di Filippo Cerri
Pubblichiamo un racconto inedito di Filippo Cerri, autore per effequ di “Di macchia e di morte“, a cui questo racconto rimanda.
***
Uno
Il primo morto è stato un abbaglio, una vampata che illumina la scena. Mi sorprese il suo sguardo velato, la rigidità del corpo offeso, il ghigno ebete che gli si stampó sul volto.
Negli anni che vennero altri ci sono stati, troppi, nessuno così inciso nella memoria. Ho visto uomini sfiatare aria calda che sapeva di vino, boccheggiare, dimenarsi come ossessi punti dalla tarantola per una briscola che non tornava, li ho visti azzuffarsi, stretti in taverne umide e buie, affacciarsi all’aperto con il coltello piantato nel fianco e con l’ultimo sorso ancora sotto la lingua. Alzavano il mento verso cieli spenti, in cui solo a fatica il primo raggio di luce sfaldava una notte lugubre come la tonaca dei preti.
Ho visto gente venire dai campi, stranieri schiantati dal lavoro, sulla loro pelle azzurra del moribondo soffiare il vapore della febbre: li ho visti barcollare e stramazzare a terra con in bocca i loro accenti ormai inutili. Cosa avrebbero detto, anche potendo, e a chi? C’era già il prossimo pronto a prenderne il posto.
Poi ho visto la guerra, il pensiero che si slabbra e si fa di fango e di acciaio arroventato. Gente che è morta con la stessa facilità con cui si respira.
Ho imparato a farmi scivolare la sensazione che la vista di un uomo morto può evocare; come i dottori, ci ho fatto l’abitudine, ma quando vidi il primo avevo poco più di dodici anni e incontrare la morte è stato un appuntamento a cui non mi ero preparato.
Per la maggior parte della mia infanzia, a dirla chiara, la morte è stata la mano raggrinzita del vecchio al centro della stanza in cui il paese lo piange; è stata quella di mia madre, che non ricordo; la croce del Cristo o la bocca del drago colpito al collo dalla lancia di San Giorgio nell’affresco del santuario; è stata come una notizia orribile sul giornale che non ti riguarda.
Ho vissuto all’ombra di mio padre, fianco a fianco, finché è durata.
Di lui ho ricordi precisi che hanno scavato, più per contrasto che per affinità, la linea dura del mio carattere.
Non gli ho mai visto accendersi in viso un dolore, fu uomo di calma e di buonumori. Prima d’essere uomo tranquillo, fu un bravo ragazzo. Quando ebbe l’età in cui si può riconoscere un’inclinazione, una tendenza o un destino, gli dissero: Sei capace con il fischio e con il laccio. Di una delle due farai un mestiere.
Mai vaticinio fu più sprecato. Si occupó di telegrafi e di poste, a comando della stazione del paese; diramava messaggi, consegnava i dispacci e le lettere al cambio della posta su a Colle Lumaca. Da lui ho imparato il mestiere ma non ho ereditato il temperamento. Il figlio che sono stato si è sentito spesso a catena, stringere il collo da una forza invisibile che parlava una lingua che non capiva, sentiva una rabbia che non aveva capo o coda, viveva in me come un pensiero, uno spirito. E io stringevo i pugni, sputavo a terra, mordevo il freno.
Il giorno in cui rubai un cavallo di legno al figlio del Cavaliere Chelli, alla festa di San Giorgio, fui chiamato ladro, e finì con un pugno in faccia al ragazzino che mi infamava. Punto da un’invidia senza paragoni, scoprii il disonore della colpa, così come il bruciore dello schiaffo che ne fu la diretta conseguenza. Il figlio andò dal padre e il Cavaliere venne da me, non disse e non predicò nulla, ma fece volare la mano piena sul mio viso senza che me ne accorgessi. Non riuscivo neanche a piangere dall’imbarazzo. Mio padre lo venne a sapere. Fai il bravo, disse. Si giustificò con il Cavaliere in pubblica piazza, si costernò con tutto un teatro di scuse e poi subì in silenzio la sua reprimenda. Non disse altro, a casa non rincarò la dose, ma gli si accese in faccia un dolore muto, la sua espressione perse ogni forza, se la trascinò così per giorni. Allora credetti che un figlio non dovrebbe mai vedere la vergogna di un padre. Troppo tardi ho capito che non c’è altro modo di diventare uomini.
Lo schiaffo del Cavaliere, per mio padre, fu una catastrofe le cui conseguenze non lasciò trasparire mai. Qualcosa di minimo, il risultato di una bambinata che lo ammalò nello spirito, che gli gravò sul corpo. Odiai il Cavaliere con la forza di un assoluto, con la rabbia impotente del ragazzino. Odiai mio padre perché non aveva reagito, non mi aveva difeso. Odiai la sua debolezza, impensabile per un padre.
Quando in paese si venne sapere che il Cavaliere era stato sequestrato dai briganti, pregai che non tornasse mai più, che lo ammazzassero in mezzo al bosco come il cane che era.
