Leggere “La vagabonda” in un nuovo secolo

Pubblichiamo, ringraziando l’autrice e l’editore, la prefazione di Daniela Brogi al romanzo La vagabonda di Colette che esce per L’Orma con la traduzione di Camilla Diez. La vagabonda inaugura, assieme a Gigi, il “Chantier Colette”, il «cantiere» editoriale della casa editrice L’Orma dedicato a una delle artiste più libere e luminose della letteratura francese del Novecento diretto da Daniela Brogi, Lorenzo Flabbi, Daria Galateria.

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Attraverso lo specchio

Chi è veramente “la vagabonda”? Possiamo rispondere in vari modi alla questione, che si pone già a partire dal titolo del romanzo, dove una parola usata di solito come aggettivo viene trasformata in un destino.

Una volta aperto il libro, fin dalle righe iniziali, scritte in prima persona, scopriremo che la vagabonda è anzitutto la narratrice di se stessa. È colei che fa esistere la storia perché è lei a gestire il discorso, e perdipiù a collocarsi dentro la vicenda. Ma la vagabonda è anche una sorella d’anima di Claudine, la mitica protagonista del ciclo in quattro volumi originariamente firmato soltanto dal marito di Colette, Willy, da cui la scrittrice divorzia definitivamente proprio nel 1910, l’anno di pubblicazione della Vagabonda. Anche nei romanzi di Claudine la protagonista, che sarebbe diventata la ragazzina più leggendaria di Francia, usava la prima persona; in più, all’inizio del libro che apre la tetralogia (Claudine a scuola, uscito nel 1900), nella descrizione dei boschi dove ha trascorso l’infanzia, Claudine adoperava proprio l’immagine dell’erranza: «J’ai vécu dans ces bois dix années de vagabondages éperdus, de conquêtes et de découvertes». Questa nuova creatura d’invenzione che viene al mondo nel 1910 è dunque un essere felice e ibrido, fatto di tante donne possibili e tutte da scoprire. Per lei Julia Kristeva ha usato una formidabile espressione, quando ha definito la vagabonda una «sorella solare delle isteriche». È proprio così, in effetti, e tra l’altro con una coincidenza di date significativa: L’interpretazione dei sogni (uscito nel 1899 con data 1900) ha la stessa età del personaggio di Claudine. Nel medesimo momento in cui la psicanalisi scopriva se stessa attraverso le isteriche e consegnava al mondo il mito di una femminilità scomposta, ma nel senso di “notturna”, fragile, nervosa, patologizzata, insicura, chiusa (o internata) e, in estrema sintesi, inferiore agli uomini, ecco invece arrivare in scena anche la mima, l’attrice spiantata e spesso disperatamente sola, ma indipendente e solare, per l’appunto: una donna che poteva essere e dire qualcosa di completamente diverso, dando vita a un immaginario, un vocabolario e un modo di considerarsi – persino di spogliarsi – altrettanto nuovi.

Tutto questo in un certo senso è mostrato già nella prima pagina della Vagabonda, che comincia con la voce di un’artista che prende a raccontarsi prima di andare in scena, incon- trando il proprio riflesso nello specchio («questa consigliera tutta truccata che mi guarda dall’altro lato dello specchio […] Mi guarda a lungo, e so che parlerà… Mi dirà: “Sei proprio tu, qui davanti?”»). È un inizio dentro un inizio: portentoso, per la modernità e originalità dei significati. Il cinema del Novecento, per esempio, sfrutterà molte volte la situazione metanarrativa del personaggio in camerino o in stanza che parla rivolgendosi alla propria immagine – valga, a titolo di esempio, la scena indimenticabile di Maddalena (Anna Magnani) che si trucca e si parla allo specchio in Bellissima di Visconti (1951).

