Piccolo lamento letterario per Richard Brautigan
Tempo fa ho letto un approfondimento su Richard Gary Brautigan da Tacoma, Washington, autore da me molto amato che in Italia ha conosciuto alterne fortune. Quello che ho letto era un articolo appassionato e puntuale: dentro ci ho trovato anche delle cose che non sapevo su Brautigan. Peccato però che partisse dal solito presupposto: presentare Richard Brautigan come autore naïf, ingenuo, sostanzialmente sfigato. Quasi da commiserare.
Ha scritto di peggio, in questo senso, un altro autore americano che pure ho molto amato (su un piano completamente diverso da Brautigan), cioè Charles D’Ambrosio. Nel suo peraltro bellissimo Perdersi, D’Ambrosio dedica a RB un saggio dal titolo piuttosto eloquente: “Col passar del tempo, un motivetto innocuo: Richard Brautigan”.
Qui D’Ambrosio arriva a definire Brautigan una sorta di anomalia depressiva nel panorama letterario statunitense, uno scrittore praticamente analfabeta che non aveva idea di come si scrive una metafora. Anche D’Ambrosio, evidentemente scottato dall’amore adolescenziale per Brautigan, attinge alla sua biografia per restituire l’immagine di uno scrittore minore, che se non si fosse autosabotato sarebbe potuto arrivare chissà dove (e infatti siamo ancora qui a parlarne).
Trovo che questo modo di raccontare Brautigan sia ingiusto e soprattutto fuori fuoco. Brautigan aveva un umorismo molto raffinato e una rara capacità di mettere la poesia in prosa, oltre a un’immaginazione visiva straordinaria. Ha scritto almeno due memoir maturi e toccanti e un mucchio di romanzi e racconti che hanno avuto una grande influenza sulla cultura americana, in particolare quella cinematografica (chiedere ai fratelli Coen). Almeno un suo libro – Pesca alla trota in America – ha venduto milioni – milioni, non migliaia – di copie. Se vale qualcosa, infine, Richard Brautigan è il primo poeta citato da Roberto Bolaño nel suo 2666.
Una cosa che in generale trovo scorretta è parlare in termini malinconici di uno scrittore che si reputa minore. Da un lato si dà l’impressione di volerlo salvare dal dimenticatoio, da un altro gli si spinge la testa ancora più giù, sott’acqua. È una finta deferenza che ingenuamente – questo sì, è ingenuo – suppone che ci siano scrittori in grado di mantenere una propria integrità solo nella sconfitta esistenziale e professionale. Si lascia così intendere che ci siano altri autori ben più pragmatici e cinici, di conseguenza vagamente più talentuosi, i quali, a costo di corruzione, perdita dell’innocenza e blablabla, riescono ad affermarsi presso il grande pubblico.
La verità, io credo, è che dare dell’ingenuo a Brautigan serva a emanciparsi da quella parte di sé che teme di non riuscire a fare della propria scrittura un lavoro vero e proprio, con tutto il presunto prestigio sociale che ne deriva. Si appioppa quindi a Brautigan la propria ingenuità, si evocano i compromessi cui ipotizziamo lui non sia mai sceso e che invece noi, smaliziati, abbiamo saputo accettare per arrivare a pubblicare un libro con l’editore tal dei tali o pubblicare su questa o quella rivista – perché noi siamo diventati adulti, mentre Brautigan no.
Scrivere male di Brautigan fingendo di dirne bene (o scriverne bene senza tuttavia prenderlo sul serio) è un rito apotropaico. Inoltre, affermare che Brautigan non sappia scrivere o non abbia saputo gestire la sua scrittura o la sua carriera è utile a evocare e ad allontanare lo spauracchio della scrittura pura (da cui qualsiasi scrittore più o meno affermato è spaventato a morte), cioè quella scrittura che non si cura troppo delle mode, dei “temi” o del “bello scrivere” imposti tanto dal mercato quanto da certi gusti culturali e intellettuali.
Il sottotesto è: per fortuna ho imparato a scrivere, per fortuna ho imparato a vivere; così posso pagare il mutuo. Mentre Brautigan era semplicemente uno che aveva scelto di campare di scrittura, al di là di quello che ne pensavano gli altri, al di là delle attese disattese sul Grande Romanzo Americano (e che noia: l’aveva pure scritto proprio con Pesca alla trota in America!).
È rassicurante seppellire Brautigan sotto quintali di malinconia e finta deferenza, perché significa che quella sua scrittura apparentemente stralunata non ci appartiene, che non corriamo il rischio di fare la sua stessa fine. Ma quale fine, poi? Anche rileggere l’intera carriera di Brautigan esclusivamente alla luce della sua complessa biografia è un torto bello e buono – probabilmente lo è sempre, nei confronti di qualsiasi autore o autrice.
Piuttosto io direi che sarebbe il caso di tradurre e ritradurre ciò che di Brautigan ancora non è stato tradotto in italiano oppure è andato perduto. Esaltare un artista “fuori dai canoni”, ammesso che RB lo fosse davvero, senza interrogarsi su quali siano i canoni e soprattutto senza metterli in discussione è, questo sì, sintomo di analfabetismo. Esistenziale, però (con tutta la stima e l’affetto, che restano immutati, per Charles D’Ambrosio).
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Al momento, i libri di Richard Brautigan editi in Italia sono American Dust (tradotto da Luca Briasco), Sognando Babilonia (tradotto da Pietro Grossi) e Willard e i suoi trofei di bowling (Pietro Grossi), tutti pubblicati da minimum fax (che, per inciso, pubblica anche il bellissimo – ripeto: bellissimo – Perdersi di Charles D’Ambrosio, con la traduzione di Martina Testa). Per Einaudi è disponibile Pesca alla trota in America (tradotto da Riccardo Duranti). Ne mancano molti all’appello, persino quelli già pubblicati in passato da marcos y marcos e ISBN Edizioni: L’aborto/La casa dei libri, Una donna senza fortuna, Il generale immaginario e Il mostro degli Hawkline. Poi ci sarebbero anche i Centodue racconti zen pubblicati un tempo da Einaudi… Insomma: chi può, faccia qualcosa.
Marco Montanaro (1982) vive in Puglia, dove si occupa di scritture e comunicazione. La sua newsletter si chiama Sobrietà.