Invece quello tornò, poche ore dopo, cantando a tutti la beffa giocata alla banda Pietramara.

Due
Il Cavaliere Chelli possedeva i terreni e il bestiame. Orgoglioso come solo un signore della terra, non esitò a rimarcare la sua giocata quando la espose a un pubblico più sorpreso che preoccupato.
Il resoconto del Cavaliere metteva da parte panico e angoscia, ma io sapevo e volevo immaginarla bene la situazione, e chiudendo gli occhi per agevolare la fantasia vedevo il teatro della sua faccia smagrita che cede al terrore, le orbite spalancate, la bocca improvvisamente sabbiata. Provavo un certo piacere.
Lo avevano fermato al crocevia vicino il Poggio di Madonna delle Querce. Alla salita il cavallo sfiata, cede al passo, rallenta, è lì che il brigante si presenta e tira su il fucile, è lì che lo avevano sorpreso di ritorno da una vendita di bestiame. Il Cavaliere sente il loro secco comando: giù e camminare. Ed è pronto alla fine.
Ma si manifesta alle volte un attimo di disperazione che vale mille furbizie. Nel gesto di scendere infila il gruzzolo ottenuto dalla vendita sotto la cassetta, quindi si offre ai sequestratori piangendo miseria. Il suo accompagnatore viene spedito in paese a racimolare il dovuto, lui lo trascinano in uno spiazzo del bosco. Quando lo perquisiscono, con incredibile negligenza, solamente arrivati al luogo predisposto, non gli trovano niente addosso. La magia è riuscita.
«Ho venduto tutto ma la banca deve pagare tra una settimana» dice il Cavaliere. «Non ho nulla in tasca». La menzogna gli dilaga sulla faccia e distende i muscoli. Solo i bugiardi di professione e gli innocenti possono sostenere a lungo una faccia così.
Colpa della banca, ripete a un pubblico ammutolito e nervoso.
Banca vuol dire oscuri rigiri e il brigante, che le banche non saprebbe neanche come rapinarle, si infuria e bestemmia il canediddio. Quando il compare del Cavaliere torna con pochi spicci raccattati in tutta fretta, la metà di quanto richiesto, il brigante offre al Cavaliere una via d’uscita: vai al paese e torna tra otto giorni con il giusto malloppo.
Al Cavaliere non pare vero, forse l’uomo che lo punzecchia con la punta del fucile scherza: non si può essere mica così idioti. Non importa, in paese ci torna e di filata, ma otto giorni dopo allo scherzo risponde e manda un manipolo di carabinieri al posto suo. I briganti, a quel punto, avevano avuto tutto il tempo necessario a capire quanto erano stati stupidi e non si presentarono all’appuntamento.
Esaurita la cronaca, ascoltata dalla viva voce del Cavaliere, non rimase che prenderne atto. Non riuscivo a crederci, nessun dio aveva ascoltato il mio voto, il Cavaliere se l’era cavata e a pensarci sentivo il fiato corto.
Una mattina, non erano passate che alcune settimane, mi sporsi dalla finestra. Il cielo era sgombro, solo qualche nuvola sfaldata, pesava sul respiro quanto un’afa, c’era questa luce pallida e fredda che sbiancava l’aria con la stessa intensità delle ossa bruciate dal vento di mare. Mio padre disse di non sentirsi bene. Doveva consegnare dispacci e valori, ma raggiungere il cambio cambio della posta a Poggio Lumaca era un’impresa che non poteva azzardare, stremato com’era.
«Vuoi andare tu?»
Poteva anche evitare di chiederlo, ma si aspettava una risposta.
Presi il piego speciale, chiuso dai bolli di ceralacca, me lo infilai in una tasca.
Poco dopo camminavo impastando la saliva con pezzi di un pane duro e secco, mettevo un passo dietro l’altro e il mattino era ora fresco. Se infilavo le mani nelle tasche, potevo stringere con le dita il mio tesoro, sfiorare la ceralacca coi polpastrelli, sentire il peso più che l’orgoglio del mio compito.
Mi si aprirono due strade: la prima era la solita, lunga e dritta, la seconda serpeggiava verso il poggio attraverso la macchia, in forza di una vecchia strada aldobrandesca, un muricciolo di pietra tra cui ramarri e lucertole si affacciavano per l’attimo di una sortita al sole.
Quella mattina ebbi voglia di un cambiamento, di stravolgere la rotta. Presi la seconda.
Sorpassai il ponte, nei pressi della zona detta la Tana del Magro.
Su una roccia muschiosa c’erano tre uomini, li vidi da lontano e fui costretto alla decisione fulminea: di cambiare passo non se ne parlava, un’andatura più veloce o più lenta era una dichiarazione bella e buona, ci potevi leggere senza problemi l’evidenza di un segreto. Tornare indietro neanche a dirlo, avrei dato le spalle alla morte sicura.