La protagonista della Vagabonda ha un nome eloquente, perché si chiama Renée Néré, un nome e un cognome che sono quasi anagramma l’uno dell’altro, fatti di suoni che sembrano danzare rispecchiandosi reciprocamente. Ma, soprattutto, Renée in francese si pronuncia come «rinata». La protagonista è una maschera che si guarda, però è anche una persona nuova, che cerca un volto diverso, altro rispetto all’unica e identica immagine femminile (sempre dai capelli biondi) che il marito pittore dipinge da vent’anni, rivelandoci, nella monotonia di questa ripetizione, una totale incapacità di vedere realmente le donne. La vagabonda, insieme all’artista in costume di scena, è la donna che rinasce attraverso la scrittura e il racconto di sé, perché è così, guardandosi, che potrà vedere e riconoscere i suoi più autentici bisogni. Il romanzo è dunque la storia di una vita nuova, che parte dal momento in cui Renée ha deciso di lasciare il marito che la tradiva continuamente (p. 55-56). Ascoltando il suo racconto, seguiamo e viviamo una parabola di rinascita scandita in tre parti. All’età di trentatré anni compiuti («non sono più una giovane donna»), dopo un brutto divorzio, Renée Néré è una letterata finita male, che per «continuare a vivere», cioè per mantenersi, ha imparato a esibirsi come mima e ballerina nei caffè-concerto di Parigi. Abita in un palazzo pieno di «signore sole», in compagnia di Fossette, una vanitosa bulldog francese nera vendutale da un collega ballerino. Ha smesso di scrivere, per assenza di denaro e di soddisfazione. Questa prima parte è dedicata alla ricostruzione di un sé fortemente segnato dal trauma del divorzio. Qualcosa però comincia a cambiare dopo l’incontro con Maxime Dufferein-Chautel, un ammiratore bello, ricco, della sua stessa età – anche se lei si sente più adulta e matura –, che vorrebbe sposarla (mentre intanto regala a Fossette collari di pelle rossa con borchie dorate). Piano piano questa liaison incrina il partito preso di una vita futura solitaria e indipendente. Le illusioni dell’amore e di abitudini affettive sempre più simili a schemi di coppia cominciano a delinearsi – siamo ancora nella seconda parte – come uno spazio di proiezioni vitali da riscoprire con curiosità e spirito di sperimentazione, soprattutto da quando Renée intravede, dietro i modi eleganti da gentiluomo del suo corteggiatore, un’anima di campagna, un amante dei boschi che la rimette in contatto con la propria infanzia. Nonostante ciò, proprio quando stava decidendo di lasciarsi andare e innamorarsi, ecco che la vagabonda, senza chiedere il consenso a nessuno, accetta di partire per una tournée di quaranta giorni a centocinquanta franchi, promettendo a Maxime che al ritorno potranno stare insieme per sempre. Malgrado la vita faticosa (e vitalmente “zingara”) raccontata nella terza parte, quando impiega il tempo a lavorare senza orari, scrivendo lettere piene di nostalgia, dormendo male e mangiando peggio, trasferendosi da un teatro e da un café-chantant all’altro, Renée, al rientro dal viaggio, è attratta dalla proposta di una nuova tournée in America Latina. Costretta a decidere tra la storia d’amore e il suo lavoro, capisce di non voler rinunciare di nuovo alla sua vita «vagabonda» e all’indipendenza per consegnarsi a un uomo. Così interrompe la relazione con Maxime. A questo punto della storia, dunque, la vagabonda è diventata anche colei che simbolicamente e letteralmente si pone fuori: da una casa unica (piena di mobili «stregati» cioè abitati da un passato doloroso), dalla prospettiva del matrimonio, dalla possibilità di una nuova unione con un marito che, pur essendo diverso, diventerebbe in ogni caso un padrone, e persino dall’Europa. Renée continua a rinascere – lo ha fatto in ciascuna delle tre parti del romanzo – mettendosi oltre il perimetro simbolico delle aspettative altrui. Continua ostinatamente a voler andare in scena come soggetto imprevisto: per non farsi prendere e per seguitare a vivere di testa propria, come una ragazzina che corre tra i boschi, senza divieti né permessi.

