Julio Cortázar nasceva il il 26 agosto 1914: per l’occasione riproponiamo due articoli dal nostro archivio, oltre a una lettera dello scrittore argentino datata 25 luglio 1962, tratta dagli epistolari pubblicati in Italia da Sur.
Sulle tracce di Charlie Parker
di Liborio Conca
«Ora so che non è così, che Johnny insegue invece di essere inseguito, che tutte le cose che gli stanno capitando nella vita sono gli imprevisti del cacciatore e non dell’animale braccato. Nessuno può sapere cos’è che insegue Johnny, ma è così, è là, in “Amorous”, nella marijuana, nei suoi discorsi assurdi su tante cose, nelle ricadute, nel libro di Dylan Thomas, in tutto quel povero diavolo che è Johnny e che lo rende grande e lo trasforma in un assurdo vivente, in un cacciatore senza braccia e senza gambe, in una lepre che corre dietro a una tigre che dorme».
Johnny, dunque, insegue. E se nessuno sa a cosa dà concretamente la caccia, perlomeno noi sappiamo chi è Johnny Carter, l’inafferrabile protagonista del racconto di Julio Cortázar L’inseguitore: Charlie “Bird” Parker, il genio più puro del jazz americano, tra gli inventori del bebop, inquieto poeta del sax. El perseguidor, il titolo originale del racconto, comparve per la prima volta nella raccolta di storie Le armi segrete, uscita nel 1959 – quattro anni dopo la morte di Parker. Sur lo ripubblica ora in Italia con una nuova traduzione di Ilide Carmignani, aggiornando il titolo – da Il persecutore a L’inseguitore – e accompagnandolo con le illustrazioni del disegnatore José Muñoz, argentino come Cortázar.
Quello che interessa a Cortázar mentre scrive L’inseguitore è provare a penetrare, o se non altro a sfiorare (a sfiorare, perché capire è veramente impossibile: questa è una delle chiavi del racconto) il mistero di un artista che usa il suo strumento per inventare bellezza a volte persino inconsapevolmente. Per farlo, mette accanto a Carter/Parker un doppio fantasmatico e razionale, il giornalista e critico musicale Bruno, l’autore di una biografia su Carter di discreto successo. Bruno accudisce Johnny, gli fa da balia, lo accompagna nelle sue scorribande notturne nei bar parigini, tendenzialmente cerca di tenerlo lontano dai guai – nel caso specifico dalle droghe o da amori pericolosi.
Il racconto si svolge a Parigi e inizia con Bruno in visita a casa di Johnny, una camera d’albergo senza luce e piuttosto fatiscente dove il musicista vive con la compagna Dédée. Carter ha smarrito il sax, ha in programma alcune date ed è psicologicamente devastato, dipendente dalle droghe. Cortázar lo ritrae come un essere primordiale o extra-umano, rannicchiato nudo sotto una coperta, concentrato sul bisogno di alcol e su complessi (e confusi) ragionamenti di natura esistenzialista.
Il tempo, lo scorrere irregolare del tempo, la percezione concreta della dimensione temporale, la sospensione o l’inversione del flusso temporale che la musica può offrire, la possibilità di dilatare in pochi minuti un tempo molto più lungo, forse addirittura infinito: Johnny ragiona su tutto questo, e Bruno lo ascolta, senza riuscire a capire. Quando gli sembra d’intuire qualcosa, rifugge presto nella sua rigidità schematica, nel bisogno – comune del resto a noi tutti comuni mortali – d’incasellare.
Per esempio questo ragionamento di Bruno: «Alla realtà: appena lo scrivo mi fa schifo. Johnny ha ragione, la realtà non può essere questa, non è possibile che essere un critico jazz sia la realtà, perché allora c’è qualcuno che ci sta prendendo in giro. Ma allo stesso tempo non si può dare troppa corda a Johnny, perché altrimenti diventiamo tutti matti». Come direbbe Cortázar, Johnny è un cronopio e Bruno e un fama.
