Pubblichiamo ringraziando editore e autore, un estratto dal libro di Daniele Piccini Luzi, uscito per Salerno editrice.

di Daniele Piccini

«I versi che raccolgo in questa plaquette li ho scritti tra il 1956 e il 1960», afferma il poeta nella nota iniziale alla raccolta. La lettura del libretto va dunque anteposta a Nel magma (cui pure segue quanto alla stampa: 1965 rispetto a 1963), rispettando l’effettiva cronologia compositiva e la risultante sequenza, ristabilita nella raccolta complessiva dell’opera luziana. Ad ogni modo, fosse pure per casi editoriali o occasioni diverse, lo sfasamento cronologico con cui esce il libro è significativo: esso, cioè, sembra apparire come un frutto tardivo e in parte ripetitivo di una stagione già culminata altrove. Non che la raccolta non abbia una sua ragion d’essere. Si può dire, a livello generale, che quanto in Onore del vero era accennato o anticipato qui diviene esplicito, si certifica e si fissa (si veda sul tema dell’incontro con l’altro un verso come «dentro la prigionia di sé ch’è il vero inferno», v. 28 de La fortezza). Ciò vale per l’attesa di una compiutezza, per il senso non futile del lavoro dell’uomo, della sua fatica, che arriva a una formulazione quasi proverbiale: «Sia grazia essere qui, / nel giusto della vita, / nell’opera del mondo. Sia così» (vv. finali di Augurio, che forniscono il titolo sia a Il giusto della vita sia alla nuova campata dell’opera complessiva di Luzi, appunto Nell’opera del mondo, quella che comprende Dal fondo delle campagne, Nel magma, Su fondamenti invisibili e Al fuoco della controversia: il titolo si trova a riunire questi libri nella raccolta complessiva di Tutte le poe­sie del 1979, e da lì in poi nelle edizioni dell’opera poetica). È come l’esito finito, maturo, di un processo, che Luzi ha iniziato, più nel senso della cenere e della croce che altro, in Primizie del deserto e che ora trova, dopo Onore del vero, il suo approdo, come sembra suggerire A mezzacosta, ai vv. 12-14, forse anche con un implicito rimando, nella differenza, al concetto montaliano di prodigio: «Ma non ci fu miracolo. Miracolo / fu l’ordinato evolversi dei fatti / l’uno dall’altro a questo fine. […]». Si badi che non c’è irenismo o faciloneria: la raccolta insiste sul tema dei colpi, della durezza, della crudeltà (ad esempio attraverso le due poesie sulla caccia), insomma delle prove del vivere. Il fatto è che questo complesso di esperienza e disillusione, di pazienza e di fortezza diviene qui la misura, il punto di vista da cui valutare il paesaggio, naturale, storico e umano, fino a comprendere in Se mai solo vivendo la prospettiva del divino che occupa «tutta quanto è vasta» la storia. Solo che il rischio insito in questa sorta di chiusura di un iter (prima che uno decisamente nuovo o quanto meno ulteriore si apra) è quello della ripetizione e infine della cristallizzazione in formule, in sigla, insomma dell’indugio su una maniera più o meno acquisita. Così non mancano nella raccolta testi che mostrano la corda, avvisano di una certa inerzialità, come per la chiusura, appunto, di un ciclo: penso ad esempio alla sezioncina Tre note.

Dove invece il piccolo tesoro di sapienza (e, poeticamente, di forma, di espressione tesa alla solidità nonostante l’incalzare della tempesta) messo insieme dal poeta fa una prova decisiva è nella densa sezione Morte cri­stiana, costituita da quattro testi, tutti dedicati alla scomparsa della madre Margherita, avvenuta nel 1959. Qui si intende, mi pare, che la ricerca precedente di Luzi, nonostante certa sua persistente formularità, non era retorica, ma segnava l’acquisto di un habitus, coincideva con una tensione morale. È infatti qui che il tema della morte e della vita come compresenti, dell’opera di adesione profonda a un ordine di cose che non si ripiega sul singolo, individuale lamento, si compie definitivamente, in modi che diventano subito memorabili ed emblematici, anche in termini di poetica (infatti se Luzi riflette e spazia nelle possibilità del poetico attraverso i saggi, è poi nei testi che le svolte prendono corpo e indicano maniere e nodi, superamenti e conquiste appunto di poetica, d’altra parte dandosi fra i due settori un vivo interscambio). Il culmine è raggiunto in questo senso da Il duro filamento, terzo dei quattro componimenti della sezione:

«Passa sotto la nostra casa qualche volta,
volgi un pensiero al tempo ch’eravamo ancora tutti.
Ma non ti soffermare troppo a lungo».