La scrittura come talento e artificio di libertà

Su una foto con dedica esposta al Musée d’art moderne Richard Anacréon, a Granville, che la ritrae in camicia e cravatta, con i capelli corti e un collier di perle, in una postura molto seria, da scrittrice, con il busto eretto e il volto concentrato su un quaderno, Colette ha scritto: «La joue creusé, l’air chien battu. C’est bien moi… en 1897» («la guancia incavata, l’aria da cane bastonato. Sono proprio io… nel 1897.» Ma non è tutto vero, la data non è precisa, perché nel 1899 aveva ancora i capelli lunghi). Come Renée Néré, come un’artista della pantomima e come una vera attrice, Colette ha osservato se stessa di continuo, sia da sola sia attraverso un pubblico. Lo ha fatto per tutta la vita, assistendo, ora da regista ora da spettatrice, alle proprie metamorfosi. (Quando, a causa dei dolori, smise di uscire di casa, chi andava a farle visita la trovava sempre vestita con grande cura.) Del resto, La vagabonda, inizialmente concepito in forma epistolare, fu rielaborato come narrazione in prima persona, accompagnando così il passaggio da un discorso che si confessa a una scrittura che afferma un «io»; che, al tempo stesso, nel raccontare i propri pensieri, cerca di guardarsi dall’esterno, collocandosi dentro le immagini della vita: tra le relazioni, negli spazi della socialità, nei teatri, tra gli arredi, gli abiti, gli oggetti sparsi sulla scrivania: «tre minuscoli animali feticcio: un gatto di ametista, un elefante di calcedonio e un rospo di turchese…» (p. 83). Siamo in presenza di una donna e scrittrice geniale che ha inventato l’arte di dialogare con i trucchi e i riflessi di se stessa, fino a costruire un personale mito iconico, rifiutando di specchiarsi nelle immagini di lei inventate da occhi altrui, come invece era accaduto ai tempi del suo primo matrimonio. «Sei onesto, e pretendevi, in totale buona fede, di darmi la felicità, perché mi avevi vista povera e solitaria. Ma non 14 daniela brogi avevi fatto i conti con il mio orgoglio di pezzente: i più bei Paesi della terra, io rifiuto di contemplarli, minuscoli, nello specchio innamorato del tuo sguardo…» scriverà la vagabonda nella lettera d’addio a Max, nel finale del romanzo. Questo attaccamento intellettuale e al tempo stesso così carnale a un punto di vista proprio e indipendente appartiene a Renée come a Colette. Tuttavia, pur condividendo la stessa età e alcuni tratti biografici, la protagonista del romanzo e la sua creatrice non sono un’unica persona. Chi sovrapponesse i livelli si perderebbe tra malintesi e pregiudizi. Renée non è Colette nel 1910, e questo scambio tanto ironico quanto consapevole tra realtà e travestimento va osservato con cura, anche per ragioni documentarie, tenendo presente che quando scrive il romanzo l’autrice non è affatto una spiantata; nella vita reale, quelli sono gli anni dell’amore con «Missy», vale a dire la marchesa Mathilde de Morny, nota anche come «zio Max», come ricorda Marina Giaveri. Ma le asimmetrie vanno notate soprattutto per restituire a Colette l’immagine e il talento di una scrittrice vera, che non si limita a riversare su carta l’esperienza vissuta, ma reinventa, riguarda, ricompone verità e bugie, come fa sempre la grande letteratura; in questo modo, sperimenterà una lingua letteraria tanto raffinata quanto coraggiosamente aderente alla vita; scriverà libri che gli uomini non sapranno né vorranno mai scrivere (come dirà di lei Anna Banti); troverà parole per descrivere situazioni che altrimenti le ragazze non avrebbero mai letto, come ha raccontato Annie Ernaux, ricordando di quando la madre le impediva di leggere Colette – si riferiva in particolare a Chéri, ma il discorso potrebbe valere, forse anche di più, per molti passaggi della Vagabonda, ad esempio quando una collega del music-hall, elogiando le carezze di un nuovo amante, commenta: «Mia cara, neanche da sole si farebbe altrettanto bene» (p. 145).

