“O si andava o si moriva”: su “Cuore in esploso” di Riccardo Romagnoli
di Giuseppe Munforte
Coraggio e necessità della scrittura. Questo ho pensato dopo aver chiuso l’ultimo romanzo di Riccardo Romagnoli, Cuore in esploso (Polidoro editore). La narrazione ripercorre la vita di Enrico Fra, nato contadino in Piemonte e morto artista a Firenze. Questa la vicenda centrale, alla quale se ne intrecciano molte altre, tracciate con tanta forza da diventare altrettanto memorabili – su tutte, quella di Miranda, che di Enrico diventerà moglie.
Nella vita di tutti gli artisti c’è un momento originario in cui i sogni vaghi, il fermento indistinto che diventerà impulso creativo si concretizza nel mondo in qualcosa che indica un destino. Per Enrico Fra sono i dipinti di Gaudenzio Ferrari nella chiesa di San Cristoforo a Vercelli, di fronte ai quali, ancora ragazzo, vive un momento di folgorazione. “Arte e musica, carne e erotismo, si fusero. Un giorno Enrico mi disse: Forse i santi che entrano in estasi provano qualcosa del genere”. “Era un povero contadino ignorante”; in quella chiesa, quel giorno, “cambiò, o meglio, diventò ciò che era”. Da quel giorno inizia a disegnare.
Subito dopo a Firenze, dove si reca per il servizio militare, altre illuminazioni. Agli Uffizi, in particolare, in un quadro di Andrea del Sarto, la Dama col petrarchino, vede l’immagine della madre morta quando era ancora alle elementari. Il quadro gliela restituisce come la vita non ha potuto, tanto era piccolo quando lei se n’è andata.
A Firenze Enrico incontra l’arte, gira di notte per ammirare le sculture. Osserva i bronzi, diventerà un bravo fonditore. Diserta, viene accolto in una villa abitata e frequentata da intellettuali e artisti, personaggi bizzarri. È un periodo di iniziazione intellettuale. Musica, filosofia, letteratura. “Il fervore culturale si abbinava a esplorazioni erotiche e affettive”. Si apre intellettualmente, legge i classici, se li fa spiegare quando sono troppo complessi, chiede volumi d’arte, “si perdeva assorto” di fronte a un quadro di Bosch, che diventa uno dei suoi artisti di riferimento e gli “insegna a scomporre la realtà e a ricombinarla in agglomerati distopici”. Disegna, riproduce quello che osserva, poi distrugge il disegno.
Alla villa incontra un docente dell’Istituto d’arte che intuisce il suo talento e lo invita nel suo atelier, dove Enrico disegna e impara a modellare la creta, prende coscienza di sé nella meraviglia prodotta dalle sue sculture e dai suoi schizzi. “Le anatomie erano perfette”. Grazie al docente viene assunto da un fonditore, “il lavoro gli dava un rapporto quasi di simbiosi con le opere”. Diventa poi fonditore in proprio. Inizia a produrre sculture sue.
La personalità di Enrico è caratterizzata da una fisicità anche brutale, selvaggia, sfrenata, espressa da subito nel corso di un’infanzia in povertà, all’interno di una famiglia contadina senza terra propria, e poi in un’adolescenza ricca di avventure con le mondine, accolto unico maschio nel fienile dove dormono.
Esperienze sempre al limite così come sarà nella sua arte: sfidare il limite per farlo entrare nell’opera, e subito rilanciarlo. Coltiva una vocazione sotterranea, indifferente al giudizio esterno e mossa dalla sola insoddisfazione per l’opera realizzata che spesso viene distrutta. Una vocazione gioiosa e allo stesso tempo attraversata da furia e dolore, ingordigia e bisogno di una vicinanza che presto viene tradita e subito di nuovo cercata. “Sapeva essere di una violenza spaventosa. Le sue collere avevano una furia nevrotica. Minacciò, gridò, distrusse cose. Non sfiorò mai nessuno con un dito”.
Non è uno di quegli artisti che si esauriscono nella loro opera. La sua vita è fatta di eccessi. L’in esploso del titolo rimanda all’azione del narratore (che ha conosciuto Enrico quand’era bambino e ne ha seguito la vita, con lo sguardo di una personalità per certi versi agli antipodi, riflessiva, malinconica), che sviscera il percorso umano e artistico del pittore; ma rimanda anche alla vita del pittore, una esteriorizzazione che non è mai atto concluso ma processo inesauribile.
