Amiamoci e perite. Per una rivoluzione da camera

di Mariano Croce e Stella Margoni

La sensazione con cui qui si scrive non è delle più piacevoli e sarà bene avvertire chi legge: il tenore affettivo è quello dell’inquietudine. Ché certo di quiete ce n’è poca quando il messaggio di cui si è destinatar* è che si è in trappola e, se non bastasse, la trappola è tale da non prevedere via d’uscita. La dispnea, con tutta evidenza, non è sintomo delle sole malattie ostruttivo-restrittive dei bronchi, o forse lo è, perché in fondo il maschilismo è innanzitutto una patologia respiratoria: satura l’aria al punto da sostituire l’ossigeno e mettersi sulle spalle dell’emoglobina, così da permeare sottile e surrettizio i fitti strati della vita ordinaria, diafano al punto da rendersi invisibile, riparato da cerimoniali che, correttamente officiati, ne nascondono tutta l’arbitrarietà. E tutto questo a dispetto di un messaggio tanto patente, tanto manifesto e sfacciato, che la sua trasmissione non abbisogna di codici decrittati: è scritto sui corpi, si declina in movimenti volontari o meno, in posture e forme del desiderio, sulle copertine di rivista, sui post di Facebook e di Instagram, sulle battute di Twitter.

Se l’abbiamo definito sottile e surrettizio è perché l’abilità del maschilismo sta nel saper rifilare fregature a chiunque vi abbia a che fare: i maschi che si credono dominanti e le donne che ahinoi dominate lo sono davvero, anche in assenza di dominanti credibili. Né maschi né femmine sembrano saper fare a meno dei codici di condotta che il maschilismo raccomanda, dei desideri che stilizza, delle gerarchie che ossifica. L’equa distribuzione degli svantaggi, certo, trova un limite oggettivo, che si incarna nella Storia capital letter e si declina quindi in storie personali e incarnate, se è vero com’è vero che le sperequazioni di genere, in un gioco che tende alla somma zero, è di per sé dotato di tanta evidenza che a buon diritto pensatrici e attiviste, pur capaci d’incavillarsi in capillotomiche dialessi, concordano su un fatto: da che mondo è mondo, si vive in quell’economia binaria e omosociale in cui l’uomo è l’essere umano e la donna è l’Altro, il vuoto di materia muta che solo serve a riflettere l’immagine maschile.

E proprio in questa visione un poco pessimista e sospettosa s’insinua un indicibile dubbio, che rende la vittima due volte tale. Se per ausilio una metafora fosse necessaria, potrebbe invocarsi quella forma sardonica di morte violenta che è l’incaprettamento: la vittima si procura la morte in forza dei movimenti che cercano la sua liberazione. La metafora porta in superficie un contenuto latamente nascosto, un inconfessabile segreto, un fatto tanto scabroso che non a caso desta al primo contatto una secca repulsa: il perno del congegno adescante e ingegnosamente malato dell’economia binaria e omosociale è proprio la donna, questo Altro che, con fantasticherie di autonomia nuova tanto vitali quanto peregrine, s’accomoda nel ruolo tradizionalissimo di oppressa e co-carnefice. La recente aggiornata edizione del libro di Chiara Volpato, Psicosociologia del maschilismo (Laterza 2022) sembra ridestare il dubbio, che varrà la pena sondare con la dovuta cautela.

Il maschilismo, “soggetto irritante”, assume nel libro di Volpato la fisionomia di un tracciato labirintico, unicursale e involuto, apparentemente inestricabile, che concede poche pause e conduce a una meta che sa tanto di punto di partenza: ogni volta che le nostre società occidentali illuminate e progressive sembrano aver trovato il filo che sbastisce la trama machista, il filo finisce per legare loro mani e piedi e le costringe a ripartire daccapo, perché, come in un incubo ricorrente eppure irriconoscibile, rinasce forte sotto altre e mentite spoglie. Per illustrare un punto ebbro di tanta malinconia, Volpato mette a tema il portato storico del maschilismo, il contenuto degli stereotipi di genere, la collusione femminile nella definizione dei ruoli e la malcerta via di fuga.

