Mašen’ka o dell’istante
di Andrea Salvatore
È noto il fremente e divertito anatema con cui Nabokov ha inteso liquidare divinità e adepti della psicanalisi: “Se gli ingenui e il volgo continuano a credere che tutti i malanni mentali si possano guarire con un’applicazione quotidiana di vecchi miti greci alle parti intime, facciano pure. La cosa non mi tocca” (V. Nabokov, Intransigenze, Adelphi, Milano 1994, pp. 89-90). Ed è forse questa vellutata scomunica il miglior punto di accesso – “chiave” vorrebbe dire attirarsi, con gratuita e imperdonabile sufficienza, un interdetto postumo – al romanzo di esordio di Nabokov, Mašen’ka, scritto originariamente a Berlino a cavallo tra il 1925 e il 1926, riedito in inglese nel 1970, e ora presentato nella nuova traduzione di Franca Pece per i tipi di Adelphi. Nell’Introduzione alla riedizione del 1970, sbrigata con insofferente diligenza la fastidiosa questione del tasso di autobiografismo presente nel romanzo, Nabokov si congeda con una cursoria intimazione, là dove osserva che “benché qualunque asino potrebbe sostenere che orange (arancia) sia l’anagramma onirico di organe (organo), sconsiglierei i membri della delegazione viennese dal perdere tempo prezioso ad analizzare il sogno di Klara alla fine del quarto capitolo del libro” (V. Nabokov, Mašen’ka, Adelphi, Milano 2022, p. 14).
Sennonché Mašen’ka, forse più di ogni altra opera di Nabokov, è scandita, e anzi quasi metodicamente ritmata, da immagini, visioni, sogni, apparizioni, proiezioni, e ogni altro genere di materia sanguinolenta di cui il lupo freudiano non può non avvertire l’odore, foss’anche con rimossa ferinità. Basterà dire dell’impotente e allucinata confessione del protagonista, Ganin, esule russo in esilio a Berlino, quando, di fronte alle immagini non ben distinte di un film, si scopre a dover riconoscere con disarmata rassegnazione: “Noi non sappiamo ciò che facciamo” (p. 38). Ed è lo stesso protagonista a confondere – nel senso anzitutto di fondere insieme – vita e supposizioni di vita, a cominciare dalla sua fuga dalla Russia, “un sogno che somigliava a una baluginante foschia sul mare” (p. 133). Si potrebbe continuare a lungo (la scena iniziale del romanzo si svolge al buio di un ascensore, con due voci di sconosciuti che si scambiano mutue incomprensioni; la modesta pensione in cui è ambientata la vicenda è situata in prossimità di uno sferragliante scambio ferroviario, con treni che passano di continuo e sembrano attraversarla da parte a parte; albe e tramonti si rincorrono in un’alternanza che disorienta più di quanto ordini), se non fosse che è tutto il romanzo a comporre tessere di un mosaico onirico, dove ogni immagine risultante dall’assemblaggio è di incerta decifrazione, o piuttosto di volta in volta, nella sua incompiutezza, la verità di un tutto – quell’attimo, quella sensazione di un attimo – che subito dilegua.
Del resto Nabokov, pur smanacciando via con decisi movimenti ogni fumisteria in odore di teoresi, non ha mai fatto mistero del suo realismo debolissimo, rimarcando in più occasioni che “la realtà è una successione infinita di passi, di gradi di percezione, di doppi fondi, ed è dunque inestinguibile, irraggiungibile” (Intransigenze, p. 27), come anche che si dovrebbe tendere “sempre più a considerare l’esistenza oggettiva di tutti gli eventi una forma di immaginazione impura” (p. 192). Non già una realtà inesistente, ma una realtà fatta di gradi di conoscenza solo approssimabili, e del cui asintotico stato di avanzamento nessun individuo può avere mai rassicurante contezza. Quella ingaggiata da Nabokov contro ogni ricognizione psicanalitica è dunque una lotta per la conquista (o la liberazione) dell’immaginario, in senso realmente letterale: l’impostura – un termine che Nabokov ha inteso impiegare spesso al riguardo – non sta nel propalare una materia inesistente, bensì nel farne un supposto e supponente doppio fondo di realtà, là dove essa non è nient’altro che la realtà – o, per dire in modo meno ambiguo, la realtà altro non è che una serie di impressioni, di stati d’animo, di sensazioni che null’altro di non-detto hanno alle loro spalle, per il semplice fatto che non c’è nulla che dia cenni di vita al di là di esse. E non a caso si farebbe fatica a trovare romanzo o racconto di Nabokov che non abbia il suo fulcro, non solo narrativo, in un ultimo disperato inganno o in una malinconica agnizione del protagonista, che qualcosa là fuori tuttalpiù innesca ma certo non determina.