La sua esistenza è attraversata dalla fascinazione per la bellezza, per le opere di pittori e scultori che hanno fatto la storia dell’arte, e che sono fonte continua di ispirazione delle tecniche; ma è un’esistenza fatta anche di abiezione e violenza. Esplora ogni possibile esperienza, anche nel segno del male e della prevaricazione, dello squallore. Vita e arte collidono anche in questa dimensione, sovrastando limiti e vincendo pudori non solo nella rappresentazione ma anche nella materialità dell’opera. Perfino le deiezioni diventano sostrato per la pittura, si riscattano nell’opera e preservano da ogni possibile vezzo ornamentale o consolatorio.
L’esperienza artistica quando non sia passatempo rappresenta uno scarto decisivo della condizione umana. È urgenza e provocazione; a suo modo ottusità, testardaggine, coraggio e pavidità. Nel lavoro di Enrico Fra non c’è niente di lezioso, come accade quando l’arte, ogni forma d’arte, guarda anzitutto a se stessa. Nella vita come nella pittura Enrico non si ritrae da grottesco e oscenità. La sua personalità esprime patologia; le sue opere, al pari di quelle di Van Gogh, di Holderlin, di Strindberg, sono perle nate da una conchiglia malata, come scriveva Jaspers. E il narratore racconta guardando ora la perla, ora la conchiglia.
“Faceva da solo pigmenti, cornici, supporti. I colori li otteneva da insolite materie prime”. Anche sangue, sperma, urina dei compagni in carcere, dove finisce a molti anni dalla diserzione, nel 1974, per aver chiesto la carta d’identità, dopo aver vissuto senza documenti per venticinque anni. Su una base fatta di secrezioni e escrementi, nel carcere militare dipinge e incide e crea i suoi quadri più riusciti. Una serie di dipinti in cui si saldano materia immonda e bellezza, come un sigillo dell’esistenza stessa di Fra. Dolore e piacere scaturiscono nello stesso istante, come in un citato esperimento sui ratti, con lo stesso effetto che produce nel narratore il ricordo del pittore, ricordo che avvicina e allontana contemporaneamente.
Romagnoli delinea una figura rovente che non può contare su una posterità, con una scrittura precisa, ricca, che si accende con improvvise gemmazioni. Una scrittura luminosamente inattuale, per il suo essere a tratti debordante e sempre tesa, volta a diventare arte nel mentre narra di arte. Una sovrapposizione con il suo oggetto. Romagnoli replica nella scrittura l’opera del suo protagonista. L’artista si manifesta non solo nell’opera ma soprattutto nella materia che ha scelto, o da cui è stato scelto, per la sua opera. La materia si impone e l’arte consiste nella sua rappresentazione trasfigurata. Qual è davvero la materia dell’autore di questo libro? ci si potrebbe chiedere, spostando su un altro livello la domanda. Di cosa si nutre questo romanzo?
Cuore in esploso non vuole essere una celebrazione, lo si capisce bene quando si apre la parte finale, forse la più riuscita e sorprendente, quella in cui si narra il declino del pittore. “In nove anni di vita, dal 1984 al 1993, Enrico perse tutto: amici, moglie, amanti, arte, musica, se stesso”.
“La parte in ombra prese il sopravvento e lo distrusse. C’erano stati sintomi, anticipazioni e avvertimenti e, per ognuno di essi, c’erano state nevrosi, narrazioni, minacce”. Il narratore, che ha cambiato città e ora vive a Milano, prende distanza: “Veneravo le sue opere, non l’uomo che era e che divenne”.
Cosa resta di una vita vissuta furiosamente e furiosamente rivolta all’arte? Il che equivale a chiedersi: cosa resta del desiderio? Quando il desiderio si corrompe, anche l’arte del protagonista si estingue. Cosa resta di quella vita quando lo scarto che ha prodotto, il vuoto che ha reso possibile l’opera, non si trasfigura in un destino esemplare ma cade nell’oblio? Dei Van Gogh, dei Ligabue, dei Bacon, e via via di tutti gli artisti che hanno lasciato un segno si celebra anche l’umano nella sua dimensione miserabile, e l’uomo comune non si stanca di partecipare a un nuovo evento su di loro come accostandosi a una verità che in qualche modo circola anche nella sua anima, ma che subito dimentica una volta conclusa la celebrazione, al termine di una mostra.