Continuai a camminare come se non avessi visto altro che alberi, li superai definendo a malapena con la punta dello sguardo tre figure d’uomo appollaiate coi fucili distesi alle ginocchia,
A pochi passi dal lasciarmeli indietro un fischio mi penetrò nelle orecchie. Una voce di selce, ruvida e malata, fece seguire una domanda:
«Ragazzo, dimmi: il cavalier Chelli lo hai visto?»
«Sta in paese, vi teme e vi evita».
«Fa bene, quanta forza c’è?»
«Tanta. Quelli che non sono fissi, sono di perlustrazione. Se non sono già da queste parti, arriveranno».
«Tieni» disse lanciandomi una moneta. «Rifai il ponte del Magro tra tre giorni e porta notizie. Sai fischiare?»
Mostrai i miei talenti fischiando con le dita sulla lingua.
«Bene. Quando risali il poggio fai tre fischi brevi e uno più lungo. Se il bosco ti risponde, avanza. Ora vai».
Feci ancora due passi e mi voltai nuovamente. Si erano dileguati con uno zompo. Un mucchio di foglie portate via dal vento. Sulla roccia c’era rimasto un fischietto intagliato da un ramo di sughero a forma di testa di capra.
Ripensai a quell’incontro soprattutto quando il giorno dopo vedemmo arrivare da Grosseto una figura intabarrata.
Gli stipiti dell’ufficio di mio padre lo contenevano a malapena. Si presentò: Capitano Giacomo Majella. Strinse tra le dita un pizzico di tabacco, lo aspirò contraendo la gobba del naso. Lo chiamavano Orso, con ragione.
Disse che avrebbe usufruito del nostro telegrafo per mettere in atto una strategia contro i briganti avvistati, sarebbe stata opera paziente ma risolutiva. Il Cavaliere era agitato dalla loro presenza e aveva richiesto una protezione speciale.
«Sono tornati i briganti?» chiese mio padre sinceramente preoccupato, grattandosi i capelli radi.
«La banda Pietramara ha saputo della beffa del Cavaliere» rispose il Capitano.
Mio padre non si lasciò pregare e offrì tutto l’aiuto possibile, Majella chinò la testa e mi parve sorridere.
Ripassai il Ponte del Magro dopo aver fischiato e aver atteso pronta risposta, di tre ne trovai uno.
«Sono solo» dissi.
Il brigante non fece cenni o saluti, aveva un paio di grossi baffi che gli aggravano il volto, sotto il quale si nascose un sorriso o un ghigno, indossava i cosciali alti e due cinture di cartuccere strette al petto, un cappello a falda larga e una borsa a tracolla, col pugnale incideva una roccia che teneva in mano.
«Lo sappiamo» rispose.
Intesi che gli appuntamenti non erano ingenui. Che gli altri due non erano lontani.
Fece un gesto della mano, come a chiedere ambasciate.
«Il capitano Giacomo Majella organizza la vostra caccia su richiesta del Cavaliere».
L’uomo strinse gli occhi. Provai a decifrare quell’espressione, ci riconobbi della cautela e del timore. Majella era stato capace persino di smagare la leggenda di Bastiani, il più famigerato brigante di ogni Maremma. Ci era riuscito l’ottobre precedente, e il trionfo se l’era messo al collo come una sciarpa di volpe. Bastiani, re delle querce e delle marruche di qua e di là dal Fiora, l’avevano ammazzato in una casa colonica, e il fedele luogotenente, Bianciardi, vagava con il passo del resuscitato per i boschi delle maremme, come un cane che troppo aveva morso la mano del padrone. E del cane rabbioso avrebbe presto fatto la fine, sparato alle spalle da un contadino per una taglia che non gli corrisposero mai. Bianciardi e la banda Pietramara rappresentavano gli ultimi briganti ancora in circolazione, residui che il Capitano Majella aveva promesso di annichilire con le strategie del secolo nuovo.
Avevo visto la foto fatta a Bastiani da morto, legato stretto alla colonna del cimitero di Capalbio: un vecchio ingrigito, lo sguardo ormai perduto pari a quello di una bestia cieca, in mano il fucile e i cosciali di capra neri stretti ai fianchi a renderlo una specie di fauno ridicolo. Quella corteccia d’uomo appeso era stato il re del bosco e ora era solo un seppellito tra i seppelliti.
Gli altri due compari ci raggiunsero, spuntando da dietro degli alberi come generati dai giochi d’ombra offerti dalle felci.
«Io sono Diomede Pietramara e mi chiamano il Caprolatto. Questi sono i Fratelli Alberti, Pietro e Loreno».
Portavano con sé delle provviste. Mi allungarono una damigiana di vino e mi dissero di berlo. Io feci un sorso enorme, per non sbagliare. Restammo in attesa, in silenzio.
Dopo un tempo che ritennero necessario, quando confermarono che il vino non era alloppiato o avvelenato, mi dispensarono.
«Sei stato bravo» disse uno dei fratelli.