Non fa eccezione questa gemma impura di Mašen’ka, a differenza di altre mai rilavorata in seguito dal suo autore. Dei romanzi di esordio si è soliti misurare la distanza con quanto immediatamente segue, oltre che con le opere della maturità, più o meno piena. Qui, a contrita espiazione dei primi tre capoversi di questa nota, facciamo nostra l’unità di misura critica più cara a Nabokov: il romanzo è godibilissimo, e le eventuali acerbità di singoli punti e di più strutturali raccordi non privano chi legge del piacere adamantino del già presentissimo e riconoscibile stile dell’autore. Se è vero, infatti, che “la parte migliore della biografia di uno scrittore non è il catalogo delle sue avventure, ma la storia del suo stile” (p. 193), chi ama il Nabokov delle piccole cose riversate in grandiose trasduzioni di un’immagine non rimarrà deluso: la patina di morbida polvere, il ventaglio delle rotaie, la gomma dipinta delle labbra, le chiare strade d’aprile dove sobbalzavano e galleggiavano le cupole nere degli ombrelli, il vomere d’acciaio del rasoio, l’urlo selvaggio e inconsolabile della locomotiva, un cono obliquo di radioso pulviscolo, i cuscini malva delle scabiose, vermiciattoli gessosi di escrementi di uccello, cogitabondi pali telegrafici, il fulvo diluvio del tramonto, i cadaveri di vecchi giornali, il luccichio convenzionale del mare di notte – e si potrebbe elencare oltre.
Il pretesto della trama: Ganin è un giovane alloggiato in una pensione di emigrati russi a Berlino. Oltre all’anziana proprietaria, vedova di un uomo d’affari tedesco, la pensione ospita due ballerini classici, una giovane ragazza, un vecchio poeta russo e un signore di mezza età, forse un contabile, di nome Alferov, di cui significativamente non sappiamo pressoché nulla, se non che attende a giorni l’arrivo della moglie dalla Russia: è la Mašen’ka (Mariuccia) che dà il titolo al romanzo. L’intreccio – altro termine da prendere, qui, nel suo significato letterale – si esaurisce in un precipitato minimale: osservando una fotografia della moglie che Alferov mostra a Ganin, quest’ultimo vi riconosce (o quantomeno crede di riconoscervi) un vecchio amore, risalente ai suoi compianti anni russi. Di qui il breve ed essenziale sviluppo di una trama che eleva – o riduce – gli eventi al nabokovianamente usuale pretesto, e in parte riflesso, di una presa sul reale che fa di quest’ultimo l’immagine più eterea di una teoria di ombre in continuo divenire. Come del resto mera immagine riflessa è quella fotografia su cui si fonda la convinzione, nutrita da Ganin e surrettiziamente veicolata al lettore, che la ragazza conosciuta in gioventù dal protagonista sia la stessa donna ritratta nel dagherrotipo che Alferov, con malcelato compiacimento, mostra al suo giovane coinquilino.
Ma il punto, drammaturgicamente riarticolato, resta il medesimo: che la Mašen’ka conosciuta in Russia da Ganin sia la stessa Mašen’ka che sta per tornare inaspettatamente nella sua vita è del tutto irrilevante. E anzi, più esattamente, il giudizio ultimo e ultimativo su come stiano nella realtà le cose finisce per essere rimesso a quel giudice monocratico e immancabilmente fallibile che è il coacervo di sensazioni e convinzioni che attraversano ogni individuo messo a contatto con quanto pro tempore, per una sorta di condivisa impotenza priva di più affidabili e meno dolorose alternative, viene considerato il mondo reale – ed è altresì noto che Nabokov usava far precedere una gaglioffa risatina ai suoi sarcastici strali contro l’espressione “il momento della verità”. Ecco dunque che ogni realtà previa, soggiacente, rimossa, scotomizzata, svanisce di colpo, non già in virtù di una rimozione di secondo livello (che confermerebbe l’inaggirabilità della prima), quanto per opera di un incantamento narrativo che rende tutto quanto si assume come nascosto realtà presente, non obliabile, non derubricabile. Mašen’ka non è la Russia, non è il passato, non è un amore rimpianto: Mašen’ka è la sensazione – se si vuole, l’altro nome – dell’istante in cui Ganin crede di riconoscere qualcosa, senza che tuttavia questa proiezione renda Mašen’ka meno reale o la trasformi in altro rispetto alla donna di quella foto in quel momento.
