«Scrivo solo frammenti»: su “Autoritratto” di Édouard Levé
«Il tuo suicidio rende più intensa la vita delle persone che ti sono sopravvissute» ha scritto Édouard Levé in Suicidio, un testo in cui l’autore si rivolge con il “tu” a un amico che vent’anni prima e in maniera improvvisa – stava uscendo con la moglie per andare a giocare a tennis, le disse che aveva dimenticato la racchetta e rientrò in casa dove scese in taverna per compiere il gesto estremo – si suicidò. Tre giorni dopo aver consegnato il manoscritto di Suicidio al suo editore, il 15 ottobre 2007 a quarantadue anni, Édouard Levé si suicidò sovrapponendo in maniera tragica l’opera alla vita, dando l’idea, per quanto sia lecito farsi l’idea di un uomo che sceglie di porre fine alla propria vita solo leggendo un suo testo (ma è, anche questa, la letteratura), che il libro possa essere un segno, un sintomo del gesto definitivo.
Suicidio però non può essere semplicemente letto come il preannuncio di ciò che succederà, perché in realtà squaderna una serie di interrogativi che ruotano attorno alle forme più complesse del racconto autobiografico (il “tu” con cui si rivolge all’amico non è forse uno sdoppiamento della propria identità? Si può scrivere, ancora in vita, una storia che paradossalmente si situa dopo la morte?) e, in definitiva, costeggia ciò su cui i più grandi scrittori hanno riflettuto, cosa rimane di un’opera dopo la morte del suo autore. La frase citata all’inizio offre già una connessione tra vita e morte e in alcuni frangenti Levé è ancora più esplicito («Morto, mi rendi più vivo»), ma al di là di interpretazioni più o meno articolate, le opere di Édouard Levé, che oltre che scrittore è stato anche un importante artista visivo, pittore e fotografo, si situano proprio al crocevia tra vita e morte, tra letteratura, intesa come sigillo dell’esistenza, e possibilità di raccontarsi.
Questo fa Autoritratto (pubblicato adesso da Quodlibet con la traduzione di Martina Cardelli, autrice anche di preziose note al testo), un libro che a partire dal titolo si ricollega all’antica arte di raccontare sé stessi, ma lo fa in maniera eccentrica e sperimentale attraverso un materiale centrifugo che offre al lettore molteplici piani di lettura. Il racconto di Levé non procede in maniera lineare, non segue un percorso cronologico e infatti inanella centinaia di brevi frasi non connesse tra loro a livello semantico o narrativo ma che, nel loro insieme, offrono la possibilità di un ritratto dello scrittore attraverso l’affiorare di ricordi, predilezioni, paure, amori e quant’altro. Levé sembrerebbe far sua l’oggettività glaciale di un narratore ottocentesco in una gabbia letteraria che nella sua obiettività assoluta rivela al lettore gli elementi che possono donare l’idea tridimensionale dell’uomo, di ciò che ne costituisce lo spirito e lo sguardo: «Forse, senza saperlo, ho parlato con qualcuno che ha ucciso qualcuno. Guardo sempre nei vicoli ciechi. Quel che c’è alla fine della vita non mi spaventa. Non ascolto mai davvero ciò che gli altri dicono. Mi stupisco quando qualcuno che non mi conosce bene mi chiama con un diminutivo. Ci metto molto tempo a capire ehe qualcuno si sta comportando male con me: trovo strano che possa accadermi, il male è in qualche modo irreale».