Il Caprolatto emise un respiro; a settentrione, verso la montagna, si gonfiavano gobbe nere, animate da un ribollire intenso, attendevano come un gatto l’attimo dell’agguato, il tempo di sfaldarsi in pioggia. Per il momento rimanevano immobili, così come gli uccelli in volo, contrastati dal vento e congelati nella disperazione della fuga.
Restavo in silenzio, incapace di formulare alcun pensiero. Il vino bevuto mi era già arrivato al cervello e mi aveva appesantito il fiato, annodato la lingua.
«Tieni», disse l’uomo.
Allungai la mano, mi aspettavo un’altra moneta, strinsi invece un proiettile, piccolo e freddo come un dito d’acciaio.
«Portalo al Cavaliere e digli così: arriverà presto il giorno di paga».
Tornai in paese. Mi vedesse mio padre, ipotizzavo allo specchio delle pozze, ne morirebbe, fraternizzare con le belve umane. Non c’era una ragione in me, non ne contavo una, solo una forza che voleva agire, bene o male che fosse, con la cieca ed energica disperazione del vento che attraversa il crepaccio e urla impotente. Mi abitava nell’orecchio il demone della vampa e della rovina, sentivo nello stomaco il gorgoglio della rabbia che non si può addestrare, con cui non puoi farci nulla di buono. Perché ero fatto così e non altrimenti?
Finì l’inverno, la bella stagione cambiò volto alle cose. I briganti marciavano chilometri di bosco in bosco, presero d’assedio il paese, si erano appuntati sulla punta del coltello il nome del furbo. Li cercavano, senza risultati, per le selve di Cerrogobbo, per le foreste e i torrenti in secca, sotto i ponti ad arco romani sfasciati da piogge centenarie, nelle capanne dei pastori muti e con lo sguardo fisso verso il gregge stordito, bianco come le pietre assolate, nei castagneti annebbiati della montagna in cui la notte si manifestano le fate e i convegni di streghe. Arrivavano al Cavaliere lettere d’odio e di vendetta firmate da Diomede Pietramara che li confermavano vicini e mai dimentichi e che lo avrebbero crocefisso, si muovevano intorno al paese, a debita distanza, avvolgendolo come le spire d’una serpe quel tanto che bastava a non far tirare il fiato, a impensierire chi di dovere, a dimostrare, a scanso di equivoci, che la guerra era stata dichiarata.

Tre
Vanno lontane le strade del passato. Si diramano attraverso la feritoia della memoria, tornano all’origine, fino al ventre che ti ha scaraventato al mondo, che molti maledicono ancora, offesi dalla vita come uno scherzo che non si è capito. Ancora a chiedersi: a che serve la stirpe? A dar sangue alla terra, padri e madri sono i primi colpevoli del dolore del mondo, ti hanno richiamato da un piano celeste a questa terra che ti entra nel naso ogni volta che si sbriglia il maestrale.
Poi ti guardi intorno. Le foreste, i pascoli, le piante e le grotte abbandonate dagli antichi dèi del sacrificio, gli orridi e i crepacci, le buche improvvise, i guadi e le paludi. Tutto questo è roba tua. Gli uffici che d’estate salgono dal piano in fuga dal morbo, limpido esempio di amministrazione in movimento, i fumi delle carbonaie che infuocano i cuori della notte, le diligenze che solcano la valle sgangherando l’aria, il tintinnare delle cavigliere legate alle zampe dei cavalli. Tutto questo è roba tua.
Tutto questo mio padre mi aveva consegnato, così come l’aveva ricevuto. E io non sapevo che farci.
Il 23 aprile ci fu la festa in onore di San Giorgio. Vennero cavalieri da tutta la Maremma, mostravano fieri la briglia nella mano, si offrivano al sole della piazza facendo ombra ai pellegrini pronti a raggiungere il santuario. La processione partì dietro agli alfieri in costume; bardati con le armature e le lance, tra la folla, anche io e mio padre, uscimmo dal paese e seguimmo a testa bassa il corteo.
Mi era sempre piaciuto ascoltare la storia della lotta magnifica, il santo che conficca la lancia nel collo del drago, l’orbita vuota della bestia, la lingua che si avviluppa e strozza in gola il grido disperato dell’ammazzato. Ne riepilogavo i passaggi a mente, mettendo un piede dopo l’altro. Adesso scoprivo in quel resoconto un’inquietudine nuova, non capivo più chi ero, con chi mi immedesimavo, col santo o con la bestia ammazzata.
Durante la messa al santuario, quando il prete alzò l’ostia, ci fu un silenzio improvviso. Accanto a me, mio padre pregava piano.
Più tardi, mentre sbriciolavo tra i denti il biscotto che la vecchia Elia aveva preparato per la festa, per la prima volta, e senza avvisi, pensai alla morte di mio padre. Ero io ad ammalarlo? Con i miei pensieri, con le mie bugie, con quelle speranze violente. Lui così placido, così innocente? La sua presenza adesso mi stava addosso senza saperlo, la sua influenza mi infestava, che io lo volessi o meno. Se c’era del buono in me era grazie a lui, a quella specie di velo di bontà che aveva in avanzo e con cui mi copriva. Finito lui, cosa mi sarebbe rimasto addosso?