Ora, chi ha letto Cortázar saprà che questi concetti ricorrono (s’inseguono) nelle sue storie, dagli appena evocati Cronopios e Famas fino a Rayuela, il romanzo-gioco-del-mondo che comparirà pochi anni dopo L’inseguitore, nel 1963; Cortázar stesso dirà che in qualche modo le due opere sono intimamente legate, che L’inseguitore precede seppure in una forma diversa l’indagine romanzesca e filosofica che anima Rayuela. Qui c’è già una certa Parigi misteriosa e diciamo la verità terribilmente affascinante, ci sono i bar dove incontri musicisti e intellettuali del tempo – in una tavola, Muñoz si diverte a inserire sullo sfondo di Carter piangente (ha appena saputo della morte di sua figlia, la piccola Bee) un uomo occhialuto e di nerovestito, con un’inconfondibile sbuffante pipa, è decisamente Jean-Paul Sartre.
Cortázar dispiega nel racconto tenerezza (attraverso Johnny), a volte distilla piccole dosi di cinismo (attraverso Bruno), riafferma amore per la vita, cattura la sofferenza degli incompresi. Atmosfera e altissima qualità di scrittura, L’inseguitore resta però specialmente l’indagine di un grande artista su un altro grande artista; un racconto da mettere accanto ai Sotterranei di Jack Kerouac, libro uscito proprio in quei mesi, sul finire degli anni Cinquanta. Ancora Bruno che tenta di catturare l’essenza di Carter: «Ma in cambio a Johnny deve essere sfuggito quello che per noi è terribilmente bello, l’ansia che cerca una via d’uscita in quella improvvisazione piena di fughe in tutte le direzioni, di interrogativi, di gesti disperati. Johnny non può capire (perché quello che per lui è il fallimento a noi sembra una via, o almeno l’indicazione di una via) che “Amorous” resterà come uno dei momenti più alti del jazz».
Naturalmente qualcuno potrà legittimamente pensare che questa scrittura e questa storia siano distanti da noi come lo sono i tempi di Charlie Parker e del jazz e del beat, e noi glielo lasceremo pensare, sereni di essere dalla parte sbagliata, pronti a spremere il tubetto del dentifricio ancora una volta dal centro anziché dalla base.
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Julio Cortázar si diverte
di Silvia Pelizzari
Ci sono autori che si divertono e ci sono autori che soffrono, nella scrittura. A ogni età e livello, che si tratti di esordienti, scrittori amatoriali o premi Nobel.
È una cosa che si nota, ma bisogna farci caso, prestarci attenzione, e una volta che inizi a farci caso non riuscirai a fare a meno di applicare quel metro di misura a ogni cosa che leggerai da quel momento in avanti; non ci sarà romanzo, pagina, che potrà sfuggire a questo nuovo modo di guardare una storia. Non è un giudizio di valore, bensì una nota che aggiunge un tassello, un dettaglio in un quadro più grande.
Sulle autrici e sugli autori che amo di più la mia opinione è abbastanza definita, sebbene possa non essere condivisa.
Jorge Luis Borges si diverte, Joan Didion soffre, Silvina Ocampo si diverte, Ernesto Sabato soffre, Juan Rulfo si diverte, Marilynne Robinson soffre.
Mi ero ripromessa che non avrei mai scritto una riga su Julio Cortázar in vita mia perché di Dio non si scrive. Poi ho letto per la prima volta Il viaggio premio, tornato in libreria da poco per Sur (traduzione Flaviarosa Nicoletti Rossini, revisione di Chiara Gualandrini) e mi sono bastate venti pagine per pensare ad alta voce: guarda come si diverte.
L’elemento ludico nei libri di Julio Cortázar è molto presente. Ha dedicato un’intera lezione agli studenti di Berkeley, nel 1980, su questo tema. È la sesta lezione e si intitola “Il gioco in letteratura e nella scrittura di Rayuela” (Lezioni di letteratura, Einaudi, 2014). In realtà in quella lezione Cortázar afferma che il divertimento nei suoi libri è diventato più esplicito dalla pubblicazione di Storie di cronopios e di famas (Einaudi 2014), che prima la sua era considerata “letteratura seria” ma che a lui non era mai sembrato così, che semplicemente la ludicità era in uno strato meno visibile della sua narrazione, coperta da elementi più drammatici.
