Una specie di apprendistato

di Marco Cassini

Era una specie di apprendistato il mio, un tirocinio muto, travestito da voglia di fare l’editore, ma sopra ogni cosa era desiderio di conoscerlo, di stargli vicino, farmi apprezzare in qualche modo minuscolo da lui, mentre succhiavo da quelle tarde mattinate con davanti il mondo, oltre la terrazza piantata dentro Roma ma al tempo stesso utopica, aneddoti conoscenza simpatia epidermica eleganza ancestrale titoli opere sapere; se ci provo non riesco a ricordare il giorno in cui ci siamo conosciuti, forse fu a Capri nel 1995 alla festa per l’uscita di un libro di Laura Lilli che avevo pubblicato, il mio quarto o quinto libro da editore, incontro a cui seguì una visita alla sua villa incredibile di Capri e poi altri ne seguirono a Roma, visite continue che a me parevano portargli un sottile indicibile piacere ma che invece chissà gli saranno sembrate petulanti, visite al suo attico di piazza Grazioli, lui in giacca da camera, un’espressione e un capo che sanno già di antico, che si sedeva sul divano e mi faceva accomodare dal lato dell’orecchio buono, che l’altro, si giustificava sempre, non gli funzionava più da quella volta che durante un’immersione, visite che culminarono in un’intervista che gli feci e che portai a Goffredo Fofi, prima che esistesse Lo Straniero che orgogliosamente avrei pubblicato per i suoi primi due anni, quando c’era ancora Linea d’ombra, io avevo un terzo dei suoi anni, con questa constatazione iniziava l’intervista, lui settacinque e io venticinque, e dicevo in quell’incipit che lo consideravo il più importante narratore italiano vivente anche se aveva scritto solo una manciata di romanzi, e lui che in quell’intervista o chissà nelle conversazioni a latere dell’intervista si rammaricava di “aver perso tempo a vivere” lasciando meno spazio alla scrittura e diceva che però adesso si sarebbe messo a scrivere di più, a scrivere sempre, avrebbe avuto fretta frenesia fregola (impazienza) ora che aveva meno necessità di vivere e più di raccontare, e così avrebbe fatto, pubblicando in effetti qualcosa di nuovo ogni anno, libri agili, libri di riflessione, di critica al presente o di memoria, di sguardo, di descrizione mai puramente narrativi, come volendo lasciarci in attesa di un nuovo romanzo (parola da pronunciare come faceva lui, con una zeta anch’essa sorda, da quella volta che durante un’immersione), visite di apprendistato che portarono a strappargli la promessa di pubblicare una sua autobiografia letteraria per la mia piccola casa editrice di allora, un librino che si formava e nel formarsi dava vita e ragione a ulteriori visite perché l’accordo era che terminato ogni capitolo nuovo mi avrebbe chiamato la sera e io sarei andato a recuperare (mai prima delle undici del mattino successivo, per la sacra abitudine di dormire fino a tardi) dalle sue mani il testo, che a volte era dattiloscritto – con l’Olivetti che troneggiava sullo scrittoio, altro termine desueto ma assai consono all’abitazione in cui avvenivano gli incontri e le consegne, scrittoio circondato da pareti traboccanti di libri con l’unica collezione completa dei Meridiani che abbia visto in vita mia – ma che più spesso rendeva reale quella parola metaforica che tuttora si usa in editoria per descrivere un testo non ancora pubblicato e che chiamiamo manoscritto, come questi suoi capitoli che mi porgeva, con lo sguardo orgoglioso e vispo di attempato ragazzino che sa di aver fatto un compito buono, subito dopo che ero entrato in casa quando, invitato ad attendere in salotto passavo prima a salutare Ilaria, quasi sempre in procinto di uscire e che sembrava giustificarsi dei suoi impegni con un rapido “vi lascio soli”, e che per qualche motivo (non avendola conosciuta se non attraverso, immagino, un mio racconto familiare) mi chiedeva ogni volta “come sta la mamma” in forma non interrogativa e io che una sola volta avevo incontrato di sfuggita la figlia nel vano d’ingresso potevo ora chiedere restitutorio “come sta Alexandra?” con la cadenza interrogativa che per una cortesia zelighiana sfumavo in speculare asserzione, e una sera in cui lei doveva partire per la casa di campagna, per un’urgenza legata alle piante di ulivo se non erro, dopo averla accompagnata alla macchina che l’aspettava in piazza e averle sistemato il bagaglio nel cofano, ci lasciò soli ma stavolta con l’apprensione di una mamma che si separa dai figli adolescenti, dandoci istruzioni per la cena, dove trovare gli ingredienti, le stoviglie, spiegando a