Ci sorprese l’estate, il paese si animò un poco, mentre mio padre esauriva al contempo le forze, il volto gli si fece bianco e scavato, mentre lo sguardo, un tempo luminoso e senza l’ombra di un pensiero celato, ora pareva appannato e grave. Il Capitano andava e tornava dalla città, spesso restavo al suo fianco, me la cavavo con l’apparecchio Morse, mio padre mi aveva insegnato il mestiere, dalla stazione postale inviavo i resoconti, aiutavo come potevo.
Mio padre venne presto dispensato, il Capitano si rivolse a lui con parole delicate: «Non la voglio affaticare, lei mi dia le chiavi dell’ufficio. Il ragazzo è capace».
E fu un giudizio che, agli occhi di mio padre, mi valse quanto una medaglia.
Divenni il telegrafista del Capitano. Il punto e la linea furono la mia lingua, il mio sangue, la ragione di ogni sera. Al fianco di Majella il mondo si fece più stretto, una stanza illuminata male, divisa tra il mio corpo di dodicenne e quella massa enorme, ingolfata nella divisa. Il Capitano parlava poco, ma non era cattivo, comunque non lo capivo molto.
La mattina riposavo e mi sognavo per le vie del mondo, a cavallo o perduto in città che immaginavo in forza di rimasugli visti chissà dove e le cui architetture fondevo insieme, per cui le città che sognavo non erano del tutto irreali ma non erano neanche vere; costruivo così ogni giorno la mappatura delle mie fantasie mentre ogni sera mi scivolava addosso come una colpa e attaccato all’apparecchio scandivo, registravo, gestivo le disposizioni del Capitano.
Se la banda Pietramara veniva avvistata, raccoglievamo la chiacchiera. Dicevano di averli visti andare e venire da Fosso Inferno, ma erano voci maldestre, originate da bocche senza faccia e una ricognizione carabiniera era comunque inutile. Il bosco aveva i suoi occhi e le sue orecchie.
Majella si spinse di persona a domandare ai pastori, porta a porta dei poderi dei contadini, dando fondo ai suoi cento travestimenti. La taglia sulle teste dei ricercati non faceva gola e nessuno era disposto, per interesse o coraggio, a barattare una confidenza con una condanna a morte.
A settembre le minacce, germogliate col tempo e mai venute meno, diedero i loro frutti. Il Cavaliere si decise a trasferirsi in città per evitare, a ragion veduta, di finire crocifisso a una quercia. Dispose dei preparativi necessari per il 30 ottobre. Venni a sapere l’attesa notizia dalla bocca vanitosa del figlio, il quale non mancò, a noi ragazzi stizziti come passeri d’inverno, di metterci prontamente al corrente di certe sue previsioni cittadine, di come l’aria della vita frenetica gli avrebbe giovato, con tutte le novità elettrizzanti che la città si teneva strette tra le sue mura.
Subito capii che le circostanze non sarebbero state mai più così favorevoli.
C’era un monito che sapevo vero: se hai qualcosa da dire, dillo alla quercia, perché i boschi hanno le orecchie. Attesi un giorno di sole, poi la mattina dopo raggiunsi la quercia solitaria che svettava vicino Poggio Inferno. Si allargava adombrando l’estremità della collina, restava immobile, scossa appena dai soffi di vento che spazzavano via i falchi dal cielo. Emisi un fischio triplice e secco, seguito da un lungo soffio. Tre giorni provai e tre giorni furono inutili. Al quarto, riscendendo il poggio, sentii una risposta. A dar fiato al fischio era stato Loreno Alberti. Lo vidi in piedi ai limiti del campo, era emerso ai confini con il bosco. La sua figura, ingigantita dall’ombra che il sole alle sue spalle prolungava, si confondeva, tremolava il profilo dalla distanza. Mi fece cenno allargando il braccio di raggiungerlo.
Attraversai la calma del poggio, se si può chiamare così il furioso andirivieni degli insetti, il silenzio abitato delle cose che non vediamo e che ugualmente sono. L’uomo mi attese con ancora il binocolo in mano e mi scortò fino agli altri, superato il fosso, nei pressi d’una carbonaia. Il Caprolatto stava leggendo un piccolo volume rilegato, una Divina Commedia dalla copertina a pezzi. Sulla sua faccia ramata si definì un’espressione incerta, che non seppi capire.
«Porti notizie o guai?» mi chiese l’altro degli Alberti. Il Caprolatto mise via il libro e raggiunse un cespuglio a cui prese a strappare via dei rovi, dandoci le spalle.
«Il Cavaliere andrà a Grosseto il tranta di ottobre» dissi in un fiato solo.
«Eccolo qua, signori» esultò Loreno Alberti allargando le braccia, «il giorno di paga è fissato».
