanto Singer sia fiero dei suoi confratelli, del loro duro lavoro e dei risultati raggiunti.
In questo meraviglioso resoconto d’altri tempi si intrecciano infinite suggestioni. Ci viene voglia di sapere che fine abbiano fatto tutte quelle persone. Se siano riuscite ad emigrare, se parlano ancora yiddish, se siano sopravvissuti alle deportazioni naziste e, in seguito, a quelle staliniane. Oltretutto, molte delle regioni visitate da Singer sono le stesse in cui oggi imperversa la guerra. Il presente distrugge il passato o magari, come è forse più probabile, lo ripete. Una vecchia storia. In questo caso una storia russa che, da almeno centocinquant’anni, è innegabilmente avviluppata in quella europea.
Una colonna portante della società europea, quella ebraica, è stata rasa al suolo nella parte orientale del continente, e la sua assenza ci impedisce di comprendere appieno l’identità culturale dell’Europa oggi. È un dato di fatto che in passato, parafrasando Claudio Magris in Danubio (1986), l’anima del Mitteleuropa fosse basata su una totale fusione tra la cultura ebraica e quella tedesca. La Shoah ha distrutto la cultura yiddish in quel pezzo di mondo e oggi non ne rimane che il ricordo o meglio – dice sempre Magris – una certa idea di Europa Centrale. Io estenderei il concetto all’Europa intera.
Mi viene in mente Hanna Arendt, originaria di Königsberg, un’antica città prussiana che porta il nome di Kaliningrad dopo l’annessione all’Unione Sovietica nel 1946. Arendt fuggì dalla Germania nel 1933, per riparare prima a Parigi, poi a Lisbona e infine negli Stati Uniti. Per tutta la vita, gli amici più cari e i pensatori che la ispiravano rimasero tedeschi. Jan Brokken racconta, in Anime Baltiche (2010), che l’unico libro della biblioteca paterna che la accompagnò a New York fu la prima edizione de La pace perpetua del suo concittadino Immanuel Kant. Per Arendt “il buon vecchio Kant” significava Königsberg. In altre parole, casa sua. Di nuovo, della città in cui Arendt nacque oggi non rimane quasi più nulla. Un altro prezioso tesoro di cultura europea fatto a pezzi dalla storia, di cui non rimane che un’eco in lontananza. Come quello degli italiani d’Istria la cui memoria sopravvive nel rapporto di vicinanza, quasi parentale, con la comunità slovena.
L’eredità degli imperi europei, fino a quello austro-ungarico, è proprio quella della convivenza, spesso tragica, tra lingue, religiosità e modi di vivere molto diversi tra loro. Un’eterogeneità che ha portato a guerre atroci e lunghissime, ma che ha anche prodotto un intreccio di Weltanschauungen unico nel suo genere. La nervatura del tessuto sociale e culturale europeo si è basata per secoli su tali commistioni. Penso a Philippe Daverio che, in una trasmissione televisiva, una volta disse che, da buon cittadino europeo, parlava almeno cinque lingue.
L’Europa oggi sembra agognare illusioni identitarie, sovraniste o, per citare di nuovo R. Kaplan, società monoetniche. Il che è quanto di più lontano si possa immaginare dall’essenza stessa del Vecchio Continente, che si è sempre fondata su una stratificazione eclettica di elementi di diversa natura. I nazionalismi inneggianti all’etnia unica non sono altro che entità astratte, create a tavolino. Sono narrazioni della realtà incomplete, per non dire spudorate, che trascurano di proposito la storia. Soprattutto, il loro scopo è quello di traghettare il continente verso una direzione diametralmente opposta rispetto a quella che, per sua natura, esso sarebbe portato a prendere. Una direzione che all’Europa ha solo fatto perdere pezzi e influenza in passato. Nulla suggerisce che il presente possa essere diverso. “Stiamo miagolando nel buio”, diceva Quelo. I mondi perduti, come le comunità yiddish, la Prussia Orientale, gli italiani di Istria e Dalmazia, per citarne solo alcuni, rappresentano una parte importante della nostra storia di cittadini di questo continente. Conoscerle ci aiuta a capire meglio chi siamo e in che direzione stiamo, o non stiamo andando.
Bella recensione. Ma non si tratta di una ristampa, è una prima traduzione in italiano. E penso che chi traduce debba sempre essere menzionato, perchè partecipe della fortuna di un libro. In questo caso Marina Morpurgo, che ha fatto un gran bel lavoro a mio parere.