me più che a lui nell’evidenza che lui nei confini territoriali della cucina non aveva mai messo piede o se l’aveva fatto non sapesse come muoversi in terra straniera e difatti quella sera, che ricordo dedicammo alla lettura e successiva dettatura di un nuovo capitolo (per praticità gli suggerii di poter dattiloscrivere, anziché a macchina, il nuovo capitolo direttamente sul mio computer portatile), quando si fece ora di cena cercò la mia complicità nel propormi “e se ce ne andiamo a mangiarci una bella pizza?” e con mia sorpresa condusse noi due napoletani-a-Roma a mangiarla in un ristorante toscano, Il buco, il più vicino a casa, consolandosi con la simpatia del personale e l’arietta estiva di una città deserta, e rammaricandosi di non ricordare più il sapore della vera pizza napoletana, e insomma non so quanti altri capitoli seguirono a quello ma alla fine il librino fu compiuto, e poi fu impaginato e poi furono corrette le bozze e poi fu mandato in stampa e da allora ebbe felicemente più vite, diverse edizioni sempre aggiornate, per correre dietro alla sua bibliografia crescente, si chiamò L’apprendista scrittore nel 1996, poi Cinquant’anni di false partenze nel 2002 per celebrare il mezzo secolo dal suo esordio con Un giorno d’impazienza, edizione che offrì a sua volta l’opportunità di organizzare quell’anno una memorabile serata al Teatro Argentina di Roma in celebrazione del suo compleanno intitolata Ottant’anni di false partenze a cui parteciparono in tanti sul palco ­– in primis nel suo nome cessarono le ostilità al centro delle quali si dibatteva allora il Teatro di Roma e riuscimmo a far sedere sul proscenio tanto il direttore uscente Mario Martone, che da un anno non rientrava più al teatro, quanto il neoeletto Giorgio Albertazzi – e con molteplici interventi spontanei, a sorpresa, dalla platea (dove sedevano Francesco Rosi e Giuseppe Patroni Griffi, Luciano De Crescenzo e Lina Wermuller), librino che poi ancora si sarebbe chiamato Novant’anni d’impazienza quando dieci anni dopo e dieci anni fa raggiunse quel traguardo, e ogni edizione a distanza di pochi anni si riempiva di pagine nuove perché la scansione che avevamo deciso, in quegli incontri di mio apprendistato e della sua età tripla della mia, era “un capitolo per ogni libro che ho scritto” e quindi se ce n’era appena uno a decennio per il periodo in cui era occupato a vivere (1952, 1961, 1973 recita litanioso l’incipit della sua bibliografia) le opere e i giorni si sarebbero poi inseguite, acciuffandosi al ritmo di un libro l’anno in tutto il ventunesimo secolo, e in questo ventunesimo secolo, più o meno un anno fa è stata l’ultima volta l’ho chiamato da Napoli, io coi piedi a mollo nel mare in uno spicchio di Tirreno da cui si vede Palazzo Donn’Anna davanti al cui portone poco prima ero passato – gustando una monoporzione di Danubio dell’attiguo Bar Moccia, la mia madeleine familiare che è meno proustiana e più desimoniana, Matalena Matalena chi ’a vo’ vergine e chi prena – a controllare i nomi sul citofono trovandoci davvero un Cacciapuoti come quel Guidino leggendario tra i leggendari personaggi del suo libro che ho letto tante volte e tante volte regalato, ogni volta che trovo una copia della prima edizione Bompiani del 1961 con la copertina rigida e i pesci mitici preistorici fossili su fondo scuro ne compro una, non ne ho mai meno di un esemplare a casa perché è il libro da regalare a persone a cui vuoi bene, una è nella casa napoletana dalla cui spiaggia si vede il palazzo di Massimo, sempre – entrambi, il personaggio-persona e il palazzo con la sua prua perennemente diretta verso l’orizzonte – in procinto di lasciare Napoli e dalla cui finestra La Capria ha raccontato di potersi tuffare in acqua, in quel mare che bagna e non bagna Napoli ma che bagnava me in quell’instante mentre dal cellulare lo chiamavo, ti chiamavo ricordando a memoria il numero e ricordandolo senza prefisso, perché quando lo avevo imparato in maniera indelebile non era ancora necessario lo zerosei, chiamandoti come ogni volta Raffaele perché non mi sono mai sentito così intimo da poter accedere al colloquiale Dudù, e vorrei poterti richiamare ora per dirti grazie: grazie per le storie, per le mattine, per quel librino tutto mio, per la vestaglia, per la pizza toscana di quella sera d’agosto, per la vista su Roma, e per la vista sul mare di Capri, per questo lento apprendistato mai portato a compimento ma che con te è iniziato e mi ha condotto a vivere nei libri e per i libri.

 

Aggiungi un commento