Il Caprolatto si voltò ed espose l’intreccio che aveva in mano.
«Con i rovi di marruca hanno fatto la corona di spine a Nostro Signore. Quanto è grande la testa del Cavaliere?» chiese senza sorrisi.
Feci un passo sul posto, poi tossii, ma per finta, per recuperare il discorso.
«Fatemi unire a voi. Non so sparare ma imparo in fretta».
Ebbi in cambio delle risate così sincere da stringere lo stomaco, provai una vergogna feroce. Parlavo a loro da uomini, gli davo in pasto la vita di un cristiano, ma quelle risate mi riconsideravano come il bambino che ero. Speravo che Dio li fulminasse sul posto, che gli strozzasse in gola il riso.
«Scusa ragazzo, ma non abbiamo pistole in avanzo».
Feci per andarmene, ammutolito dal rancore. Il Caprolatto mi richiamò.
«Anche in te, come in noi, si agita la bestia. Ricorda sempre che ci sono sole due parti della catena: se non ce l’hai in mano, ce l’hai al collo. Questa rabbia che covi è la sola cosa che ti separa dagli altri e la sola cosa che spezza la catena».
Mi fece scivolare in mano un’altra moneta.
«Fila via e non tornare».
Passavano i giorni e mio padre non si rimetteva, sfogava con colpi di tosse continui i respiri. La notte mi agitavo nel sonno, se tossiva mi preoccupavo, se non lo sentivo era peggio. Avevo consegnato ai briganti la vita di un uomo e la rabbia che provavo si era sciolta, come una febbre dopo aver tanto sudato. Non sognavo più il mondo e le sue città, ma sognavo il bosco, silenzioso e irreale, e un albero su cui una tavola orizzontale era stata inchiodata a croce e tre grossi serpenti arrotolati sulle sue braccia sibilavano in coro.
Qualche giorno dopo, dalla terrazza del paese, gettando lo sguardo verso lo stradone vidi qualcuno, venendo dai poderi, che risaliva. Una figura che avanzava a passo lento, sola, una cassettina al collo. Un venditore ambulante, pensai, che torna dal giro dei poderi. Chissà che vende, trine e bottoni, stoffe, e cosa racconta, che storie tiene sulla lingua.
Un vecchio mi sorprese, non l’avevo sentito arrivare, gravava sul bastone con entrambe le mani e masticava il vuoto che i denti gli avevano lasciato. Aveva voglia di commentare e affiancando il mio sguardo disse: quell’uomo fatica per nulla. A quel punto riconobbi il Capitano Majella, arrancante per la mole e per la salita, anche se così travestito pareva come ridotto, prosciugato dal sole.
Scesi allora per quella stessa strada; quando ci incontrammo, il Capitano mi fece un gesto col capo, appena accennato, di pura cortesia tra sconosciuti, tanto era dentro la parte. Poi ognuno scivolò verso la sua direzione.
Arrivai alla dispensa e attesi il mio turno. Alla mia destra c’era un uomo dai capelli sparpagliati, come fosse finito in mezzo a un incrocio di venti, parlando piano col dispensiere disse di aver incontrato uno dei fratelli Alberti che gli aveva detto che presto ci sarebbe stato da festeggiare. Spalancai le orecchie. Lo avevano fermato e gli avevano detto di fare provviste in previsione del “giorno di paga”, lo avrebbero atteso alla Madonna delle Querce. La richiesta era ben precisa: tre fiaschi, uno a testa, mezzo chilo di prosciutto già affettato, una forma di pecorino e due belle pagnotte sfornate appena. Non fece caso a me e con un tremore inequivocabile sussurró all’uomo dietro il bancone di fare in fretta, mentre poggiava sul banco un sacchetto lacero pieno di monete.
Il dispensiere, né impaurito né preoccupato, convinto che quella situazione era roba d’altri, e a lui toccava solo prestare la giusta attenzione, riempire il vuoto tra una comanda e l’altra, aprì appena la bocca.
«Hanno una sete da diavoli».
«E che volete fare?» chiesero alle nostre spalle.
Ci girammo tutti. Era il fattore, un volto smunto e anonimo da cui pendeva un naso gibboso, la luce estrema del giorno lo colpiva dall’alto entrando violenta dalla finestra superiore. L’uomo, così definito, eternato in quell’immagine fatta di gambe secche e baffi ingialliti dal tabacco, da una camicia grossolana di stoffa azzurra, da un cappello che nascondeva una testa liscia e un’espressione scura, storcendo le labbra attese la risposta, seppur conoscendola da tempo.
«Io? Che posso fare?».
«Dovete farlo sapere al Cavaliere» disse il fattore.
«Fossi matto».
«Se la forza si muoverà bene, non ci saranno ripercussioni. Che avete da temere?»
«Diteglielo voi, se volete: al crocevia di Madonna delle Querce, lì se ne stanno, come lo so io, ora lo sapete pure voi».
I due si guardarono e qualcosa successe, ma non successe niente.