Autoritratto, in maniera ancor più decisa rispetto a quanto fa Suicidio, è quindi un libro che rimette in discussione il genere autobiografico perché con la sua struttura originale prova a decostruire l’idea stessa di racconto di sé: il susseguirsi quasi nevrotico di questi coriandoli autobiografici e l’accumulo inesorabile di dati ed esperienze rimanda alla mente l’esperimento di Mi ricordo di Georges Perec, ma l’impressione è che più che a quel testo Levé si avvicini ai Tentativi di esaurimento di un luogo parigino mettendo però, al centro della sua indagine, sé stesso. Come si può infatti raccontare una vita? Quale forma di racconto può avere ancora senso in un orizzonte contemporaneo dove la parcellizzazione di ogni esperienza detta l’andamento stesso della vita? Non è un caso che uno degli ambasciatori dell’opera di Levé sia Emmanuel Carrère perché entrambi sono abitati dal fantasma del proprio io, dal desiderio di comprendere come, attraverso la letteratura, questo io possa trovare una propria forma: se però Carrère in maniera talvolta narcisistica mette in gioco sé stesso attraverso un gioco autobiografico che mostra limpidamente la sua appartenenza alle narrazioni moderne, Levé, come nota lo stesso Carrère, ha scritto «uno dei testi autobiografici più originali e affascinanti che io conosca», un libro che «ne sono assolutamente certo, come si dice, “resterà”», forse proprio perché nella vita nuda che emerge da queste pagine si compie un evento paradossale: ogni lettore, pian piano, vedrà infatti apparire il fantasma di sé stesso, riconoscendo in alcune riflessioni il suo pensiero o nelle parole di Levé il modo migliore per dire ciò che non pensava di sapere.
Ma forse, ciò che più di ogni altra cosa emerge da questa sorta di racconto micro-storico e che idealmente collega Autoritratto a Suicidio, è una riflessione sul rapporto tra la vita, e il suo opposto, la morte, e la letteratura («Potrò dire una sola volta nella mia vita, senza mentire: sto morendo»). Non a caso il libro comincia subito tirando in ballo la questione attraverso la mediazione della letteratura: «Da adolescente pensavo che La vita, istruzioni per l’uso mi avrebbe aiutato a vivere e Suicidio, istruzioni per l’uso a morire». In maniera più o meno inconscia, Autoritratto è infatti uscito in Francia nel 2005, due anni prima del suicidio dell’autore, non solo Levé sembra scendere a un livello così profondo di indagine autobiografica da prefigurare addirittura il suo futuro, ma sembra anche offrire all’altare della letteratura la vita nella sua interezza. Il nome di Perec, uno dei maggiori innovatori del racconto autobiografico, affiora spesso tra queste pagine che in certi casi richiamano direttamente il suo lavoro (come accade per La vita, istruzioni per l’uso) e in altri invece lo fanno attraverso la forma letteraria (con i suoi «mi ricordo»), ma il libro di Perec che più di ogni altro viene in mente leggendo Autoritratto è W o il ricordo d’infanzia: se in Perec la ricerca della propria identità si appoggia a un narrazione bifronte che alterna autobiografia e racconto d’invenzione nel tentativo di riempire il «bianco» dell’esistenza, in Levé un simile tentativo autobiografico parte da una condizione opposta, da un pieno, da un uomo formato e completo che cerca però, attraverso una scrittura che nega le sue forme canoniche, la verità.
Siamo davvero dentro un Tempo ritrovato, nella consapevolezza di un inesorabile futuro affrontato con straordinario coraggio. «Non scrivo romanzi. Non scrivo racconti. Non scrivo opere teatrali. Non scrivo poesie. Non scrivo gialli. Non scrivo fantascienza. Scrivo solo frammenti» annota Levé in questo libro in cui la pagina piena suggerisce la scomparsa, il pieno il vuoto, il nero delle parole il bianco del nulla eterno: «I veri paradisi sono i paradisi che abbiamo perduto».
Matteo Moca è dottore di ricerca in italianistica e insegnante. Scrive, tra gli altri, per Il Tascabile, Il Foglio, Domani, L’indice dei libri del mese, Blow Up e il blog di Kobo. Ha pubblicato le monografie “Tra parola e silenzio. Landolfi, Perec, Beckett”, “Figure del surrealismo italiano. Savinio, Delfini, Landolfi” e “Un’esigenza di realtà. Anna Maria Ortese e la dipendenza dal fantastico”
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