Acchiappafantasmi: in viaggio con Giordano Meacci

«Ché si sa, non c’è Moby Dick se nessuno lo scrive. Ma – tristemente, per ottusa limitatezza dello spazio e del tempo cui siamo destinati – non c’è Moby Dick se nessuno lo legge».

Marc Bloch, una volta, a proposito del lavoro dello storico e dell’amicizia ha scritto: «Una parola domina e illumina i nostri studi: comprendere. Non diciamo che il buono storico è senza passioni; ha per lo meno quella di comprendere. Parola, non nascondiamocelo, gravida di difficoltà, ma anche di speranze. Soprattutto, carica di amicizia», frase di grande profondità e di estrema semplicità. Bloch dice che comprendere è una passione, da lì viene il lavoro dello storico. Ho incrociato per la prima volta questa frase riportata in esergo a un libro del professor Ezio Raimondi. Il libro si intitola La voce dei libri ed è edito da Il Mulino. Raimondi è stato docente di letteratura italiana e un meraviglioso studioso della lingua. L’altro esergo di quel libro è di Nabokov, che raccomanda di non violare mai le regole del gioco.

Per una serie di cortocircuiti letterari e affettivi, mi trovo stamattina (che è sabato) a scrivere di Acchiappafantasmi, il nuovo libro di Giordano Meacci, edito da minimum fax, con appoggiati sul tavolo (insieme al testo di Meacci, si capisce) un libro di Ezio Raimondi, un libro di Nabokov, due libri di Anne Carson, due foto di Diego Maradona, una cartolina che riporta la parola più lunga della lingua turca, parola che ha a che fare con il senso più profondo della democrazia, una tazza di caffè appena bevuto. Tutto questo scenario non è uno scenario casuale, anche se alcune cose sarebbero sul mio tavolo qualsiasi cosa io m’apprestassi a scrivere, questo è lo scenario che mi serve (come il mare a Eduardo De Filippo) per raccontare l’Acchiappafantasmi di Meacci.

Sto ascoltando Dylan confidando nel random del lettore. Random. Una metafora evidente della vita come la vivo. “A caso / e con grande trasporto ottuso”. Che crea due versi ma anche parecchi problemi, credetemi.

Ho conosciuto Giordano Meacci diversi anni fa, e l’ho conosciuto per iscritto, leggendolo, dopo l’ho incontrato, e l’ho conosciuto a voce, a gesti – l’unica persona al mondo che credo gesticoli più di me – e quei gesti sono come un circolo, un disegno che accompagna le parole. Ed ecco la storia di Bloch e dell’amicizia – che si badi bene non c’entra nulla col fatto che io e Meacci si sia amici o meno (lo siamo, in ogni caso) – l’amicizia che viene fuori leggendo Meacci è un sentimento di vicinanza che nasce dal modo in cui usa il linguaggio, con cui compone e scompone le parole, riutilizza gli accenti. L’amicizia è un fatto grammaticale, sintattico, di comprensione proprio come scrive Bloch, convincendo perfino Ezio Raimondi.

L’unica arma che abbiamo è il linguaggio (qua sto citando di sicuro ma non ricordo chi, forse Philip Roth, diamolo per buono) e Giordano Meacci lo sa benissimo e comincia il testo scrivendo una cosa bellissima, romantica e importante, questa: «Io vivo per iscritto. Mi spiego. Io vedo le parole solo per iscritto. Non solo mentre scrivo ma anche quando parlo – quando penso […]», un dolcissimo incipit, ma anche un aspetto molto affascinante della vita di chi scrive. Io non so se mi capiti di vedere le parole solo per iscritto, o se mi capiti di vederle, ma capisco molto bene ciò che scrive Meacci, cioè che la forma parola esiste prima di tutto scritta, ancor prima che immaginata, pensata, parlata. Meacci vive al contrario della tradizione orale, pur essendo un grandissimo oratore, Tutto ciò è meraviglioso e incuriosisce, a Meacci le parole appaiono come la scritta in sovrimpressione e quindi – forse – quando le scrive le sta soltanto ricopiando, o traducendo, o comprendendole meglio (di nuovo Bloch). La lingua, la scrittura, la letteratura, il cinema hanno a che fare con l’amicizia. Meacci scrive bene e perciò è amico di tutti noi.

La Bellezza, in qualsiasi momento, mi commuove. E mi sommuove.

Acchiappafantasmi è un piccolo gioiello, è una raccolta di scritti. Racconti, testi teatrali, monologhi, brani pensati per essere letti alla radio – ricordiamo il periodo in cui Meacci ha condotto il programma radiofonico La lingua batte – e poi all’interno, tanta musica, tanto cinema, tanta poesia. Ecco, vorrei dire due parole sulla poesia, dopo aver letto ciò che scrive Meacci di Amelia Rosselli ho pensato di non aver mai letto una critica così luminosa alla scrittura della poeta, e il bello è che non si tratta di un pezzo di critica, si tratta di Giordano Meacci, lo stesso discorso vale per Patrizia Cavalli. Per non parlare del testo che parla di Attilio Bertolucci, oppure la bellezza con cui viene inquadrata la scrittura di Primo Levi, o il cinema di Fellini, gli squarci di Massimo Troisi. Ecco, non mi è mai capitato di aver incontrato Meacci senza che saltasse fuori almeno un inciampo, un rimbalzo su Massimo Troisi. Massimo Troisi è un fatto di comprensione, di amicizia.

Una scoperta il testo su Rosa Balistreri, di cui conoscevo le canzoni ma non la storia, e mi sono commosso un po’. E poi, se davvero vogliamo parlare di cinema, allora dobbiamo leggere Giordano Meacci quando parla di Ettore Scola. Le pagine su (con) Scola sono un veicolo per finire sullo schermo, su quegli schermi, mettersi un attimo accanto a Mastroianni. E Anna Magnani, Totò, Eduardo. Bob Dylan raccontato in un bellissimo monologo. Oppure una storia più intima, di un viaggio a Genova per un concerto di Paolo Conte, un viaggio romantico che la scrittura rende universale, perché leggendo io mi sono messo a canticchiare, purtroppo per chi mi sedeva accanto in treno. Giordano Meacci lascia per ultimo Giordano Bruno e, per puro caso, poche ore aver finito di leggere il libro mi sono trovato a Roma sotto la statua, in un sabato di pioggia fittissima e il fatto che Bruno stesse là inesorabile – a dispetto del tempo e dei tempi – ha fatto sì che nella mia testa cominciasse la scrittura di questo testo.

E c’è questo rigore sospeso, nella sintassi di Pavese, che nei romanzi s’intreccia con un desiderio esasperato di vita, quasi le frasi non riescono a tenere il tempo alla distonia delle speranze quotidiane.

Il libro è composto da una cinquantina di testi ed è un viaggio letterario, sembra di stare sul treno che porta il personaggio di Del Giudice verso Trieste nello Stadio di Wimbledon epperò non abbiamo voglia di scendere, non ancora, non subito. Benigni ha detto di Vincenzo Cerami- un altro fantasma acchiappato in queste pagine – che si mette la mano in tasca e ti tira fuori un temporale, nelle tasche di Meacci ci sono le parole che ne escono già rimate, a volte endecasillabate, di senso già compiuto o da andare a compiersi. Ezio Raimondi scrive «Dialogo e amicizia sono intimamente congiunti» e ci pare un buon modo per andarcene.

 

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