“Le cose oscure che ci riguardano”: su “Tu uccidi” di Ronco e Paolacci

di Michele Vaccari

Tu uccidi (effequ) di Ronco e Paolacci è un’opera decisamente contemporanea nella tensione che la muove. Il campo d’azione, infatti, è ibrido. Partendo, come per antitesi speculare, dal delitto di un’altra coppia, Erika e Omar, Novi Ligure, inizio 2001, come se a dovere essere analizzato fosse un vero assassino dalla personalità sfaccettata, la disamina fattuale si fa prima politica per poi camuffarsi da manuale di scrittura di genere perché la competenza in materia aiuti a tentare di risolvere il più grande giallo italiano degli ultimi trent’anni, la narrazione pubblica che vede contrapposti colpevoli e vittime, una serial killer che tutti conoscono di nome ma nessuno sa davvero chi sia.

Inizio 2001: il suo avere molto a che fare con il 20 luglio del 2001 segna inesorabilmente l’inizio del terzo millennio e di questo pamphlet. Esempio dopo esempio, paragone dopo paragone, Paolacci e Ronco, si prendono, da scrittori, la responsabilità dell’indagine sociale che di solito fa scappare a chilometri gli intellettuali; senza scegliere mai da che parte stare della barricata, grazie a interrogativi che esulano dalla speculazione capziosa ma che entrano nei fatti per aiutare il lettore a esplorare nel profondo la crisi umana che attraversa un Occidente svuotato di prospettiva, incapace di vedere il progresso nemmeno quando sono i numeri a confermarlo, la coppia analizza e circostanzia, come impone ogni ricerca degna di questo nome, senza dimenticare di intrattenere, con cliffhanger da romanzo d’appendice che lasciano con la voglia di proseguire, vedere qual è il nuovo oltre che non ci eravamo accorti di avere superato. E questa immersione nel perché si uccide (anzi: nell’io uccido, parafrasando il titolo dell’opera e restituire a Faletti ciò che è di Faletti), è ricca di aneddoti, spunti, dati, soprattutto dati, che riescono a diventare persino godibili grazie a una scrittura che non rinuncia a un certo sarcasmo politico per mostrare cosa ci accade quando parte il circo mediatico e tutto diventa degno di essere raccontato, quando cioè, incapaci di riconoscere il confine tra fiction e realtà, rischiamo di creare un effetto allucinatorio che può travolgere tutto, forse per sempre.

Ronco e Paolacci non hanno soluzioni facili, si e ci interrogano sull’ipocrisia spesso involontaria che ci accomuna quando, da spettatori di noir da due soldi, al cospetto di una strage atroce, reale, ma altrettanto intrigante in termini di trama, ci trasformiamo nei peggiori carnefici dell’altro, quando, cioè, la morte violenta diventa un fatto vivo, reale, che di catartico ha solo la capacità di renderci più innocenti se la colpa è in testa a qualcuno di diverso da noi, specialmente quando quel qualcuno è molto, molto diverso da noi. In modo quasi premonitore, Tu uccidi è una risposta perfetta al concetto di normalità espressa dal soldatino più noto delle patrie lettere. Ci inchioda agli episodi salienti della nostra storia comune contemporanea, andando a creare un filo gelido tra cittadini e politica, tra giustizia e redenzione, nella fotografia di un’Italia incapace di liberarsi dei suoi fantasmi più spaventosi, il bisogno raggelante di sentirsi “persone perbene”. E non a caso è citata Twin Peaks, come metafora di un inconscio oscuro che ci aiuta a sentirci così, pur non essendolo, permettendoci di mettere una distanza tra la percezione che abbiamo di noi e l’inconscio che sa la verità su chi siamo davvero.

Tu uccidi diventa così la prova che userebbero i noti Ris per dimostrare che buona parte dell’orrore che pretendiamo di vedere ovunque, è solo il riflesso che proietta il nostro sguardo sull’altro, lo storytelling che viviamo tutti i giorni, quello per cui gli ultimi siano i cattivi e i potenti i buoni, i salvatori. Come in un noir di quelli costruiti con cura, anche qui ci ritroviamo non tanto col focus puntato verso un colpevole deviato in una società di perfetti ma, piuttosto, l’attenzione degli autori è concentrata sul contesto, sulla distrazione di massa che si nutre di allarme, di rendere epica una questione spesso domestica, e sul come in realtà questa apocalisse che ci piace immagine a ogni angolo, a ogni sbarco, non esista più da decenni. Ma in fondo cos’è Tu uccidi se non questo, un j’accuse tra i più lucidi sulla nostra sindrome infinita da pregiudizio, una visione deviata della realtà ben sintetizzata dall’abrasivo motto Dio, patria, fioriere che dà titolo a uno dei capitoli più indovinati di questo saggio?

Va letto, Tu uccidi, va letto per scoprire dove allignano le cose oscure che ci riguardano, le nostre parafilie securtarie, il nostro bisogno soffocante di sconosciuti da condannare per espiare anche le nostre colpe, la fame atavica di decoro e punizioni esemplari, fisiche, definitive, di ammazzare chi ha ammazzato, un continuo rimpallo tra la parte giusta della storia cui vorremmo ascriverci e la parte di noi più ferina, insomma, che spesso tentiamo di nascondere tra la polvere degli armadi dove conserviamo ben lucide le armi con cui invocheremo l’imprescindibile, sacrosanta legittima difesa, o nel discorso razzista da bar detto tra i denti, quando il lavoro ha tolto ogni energia e vorremmo fare fuori tutti, perché dovremmo essere gli unici che avrebbero diritto e ragione di farlo.

Va letto Tu uccidi anche solo per godere dell’impianto, delle sfumature cromatiche che assume il tessuto narrativo, una lettura che sembra un podcast a puntate sull’ennesimo caso di cronaca ma poi apre scenari che sconfinano nel letterario puro, mentre si lasciano i documenti per scendere in strada e tornare a fare ricerca, per prenderci di sorpresa, una corsa ragionata con tappe fisse a cui fermarsi per fare il punto, capire quale sia la direzione da scegliere, quale sia la teoria di fondo, una teoria che il lettore tenderà a rifuggire come la tela di un ragno, per paura di scoprire che i killer di cui si parlerà nell’ultimo capitolo siamo noi.

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