Quando capii che il discorso si era seccato, quando il fattore prese la porta e gli altri uomini tornarono a fare le loro cose, feci le mie richieste e uscii anch’io dalla dispensa. Pensai all’ingenuità della banda, doppiamente leggeri, due volte, infatti, peccavano di imprudenza, con la prima si erano fatti nemici il Cavaliere, con la seconda rischiavano l’annientamento.
Quando quella sera entrai nell’ufficio di mio padre, la voce era già arrivata alle orecchie della famiglia Chelli. Il Capitano era piegato sul tavolo al centro della stanza e mi disse, senza guardarmi, di fare in fretta, che c’era del lavoro da fare.

Quattro
Passammo la notte a coordinare l’attacco.
La voce cavernosa del Capitano si ingigantiva nella stanza, i suoi ordini passavano dalla sua gola all’aria, dall’aria alle mie dita, dalle dita all’apparecchio, di lì si diramavano per le stazioni vicine, chiamavano a gran voce a raccolta, designavano il piano d’attacco.
Chiusi gli occhi solo per poche ore, vinto dalla stanchezza. Mi svegliai comunque alle prime luci. Era il 30 ottobre. Si spalancò un’alba antica, bella, commovente quasi fosse stata una delle prime o delle ultime del Creato; l’aria fredda entrava dai vestiti, il corpo intirizzito stendeva i passi, il fiato, appena uscito dalla bocca, si annuvolava. Si preannunciava l’inverno.
Andai a chiamare il vecchio Gero su ordine del Capitano. Gli venne chiesta la carrozza in suo possesso, avrebbe dovuto portare i carabinieri vestiti da cacciatori dal paese al crocevia, fingendo un trasporto normale. Mi proposi come accompagnatore, per dar manforte alla messinscena. Il vecchio alzò le spalle e acconsentì senza pensarci troppo.
Scendemmo dal paese verso il quadrivio di Madonna delle Querce. Osservai il sole, cercai di indovinare la posizione della banda mentre nello stesso momento altri drappelli convergevano nel punto designato, venendo giù dai paesi intorno, pronti allo scontro armato.
La carrozza scaricò il manipolo a qualche chilometro. Ci dettero ordini precisi.
«Se non torniamo tra mezz’ora, riprendete la via del paese».
Sparirono alla vista, io e Gero rimanemmo in attesa. Trascorse qualche minuto, poi smontai da cassetta e mi avviai per il bosco, prendendolo alla larga. Il vecchio Gero cercò di fermarmi ma gli fu impossibile. Il suo grido mi rimbalzò sulla schiena.
Mi ficcai nel bosco.
La luce del sole, entrando di lato, fiammeggiava le foglie che un vento smuoveva appena; parevano scaglie illuminate da un incendio poco lontano.
Mi avvicinai al fiume e fermai il passo. Calmai il respiro, spalancando gli occhi a ogni ombra sospetta. A quel punto sentii gli spari in lontananza. Si susseguirono delle mitragliate, colpi secchi che invasero l’aria. Il volo degli uccelli spaventati scosse ulteriormente la pace del bosco. Chi poteva, a quel punto, fuggiva inseguito.
Dopo poco tempo un grumo nero diede una spallata a una quercia e con passo pesante mi si fece davanti. Il Caprolatto fece mezzo respiro, alzó lo sguardo a fatica. Aveva cercato di fuggire verso il fiume e ne aveva seguito il corso.
Qualunque cosa avesse da dire gli si era diluita nel fiotto di sangue che sputò a terra. Strinse la pistola. Vidi l’occhio nero del revolver. Ebbi paura, mi sentii uno stupido e di colpo pensai che quella sarebbe stata l’ultima sensazione che avrei provato in vita mia.
Il Caprolatto alzò in aria la canna, fece scivolare l’impugnatura sul palmo, mi porse l’arma col braccio teso. C’era qualcosa nel suo sguardo che mi diceva: prendila. Allungai la mano e appena sentii il calcio nel palmo strinsi le dita. Poi l’uomo si sedette come ci fosse una diligenza in ritardo, rimase lì con la faccia in sospeso e attese la fine.
Quando cadde a terra, nemmeno mezzo minuto dopo, su un ramo che si allungava orizzontale come il braccio di una croce ci si posò un colombo dal collare, che non restò troppo in vista, emise un cupo uhuh e colse un refolo per volare subito via, quasi che quello spettacolo non lo interessasse nemmeno un poco. La luce negli occhi del Caprolatto si spense come se qualcuno ci avesse soffiato sopra. Non aveva più intelligenza o ferocia addosso, ma solo tutte le banali evidenze della morte.
A quel punto lasciai scivolare il revolver a terra e tornai di corsa alla carrozza.
Lo trovarono poco dopo e lo riportarono dove erano caduti gli altri.