Il viaggio premio è il suo primo romanzo (o meglio il suo primo romanzo pubblicato. Ne aveva già scritti due, rifiutati e pubblicati postumi ma scritti tra la fine degli anni ’40 e i primi anni ’50) ed è a mio avviso un crocevia nella sua produzione letteraria. È stato pubblicato nel 1960 ma è stato scritto negli anni precedenti e mette le basi per il suo grande capolavoro, Rayuela, del 1963.
Diciotto persone vengono scelte come vincitrici di un viaggio premio, una crociera dai contorni misteriosi. Nessuno sa quanto durerà, né quale sia il tragitto e sulla Malcolm, la nave mercantile allestita per l’occasione, diverse cose non tornano: nessuno riesce a vedere il capitano, l’intera zona di poppa è interdetta ai vincitori della lotteria e presto viene annunciata la presenza di una variante tifoidea tra i passeggeri.
Ne Il viaggio premio il gioco è presente alla base. Cosa porta i diciotto sul Malcom è un gioco, una lotteria, e la fortuna di averla vinta. Il gioco permette di guardare i protagonisti muoversi sulla scena, raccontarli, farli interagire tra loro. Permette di giocare con loro, di metterli alle strette e stuzzicarli, nelle storie dei singoli che si intrecciano in una struttura solida per quanto con molti affluenti. La crociera diventa un micro mondo, con sue dinamiche, leggi, gerarchie. Chi ci vive dentro altro non sono che rappresentanti della società argentina e portegna di quegli anni.
A pensarci, è qualcosa di simile a quello che ha fatto, seppur in modo diverso, David Foster Wallace in Una cosa divertente che non farò mai più. Certo, quello era un reportage, qui parliamo di fiction. Lo scopo era diverso e diverso il mezzo usato, ma a ben vedere entrambe le opere osservano e analizzano sociologicamente la società che hanno sotto gli occhi, giocano con loro mescolando la serietà al divertimento.
Ritorniamo alla nozione di gioco. Suppongo che appartenga al modo attuale di concepire la vita, senza illusioni e senza trascendenza. Ciascuno accetta di essere semplicemente un buon alfiere o una buona torre, di correre in diagonale o di arroccare affinché si salvi il re. Tutto sommato, il Malcolm non mi pare molto dissimile da Buenos Aires. Resta sempre più funzionale e plastica. Sempre più elettrodomestici in cucina e libri in biblioteca.
Il ricco Don Galo e il giovane e temerario Felipe, la seducente Paula, Nora e Lucio, una coppia non sposata alle prese con la paura del giudizio, il colto professor Lopez e il signor Presutti. Persone provenienti da diverse classi sociali e diversi quartieri, obbligate a vivere insieme su questa stramba nave.
Il gruppo a un certo punto si spezzerà in due di fronte ai misteri della nave e la mancate risposte da parte dell’equipaggio. Alcuni si lasceranno trasportare dalle notizie e rimarranno a guardare, ad aspettare il da farsi; altri decideranno di indagare e reagire in una specie di rivolta.
Dopo Il viaggio premio arriveranno nel 1962 Storie di cronopio e di famas, il gioco per eccellenza (“Successe che quando feci leggere quelle storie ai miei amici più intimi, la reazione immediata fu negativa. Mi dissero: Ma come puoi perdere tempo a scrivere questi giochi? Stai giocando! Perché perdi tempo così?”) e nel 1963 Rayuela, che non è solo un anti-romanzo e non è solo uno dei grandi capolavori della letteratura sudamericana del ‘900, bensì il libro che fa giocare il lettore ancor prima di iniziare, lasciandogli scegliere più modi per leggere quella storia.
A differenza di quel che pensavano gli amici più intimi di Julio, la presenza del gioco nei suoi libri non aveva a che vedere con la banalità o con la leggerezza, Cortázar stava cercando e trovando un modo suo, nuovo, per tradurre la realtà che viveva e vedeva attorno a sé, trasferendola sulla pagina. Il gioco gli serviva da ponte per unire la realtà e la finzione.