Guidat* da una sapiente costruzione del discorso, a sua volta sostenuto da incursioni speculative e da studi empirici con tanto di dati, chi legge si muove costeggiando le capricciose dinamiche psicosociali che concorrono al mantenimento delle differenze di genere, sempre tese a stabilire un preciso ordine gerarchico tra i sessi, persino quando ci si sforza di pensarle come neutre – anzi, tanto più intensamente quanto più si tenta di stemperarne la forza divisiva. Questo perché, spiega Volpato con più di qualche cenno alla teoria sociale di Pierre Bourdieu, la lente androcentrica s’impone quale ordine naturale delle cose sin dai primissimi attimi della vita di ciascun*, per insinuarsi nei tiepidi spazi domestici e quindi tra i banchi di scuola, e declina al maschile la competenza, l’autorevolezza, la razionalità, mentre affida al femminile sensibilità, gentilezza e bisogno di protezione (pp. 32-26). Una divisione rigida della grammatica emotiva – per cui il maschio è forte e coraggioso e la donna temperante e comprensiva – che s’incanala poi nei modi in cui si sta al mondo e se ne conquistano le posizioni apicali. E quanto più ci si allontana dallo stereotipo, che trae nutrimento da conferme sociali e pressioni conformistiche, tanto più l’effetto sarà disturbante: se fin dalla nascita, bambine e bambini sono forzosamente descritt* come divers*, e tutta la loro educazione è costruita su una differenza comandata e raccomandata, tale visione dicotomica fa del genere un “principio di visione e di divisione”, rispetto al quale non c’è un “prima” in cui la donna possa essere intesa come diversa dalla sua codifica sociale. La donna è già sempre pigiata su quell’arcobaleno emotivo, e tutto quel che lo eccede è anomalia.

Dinanzi a questa divisione, dotata della presunta atemporalità che sola sa garantire la natura (entità fantasiosa e onnipresente nella visione binaria dei generi), Volpato articola una domanda ricorrente che pure trova sempre la stessa risposta: davvero l’essere maschile ragiona e sente in modi diversi dall’essere femminile? Secondo l’autrice, la risposta – insistentemente affermativa – fa parte del congegno dissimulatorio che il maschilismo sa essere quando vuol presentare come ovvietà tesi che invero soffrono di un costante deficit di giustificazione. Perché nei fatti, “studi recenti e approfonditi ci dicono che le differenze tra uomini e donne su specifici tratti psicologici impallidiscono fino a scomparire di fronte alla variabilità delle differenze individuali all’interno di ciascuna categoria di genere” (p. 24). L’assenza di basi scientifiche a sostegno della distinzione naturale dei generi permette di affermare che le differenze biologiche non si traducono spontaneamente in differenze personologiche e psicologiche, talché si può ben dire che esista una maggiore variabilità all’interno di ciascuna categoria di genere che non tra le due. La chiave della differenza, o supposta tale, poggia dunque sul meccanismo di produzione delle categorie, che, come a più riprese ribadisce l’autrice, sono esito di una costruzione sociale, ovvero un complesso di ritualità, comportamenti ripetuti, giudizi reiterati, che istituiscono, dunque creano, la differenza stabilendo un nesso – tutt’altro che naturale – tra la dotazione biologica e lo spettro di condotte, emozioni e desideri attribuiti ai due generi (che peraltro nell’immaginario sociale sempre due rimangono, al netto della scelta multipla nei sondaggi di mercato).

Questo poderoso marchingegno sociale, spiega Volpato, vessa ambo i generi. Dal canto maschile, la definizione normativa della virilità richiama a uno sforzo prestazionale corredato di censure e cesure: l’adesione a un modello rigido fa del virile, come dice Bourdieu, “il principio di un’immensa vulnerabilità” (p. 48), legato all’ansia del codice di condotta cavalleresco che muta sì nelle forme ma impone la medesima panoplia di valori produttivi di chi porta il pane a casa. La tensione sperimentata per affermare sistematicamente la mascolinità attraverso la rinuncia all’espressione delle emozioni e del dolore svuota l’uomo di un cromatismo emozionale che pure apparterrebbe alla sua grammatica interiore e lo condanna, ex negativo, a una sorta di paura del femminile che è innanzitutto paura di essere non-uomini: “Gli uomini sono molto reattivi di fronte a qualsiasi cosa metta in dubbio la loro mascolinità, fino a mostrarsi aggressivi e a compiere atti ostili per restaurare la loro immagine” (p. 31).