L’apprendistato alla libertà, trasformato in forma romanzesca, fa della Vagabonda anche uno dei libri più belli dedicati a Parigi e al mondo della Belle Époque e dei caffè-concerto, assieme a certe novelle della raccolta Viticci (1908) e all’Envers du Music-Hall (1913), sempre di Colette. Ballerini russi, pic- cole cantanti, ammaestratori, pittori, fantasiste, saltimbanchi, Pierrot e Pierreuses, festaiole, impresari teatrali e prostitute compongono una galleria di immagini in movimento piene di colori, di trucchi, di travestitismo (come ha scritto anche Angelo Molica Franco), di contrasti, pure in senso linguistico, con atmosfere e situazioni che fanno ripensare, tra l’altro, pure a certi Arlecchini di Picasso o ai quadri di Suzanne Valadon. Senza risparmiare la solitudine, la malattia, la povertà (come la penuria di cambi di biancheria in tournée) e l’espediente di sopravvivere facendo la comparsa al «cine». L’umanità di cui fa parte e con cui sceglie di rimanere la vagabonda è costituita da outsider, da freak che, proprio in quanto corpi scenici, hanno scelto e accettato di non appartenersi, di for- mare delle famiglie “strane” di amanti e amici, di non abitare in spazi unici. Tutto questo, grazie all’opera di Colette, diventa una forma di vita – e di scrittura romanzesca – di cui può appropriarsi anche una donna; facendolo, per giunta, senza pathos ma semmai con umorismo, come quando dice: «Due abitudini mi hanno conferito il potere di trattenere le lacrime: quella di nascondere i pensieri e quella di scurire le ciglia con il mascara…». Anche in questa concezione moderna dell’artificio e del trucco femminile come sberleffo, come provocazione rivolta verso la platea, sta il fascino che il romanzo di Colette e le sue protagoniste esercitarono nel mondo del teatro e, for- se addirittura di più, in quello del cinema. Al 1910 risale il debutto sul palcoscenico della grandissima Musidora (1889- 1957), che probabilmente scelse di cominciare come artista di 16 daniela brogi music-hall proprio seguendo l’esempio del suo idolo Colette. Le due si incontrarono: nel 1918 Musidora riscrisse, diresse (con Eugenio Perego) e interpretò il primo film tratto dalla Vagabonda. Furono amiche per tutta la vita.

Rinata per rendere giustizia a tutte

La paura di invecchiare, di essere tradite, di soffrire. Accanto al sentimento continuo e spesso nervoso della propria solitudine, che è una delle condizioni nominate più di frequente nel romanzo (e che viene paragonato ora a un buon vino, ora a un tonico amaro, ora a un veleno), la testa inquieta della vagabonda subisce tutte le narrazioni svalutative usate contro le donne che lavorano e vogliono essere autonome. Anche in questo senso la scrittura di Colette non smette di parlarci e di piacerci. «Sono un mostro?» si chiede a un certo punto Rénee, in una camera del 1910 che, giusto cambiando la mobilia (ma non necessariamente le bellissime vestaglie di flanella rosa o i kimono di shantung azzurrino lavato venti volte), potrebbe contenere, più di un secolo dopo, le medesime domande, pronunciate stavolta da una donna nata agli inizi del 1990; «sono un mostro» si chiede Renée nel 1910, visto che ho passato trentatré anni senza mai considerare la possibilità di essere madre? Viene da domandarsi quanti altri romanzi europei scritti negli anni Dieci del Novecento sappiano dare voce e tenuta strutturale a dubbi di donna così laceranti. Rispetto a queste parole, al modo in cui trovano forma e consistenza in una scrittura letteraria, la famigerata dichiarazione di insofferenza che l’autrice avrebbe pronunciato in un’intervista del 1910 contro le femministe diventa davvero uno sbiadito aneddoto, che rischia di somigliare più a un pettegolezzo ingenuo che a un dato culturale significativo. D’altra parte, ciò può offrirci l’occasione per un chiarimento, una volta per tutte. Quando ci occupiamo di letteratura, sono le opere a parlarci, non le dichiarazioni di chi le ha scritte. Certamente la biografia e la scrittura dialogano e sono spesso in tensione, ma la sovrapposizione dei due livelli è priva di senso critico, perché la scrittura è il regno dell’opaco, non delle semplici trasparenze. Sidonie-Gabrielle Colette, nata nel 1873, non volle essere definita femminista, nel senso che questa paro- la poteva avere per lei nel 1910, e le date sono importanti. Quello che però interessa, a noi che leggiamo La vagabonda da un nuovo secolo, è che la sua opera faccia esistere modi di vita, di emancipazione e di espressione che agiscono, e non solo in senso letterario, anche come negazioni delle discriminazioni di genere; e in tal senso si incontrano nel modo più felice e congeniale con le conquiste dei femminismi, che non furono e non sono «ondate», ma forme durature di cultura e di liberazione di cui fa bene essere più consapevoli; perché – e possiamo assumerlo su di noi con il sorriso – siamo tutti figli e figlie di quelle ostinate voci di libertà; e perché il mito che più realizza questa promessa gioiosa di autonomia ce l’ha fornito proprio Colette con la sua Vagabonda, la coraggiosa narratrice di se stessa.

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