La voce di colei che come serva fedele
chiamata si dispose alla partenza,
pianse ma preparò l’ultima cena
poi ascoltò la sentenza nuda e cruda
così come fu detta, quella voce
con un tremito appena più profondo,
appena più toccante ora che viene
di là dalla frontiera d’ombra e lacera
come può la cortina d’anni e fora
la coltre di fatica e d’abiezione,
cerca il filo del vento, vi s’affida
finché il vento la lascia a sé, s’aggira
ospite dove fu di casa, timida
e spersa in queste prime albe dell’anno.
L’ora è quell’ora cruda appena giorno
che il freddo mette a nudo la città
livida nelle sue pietre, tagliente
nei suoi spigoli e, dentro, nell’opaco
versano latte nelle tazze, tostano
pane, il bambino mezzo desto biascica
mentre appunta sul diario il nuovo giorno.

Nel grumo di calore che è più suo,
nella bolla di vita ch’è più tenera
per lei cresciuta alla pazienza in terre
povere, pie, l’ascolto, voce fievole,
tendersi a queste ancora grevi, ancora
appannate dal lungo sonno, chiedere
asilo, volersi mescolare.
Dico: abbi pace, abbi silenzio. Dico…

Udire voci trapassate insidia
il giusto, lusinga il troppo debole,
il troppo umano dell’amore. Solo
la parola all’unisono di vivi
e morti, la vivente comunione
di tempo e eternità vale a recidere
il duro filamento d’elegia.
È arduo. Tutto l’altro è troppo ottuso.

«Passa sotto la nostra casa qualche volta,
volgi un pensiero al tempo ch’eravamo ancora tutti.
Ma non ti soffermare troppo a lungo».

La poesia di Luzi è qui chiamata a dimostrare l’autenticità dei suoi assunti esistenziali e anche a mostrare la capacità o meno di mantenersi fedele all’altezza della meditazione e della concezione poetica sviluppata. Il testo, mi pare, si costruisce tutto su un’alternativa e di più su un controcanto. Esiste cioè un’idea di poesia che Luzi qui respinge, con forza (ed è in modo coessenziale un’idea della vita, della religione, dello stare al mondo): quella che con termine esemplificativo, e proprio poetico (rimanda infatti a un genere di poesia, a uno stile, a una possibilità retorica), Luzi chiama «elegia». Si misura con questa prova la continuità e coesione, il necessario conseguire l’una all’altra delle diverse fasi dell’operare del poeta. Sbucato dal deserto a un senso desto e operante di carità, di amore che non indugia sulla perdita e la mancanza, Luzi sa farne uno strumento vivo e saldo nel momento più insidioso, quello in cui la tentazione, la sirena del pianto (non si può non pensare in parallelo allo struggente e mirabile canzoniere stilnovistico-popolare di Caproni per la madre Annina, dico Il seme del piangere, 1959) si fanno più attraenti. Si direbbe che Luzi abbia la forza di trasformare l’episodio della morte (una morte cristiana, come suona il titolo della sezione) in un’occasione di riprova. Il testo è perciò, nel vivo della vicenda, nella più dolente delle ore (si noterà che è proprio in questi testi che comincia ad affiorare il modulo dantesco «È l’ora che…» o simile), una dichiarazione di poetica. In controluce credo non ci sia soltanto il crepuscolarismo, sempre guardato con sospetto da Luzi per i suoi rischi di regressione e di rinuncia, ma anche una linea portante del Novecento poetico, cui forse anch’egli giovane aveva conceduto qualcosa, pur sempre in dialettica e in tensione con altro, ne La barca. E soprattutto mi pare si possa scorgere, in filigrana, una “correzione” alla poetica montaliana (per quanto nel concreto della storia stilistica di Luzi l’esempio di Montale sia ben presente e conti molto in questa sua stagione di mezzo). Penso, per stare a inneschi e confronti verbali, al verbo «recidere», da Montale deprecato in riferimento alla forbice che disfa il volto amato nel ricordo (in Non recidere, forbice, quel volto, nelle Occasioni), da Luzi quasi brandito (la scuola di Betocchi non poteva non portare in questa direzione) per permettere il superamento di un ostacolo insidioso, l’adempimento di un più alto, pietoso e davvero maturo dovere di carità. È uno dei passaggi stretti che la poesia di Luzi deve imboccare per darsi un futuro, per assicurarsi un ulteriore sviluppo, che in effetti sgorgherà.

Condividi

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Autore

redazione@minimaetmoralia.it

Minima&moralia è una rivista online nata nel 2009. Nel nostro spazio indipendente coesistono letteratura, teatro, arti, politica, interventi su esteri e ambiente

Articoli correlati