Il viaggio premio segna a mio avviso un passaggio tra una prima produzione letteraria più realista e misurata di Cortázar e quella successiva, più sperimentale e libera, anche se continuo a credere che tutta la sua opera sia permeata da entrambe le cose, realismo e fantasia, proprio perché per Julio le due visioni, i due modi di guardare le cose, potevano esistere insieme, una non escludeva mai l’altra.
È interessante però vedere come un altro viaggio segni un passaggio nella vita dell’autore. È quello a bordo del Conte Biancamano, il transatlantico con cui nel 1950 lascia l’Argentina e arriva in Europa. Cortázar lascia il suo paese anche per la situazione politica di quegli anni, anche in questo caso con persone che rimanevano a guardare e altre che provavano a reagire.
A bordo del Biancamano conosce Edith Aron, “la maga”, che incontrerà per tre volte e sempre per caso in pochi giorni a Parigi – camminavamo senza cercarci pur sapendo che camminavamo per incontrarci -; chi ha orecchie per intendere intenda.
A Buenos Aires, fino al 1950, Cortázar è uno scrittore glabro e poco conosciuto, insegna in una scuola ed è altissimo e goffo, molto riservato, incline a grandi emicranie, l’unico maschio di una famiglia di sole donne. Parigi, il viaggio verso l’Europa, lo trasformano in un uomo di mondo, un viveur, l’intellettuale sudamericano sbarcato nella ville lumière che verrà ricordato come un donnaiolo, un uomo impegnato, un genio, un illuminato, che fino alla fine ha cercato e trovato il modo di giocare, che fosse scrivendo di Horacio e Lucia, di Lucas e dell’idra, che provasse a raccontare come viaggiano famas e cronopios, come si salgano le scale o come si possa viaggiare senza mai uscire da un’autostrada, in compagnia di un’orsetta che è stata la sua seconda moglie e suo grande amore.
Due viaggi, uno sulla carta e uno reale, che sono appunto crocevia, un nuovo ponte tra le cose, vite diverse, modi diversi di raccontare, ma che in realtà attingono sempre anche dall’altra parte, non riescono ad esaurirsi da sole, perché Julio era entrambe le cose. L’uomo politico, lo scrittore realista e lo sperimentatore, lo scrittore fantastico.
Forse allora non è Storie di cronopios e di famas la prima opera esplicitamente ludica, i semi c’erano già prima, c’erano da sempre, dal primo romanzo scritto e rifiutato che si chiamava – pensa un po’ – proprio Divertimento (Voland, 2007, a cura di Paola Tomasinelli), passando per una lotteria bizzarra e arrivando a un furgone pieno di magagne che lo porta in giro nel suo ultimo viaggio. In mezzo ci sono molte altre cose, tra cui coniglietti vomitati e in generale molti animali, e la grande convinzione che il gioco possa essere non solo impegnato, non solo serio (“sono sicuro che tutti voi ricorderete benissimo che quando [da bambini] giocavamo, giocavamo sul serio”), non solo fortemente intrecciato alla Letteratura senza mai sminuirla, ma che possa essere anche una lente di ingrandimento sul mondo, una cosa divertente da continuare a fare per trovare nuovi modi di raccontare la vita.
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A Francisco Porrúa
Parigi, 25 luglio 1962
Mio caro Paco,
ieri mattina sono arrivati i cronopios.[1] Petulanti e maligni come sempre, hanno convinto la portinaia ad assestare dei colpi terribili sulla porta di casa, proprio nell’ora in cui io e Aurora dormivamo immersi in quella magia speciale che acquista il sonno dopo che la sveglia ha suonato e si è già sicuri che si arriverà in ufficio con un’ora di ritardo. La tua lettera, invece, è apparsa, discreta, nel pomeriggio, e si è infilata per conto suo sotto la porta. E così la festa era al completo, in casa ci sono state straordinarie aperture di bottiglie e un’allegria nella quale mancavate solo tu, Sara ed Esteban. Abbiamo maledetto minuziosamente l’oceano Atlantico, Pedro de Mendoza e «il tempo che è nemico degli amici». Ma eravamo comunque contenti, e c’erano cronopios da tutte le parti a Place du Général Beuret.