Mi chiesi a lungo perché avessero richiesto quelle provviste, ben sapendo che le probabilità che qualcuno parlasse e li esponesse fosse alta. Volevano una sparatoria? L’hanno avuta. I fratelli Alberti avevano appena finito di spezzare dei rami per liberare la linea di tiro, conclusa la fatica avevano avuto modo di aprire i fiaschi e festeggiare. Notando movimenti più che sospetti, erano scattati in piedi pronti al fuoco ma i carabinieri avevano già mirato e colpito, uno a un occhio ed era stramazzato a terra già morto, mentre l’altro, dopo una breve fuga, centrato al polmone destro, ci aveva messo qualche minuto in più a morire. Il Caprolatto aveva risposto più a lungo, il tempo necessario a capire d’essere accerchiato, per poi involarsi verso il fiume.
I corpi vennero riuniti. Il Capitano predispose la fotografia di rito, issarono i tre cadaveri legati, il Caprolatto a un albero, i due fratelli a una scala. Dal paese vennero in massa a vedere lo spettacolo finale dei briganti, tutti e tre con un’espressione beffarda sul volto, eternati in un sorriso adolescente.
Chelli si fece vedere come un condottiero vincitore, come il San Giorgio vincente sul drago aveva schiacciato col piede le tre teste della bestia. Qualcuno gli fece i complimenti.
A fine giornata, riportarono al paese i corpi, coperti appena da un panno di lino grezzo.
Li esposero ancora al cimitero, poi scavarono una fossa e ce li gettarono senza cassa, vicino alla tomba di una donna morta trent’anni prima.

Cinque
Il Caprolatto fu il primo morto che vidi in vita mia, seguìto a breve dai due fratelli Alberti. Qualche anno dopo fu il turno di mio padre. Poi ci fu la guerra, e il conto l’ho perso.
Quando è morto mio padre, ho creduto di essermi liberato dal laccio che ti lega alla specie, al paese, alle facce che abitano i tuoi ricordi. Allora sono partito, senza lasciarmi alle spalle debiti né crediti: è solo in forza di un equilibrio di bilancio che si può davvero dire addio alle cose.
Quindi ho stretto tra i denti la vita. Adesso che l’ho masticata abbastanza, sono pronto a sputarla via, srotolarla davanti al naso per capirci qualcosa, per leggerci dentro e scoprire che scherzo è stata. L’ho attraversata a passi lunghi, serbando in me quella forza senza nome che mi è rimasta attaccata dentro. Questa rabbia è la cosa che mi ha separato da loro, da tutti. Eppure non ho imbracciato il fucile, non ho dichiarato guerra al mondo. Non l’ho gridata nemmeno ai quattro venti. L’ho tenuta dentro, come la parte più sincera di me, custodita all’ombra come un tesoro di neve.
Sono stato in mezzo alla gente, fatto tesoro del mio talento, l’unica vera eredità di mio padre, e ho fatto carriera. La guerra l’ho passata attaccato all’apparecchio, miglior soldato del Terzo Genio telegrafisti.
Ho capito quanto mio padre avesse ragione, e come ce l’avessero i briganti, o Majella, o addirittura il Cavaliere. Mi ha spesso sorpreso il pensiero che tutti hanno ragione, e per quanto nella vita si affondino le dita, per quanto si gridi al mondo È roba mia, quella rimane un gioco a somma zero.
La rabbia si è allora trasformata con gli anni, è diventata inquietudine, quindi rassegnazione. Ma mai a nessuno l’ho confessata, perché ciò che serbi in cuore è davvero roba solo tua.
Confessalo al tuo assassino, se si fa abbastanza vicino per colpirti, al cuscino in cui sfebbrerai la vita, ma non lo dire mai a voce alta, non lo offrire mai all’orecchio dell’amico, al petto della moglie dove ti sdrai la notte e sotto cui pensi e ti illudi battere il cuore al ritmo del tuo solo nome. Non dirlo, trattieni il fiato.
Sono tutti pronti a tirarti fuori quello che hai dentro per poter scoprire che in piena luce siamo poca cosa. Ma che ci vuoi capire, poi, davvero, della vita di qualcuno? Che sia uomo o bestia, che la sua vita si esaurisca tra le mani nella sua casa di vecchio o che stramazzi a terra per una delle mille possibilità fatali, che sia un corpo tra i corpi d’un cimitero di paese o un nome inciso e pianto sul marmo, quello che puoi dire è che è passata, ecco tutto, come uno sparo in un sacco di farina, esaurito lo scoppio ci si batte le gambe dalla polvere, e chi s’è visto s’è visto. Del resto, le cose sicure sono poche: il serpente perde la pelle, la luna si sbecca e recupera, la vita dell’uomo è una roba scema, una storiella che non insegna nulla e che ci si agiti e protesti o chini il capo, essa finisce per tutti, prima o poi, sbalorditi o meno, senza neanche troppi avvisi.

Minima&moralia è una rivista online nata nel 2009. Nel nostro spazio indipendente coesistono letteratura, teatro, arti, politica, interventi su esteri e ambiente

ebbravo