Come è una sensazione a muovere protagonista e trama (il riconoscere in un’immagine presente più vivide immagini del passato), è una sensazione in senso contrario a interrompere il flusso dei ricordi e l’affastellarsi di gesti e improvvise decisioni: non già l’eventuale presa d’atto della non-identità delle due donne (come detto, non è mai il vero a muovere sulla scacchiera di Nabokov), ma il semplice e ultimativo fatto che la donna cui Ganin va infine incontro alla stazione non è, chiunque ella sia, in grado di far rivivere o eguagliare il ricordo dei suoi anni passati e del suo irrecuperabile e irriscattabile amore russo. Se prima di vedere la foto di Mašen’ka nella camera di Alferov il “vero io” di Ganin “era in Russia, rivivendo i ricordi come fossero realtà”, al punto che “non c’era discrepanza fra il corso della vita passata e quello della vita presente”, “una vita molto più reale, molto più intensa di quella vissuta dalla propria ombra berlinese” (Mašen’ka, pp. 77-78), è la luce scialba di un mattino – un istante, di nuovo, più anonimo che rivelatore – a orientare altrimenti cose ed esistenze, in un arroccamento tardivo della psiche: “Tutto appariva sghembo, più incorporeo, trasformato come in uno specchio. E appena il sole salì e le ombre si distribuirono ai loro posti abituali, ecco che, in quella luce morbida, il mondo dei ricordi nel quale Ganin aveva dimorato divenne ciò che era in realtà: il lontano passato. […] Guardando lo scheletro del tetto nel cielo etereo, Ganin capì con spietata chiarezza che la sua storia con Mašen’ka era finita per sempre. Non era durata più di quattro giorni… quattro giorni che forse erano stati i più belli della sua vita. […] Fuori di quell’immagine, non esisteva, né poteva esistere, alcuna Mašen’ka” (pp. 148-149).
Sarebbe piuttosto agevole quanto particolarmente inutile mappare prossimità e divergenze con i romanzi di Nabokov immediatamente successivi all’aurorale Mašen’ka, da Re, donna, fante (1928) a La difesa di Lužin (1930). Forse meno inessenziale è richiamare la specificità di un dramma da camera di pensione, in cui si inscena una progressiva ritrazione del mondo presuntivamente esterno – la guerra, appena richiamata, un paio di rivoluzioni sparse e lontanissime, le famiglie di provenienza, la stanca casualità di interazioni quotidiane e inessenziali, l’incorporea presenza di oggetti malcerti di sé – fino a una perfetta identificazione con le sensazioni che tale materia oscura e indeterminata suscita nella mente e nell’animo del protagonista, le quali sole danno senso e rilievo a tali entità. Un’illuminazione – il romanzo è pieno di immagini e descrizioni in cui la luce, di molto varie fonti, assume un ruolo centrale – che non ha nulla dell’agnizione rivelatrice e risolutiva (nella composta schiera che va da Sofocle a Sartre), ma che, per quanto può una fiaccola nervosamente agitata, richiama alla presenza, sottraendoli alle tenebre, volti, cose, ombre: a corto raggio, per poco tempo e con riverberi appena sufficienti a distinguere i contorni. Se dunque romanzo dell’esilio, tra gli altri, lo si vuole etichettare, Mašen’ka parla anzitutto di un esilio dal mondo, dell’impossibilità di sentirsi a casa in un altrove diverso dal passato. Mašen’ka è l’attimo esatto, malinconicamente inebriante, in cui tutto, sfaldandosi, si compie.