Paco, questo sì che è un libro. Non un opuscolo qualsiasi, un libro vero. Uno lo prende in mano e pesa, vale di per sé, si difende. È venuto benissimo, e i difetti che potrei segnalarti senz’altro li conosci già molto meglio di me. Protesto per essere stato ridotto a «J. Cortázar» sul dorso. Che taccagno questo Minotauro. Ogni volta che guardo il libro di taglio resto a bocca aperta e mi chiedo: Chi sarà questo J. Cortázar? Suona strano, non ti pare? La colpa è mia, che non ti ho esposto la mia teoria secondo la quale i libri sono definiti malissimo a parole, e quello che chiamiamo dorso non lo è in assoluto, anzi, è il volto del libro, la sua parte più importante e più viva. Pensa che appena lo metti in una libreria, l’unica cosa che resta del libro è il mal chiamato dorso. In realtà, i libri si potrebbero pubblicare senza copertina (magari con una fascetta perché i librai possano esporli in vetrina e la gente si renda conto di che cosa si parla), allora tutto il talento dell’editore, del tipografo e dell’illustratore sarebbero concentrati sulla vera faccia del libro, ovvero il dorso. Non ti sembra una buona idea? J. Cortázar! J. Cortázar! Scelga lei l’arma che preferisce, signor Porrúa.
A parte gli scherzi, l’edizione è venuta molto bene, e ti ringrazio molto. Dillo anche a Esteban. Sai, mi rendo conto finalmente che le buone azioni vengono ricompensate. Io ho difeso il minotauro quindici anni fa, e ora questa bestiola riconoscente mi pubblica, in modo ammirevole, per giunta. Ciò che la gente chiamerebbe una coincidenza, no?
Sai, tutto quello che mi hai scritto su Rayuela mi ha lasciato così commosso che non voglio nemmeno provare a dartene un’idea. È successo semplicemente questo (e per me è tutto, l’unica cosa che importa davvero): la tua reazione al libro rispecchia l’esperienza stessa che ne ho avuto io. Le parole che utilizzi, «un enorme imbuto», «il buco nero di un enorme imbuto», ecco, Rayuela è esattamente questo, è ciò che ho vissuto in tutti questi anni e che ho voluto provare a raccontare – con il tragico problema che appena questo tipo di cose si dice, scatta il malinteso, tutto l’orrore del linguaggio («le cagne funeste» – le parole –) che preoccupa Morelli. Guarda, Paco, a me non importa tanto che il libro ti sembri buono – sebbene questo abbia per me un’importanza enorme, è chiaro –; ciò che realmente conta è tu sia rimasto sconcertato, «scosso», alienato e al limite, come si sente il povero Oliveira, come me quando facevo a pugni con Oliveira in ogni capitolo del libro. Ho detto ad Aurora: «Ora posso anche morire, perché là fuori c’è un uomo che ha sentito ciò che io desideravo il lettore sentisse». Il resto saranno malintesi, idiozie, elogi, la fiera di sempre. Nessuna importanza. E ciò che in fondo ho apprezzato di più è che tu abbia desiderato tirarmi il libro in testa. Perché è ovvio, Paco. Poche persone possono essere insopportabili ed esasperanti come credo di essere io in certi momenti. Lo so per certo, e mi adeguo alle conseguenze.
Più avanti, se il libro sarà pubblicato, vorrò le tue critiche concrete, e so che non mi nasconderai nulla di ciò che pensi. Per ora, mi accontento dell’immenso sollievo di sapere che quattro anni di lavoro sono serviti a qualcosa.
Non posso dirti nient’altro. Scrivimi uno di questi giorni, e grazie di tutto, con un grande abbraccio a Sara e un altro per te da
Julio
Aurora legge da dietro la mia spalla – queste donne – e mi sfiora un orecchio con un bacio per voi.
[1] Si riferisce alla prima edizione, Historias de cronopios y de famas, Minotauro, Buenos Aires 1962.
(c) Julio Cortázar, Aurora Bernárdez, edizioni SUR – Traduzione di Giulia Zavagna
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