Il narratore del romanzo di Romagnoli incarna questa impossibilità, con il di più della pietas di chi ha davvero conosciuto un uomo che ha vissuto bruciando in quel destino e la cui opera si è persa, rimarcando nell’impossibilità del riscatto la vanità dell’esistenza e dei suoi sogni.
Alla fine Enrico mostra al narratore la stanza segreta con i disegni fatti in carcere, i più belli. Non li aveva mai fatti vedere a nessuno. Su una base fatta da sostanze organiche, colori, polveri di marmo e sabbia, piume di uccelli, il disegno di anatomie bellissime, quadri che della stanza fanno una Cappella Sistina, o le grotte paleolitiche di Altamira o Lescaux.
Il narratore chiede che vengano fatti conoscere. “No, disse. Li avrò visti io e li avrai visti tu. Non è sufficiente? Dovrei inchinarmi davanti a qualche critico e implorare il suo giudizio?”
Sono gli ultimi momenti della vita di Enrico Fra. L’amico lo troverà morto, nella sua casa diventata un letamaio. I parenti si appropriano dei beni, non capiscono i disegni della stanza segreta. Sgomberano la casa e tutto si perde.
Enrico Fra “era morto e nessuno sapeva chi fosse e quali erano le sue opere. Tanti geni, nella storia, erano scomparsi e di essi non si è mai avuta notizia”. Non è vero che il vero genio emerge sempre, è solo un’illusione consolatoria. “Truppe sterminate di individui, artisti, musicisti, scrittori, danzatori avevano le carte in regola per essere dei grandi e se ne sono andati, nel buio e nel silenzio, nella morte e nell’oblio”. Anche il ricordo si perde, niente compensa con una lode le fatiche e i dolori della creazione, il cui destino è di essere come se non fosse stata.
Fra è stato un uomo geniale per un verso, cattivo per un altro. In tutto il romanzo si avverte la pietas del narratore per le donne che compaiono nella vicenda e che hanno subito il carattere del pittore, in particolare per Miranda, amica di famiglia e poi moglie di Enrico, alla cui morte sono dedicate pagine di grande intensità. Dalle ceneri di quella che fu furia di vita e di arte, rimangono le immagini di chi da tale furia è stato travolto, alla fine anche dell’artista stesso, che sconta nell’incapacità di restituire l’amore che ha ricevuto e nella solitudine della morte, il contrappasso di quella che è stata la cecità della sua energia vitale.
Dopo trent’anni dalla sua morte, il narratore va a Trino, quasi niente è rimasto delle opere di Enrico. È un viaggio dalla motivazione oscura, fuori tempo, fatto perché ormai anche lui è vecchio. “Il passato accampava i suoi diritti su di me, molto più di quanto non facesse il futuro”. Non trova nulla, non la tomba di Enrico, non qualcuno che conosca i Fra. Tutto sfuma nell’indistinto e chissà. La vecchiaia fa dimenticare, nasce impellente la necessità di ricordare. Il narratore applica alle dimenticanze i dubbi filosofici appresi al liceo. Non ingannano forse i sensi, la ragione? Quanta vita è forse sepolta nel nostro passato senza che se ne abbia coscienza.
Nelle ultime pagine, tra le più belle del romanzo, l’amara riflessione del narratore sull’oblio di Enrico si aprono a una considerazione più vasta sul senso dell’esistenza, scandite con la lapidarietà del niente nessuno in nessun luogo mai di Sereni.
Eppure si è qui, si è vivi. Occorre uscire dalle malie del passato e forse anche dalle illusioni che l’arte e il richiamo della creatività producono. Sembra che Romagnoli alluda a questo, con il “o si andava o si moriva” con cui si chiude il romanzo: a un presente in cui la posterità è pressoché preclusa – e anche a chi potrebbe amorevolmente farsene carico, quel fardello suona come un morire.