Inevitabilmente, la partita si complica se si volge lo sguardo alla condotta femminile che, facendo proprio il linguaggio del dominante, finisce, come si diceva sopra, per essere, non si sa se con colpa o dolo, coinvolta nel mantenimento dell’economia binaria. Psicosociologia del maschilismo descrive l’acquiescenza del femminile come duplice. Per un verso, un industrioso e perverso “sessismo benevolo” (p. 58) fa della diade dominio-affetto una leva potentissima, capace di ritradurre il tradizionale privilegio maschile in un ancora più sorprendente vantaggio meccanico: il maschilismo assume tratti d’indulgenza, perché promette “di impiegare il potere a vantaggio delle donne”, ma riproduce un quadro di sperequazione, perché il prezzo per la donna è l’accettazione tacita del “controllo sociale maschile” (p. 60). Il sessismo benevolo è una rivoluzione inscenata e cialtrona, che spariglia la divisione perché il suo prodotto risulti immutato: alla donna sia pur concessa una quota più ampia di potere sociale, purché confermi la fede inveterata negli ideali romantici dell’amore e della famiglia e l’adesione spontanea alla figura che questi ideali per lei ritagliano. Per altro verso, l’emancipazione sessuale esalta i contorni di questa “finta parità” (p. 163), là dove rafforza l’immagine del femminile ipersessualizzato, oggetto da contemplare con ancor più brama quando, secondo un fasullo mantra della libera scelta, la donna s’è finalmente affrancata dall’eteronomia del maschio desiderante. Questa libertà di facciata favorisce l’interiorizzazione di uno sguardo sessualizzante maschile, bellamente libero da ogni senso di colpa, fino a tradursi nel sermo generalis dell’auto-oggettivazione (p. 84): l’aspetto fisico e la cura ossessiva del corpo diventano mezzi per procacciarsi visibilità, in una negazione del proprio desiderio, che rinforza un modello subordinato e strumentale di femminilità.

Insomma, al netto della messe di dati e delle teorie sempre nuove, l’esito rimane lo sfiancante destino dell’un passo avanti e due indietro: nella dimensione asfittica di un linguaggio scritto in grafi che riflettono solo l’uomo e saturo di significati che rimandano solo al fallo, per le donne non ci sono parole con cui potersi dire: il loro desiderio, il loro piacere, la loro posizione, persino la loro pretesa autonomia può esprimersi solo entro le maglie strette di una significazione al maschile che restituisce sé stessa e la propria potenza perfino quando è detta da una donna. Non solo quindi la donna non ha un linguaggio, ma è destinata a parlare un linguaggio che la condanna ad una posizione di sempiterna subalternità e che tanto più si rafforza quanto più la donna cerca di utilizzarlo per reclamare la propria autonomia. Quest’uggia si riversa in una conclusione motivatamente dubbiosa, quasi sfiduciata: “Cosa si può allora fare per migliorare la situazione? Per prima cosa bisogna favorire la partecipazione delle donne a tutti i livelli della gestione sociale. Una delle nostre debolezze è stata in questi anni la carenza di elaborazione di soluzioni innovative per i molteplici problemi del vivere comune” (p. 170). Ma non c’è in questo l’eco della trappola labirintica descritta sin qui? Cioè che la donna possa contribuire con le proprie risorse di intelligenza emotiva, costitutivamente diverse da quelle dell’uomo, tramite la redistribuzione, di fatto, di quote di potere? Non era questa soluzione una delle ruote dentate dell’esecrabile marchingegno?

In questa conclusione ritroviamo in fondo il gusto del paradosso, quasi intenzionale, che si trova in posizioni come quella di Bourdieu: per dirsi, la dominata non ha altro fuorché il lessico del dominante, sicché, proprio mentre inventa i termini della propria libertà, irrobustisce le maglie delle sue catene. La soluzione del massimo critico novecentesco è tanto seducente quanto impraticabile: il rovesciamento dell’intero viluppo di condizioni che, assieme, garantiscono l’intangibilità del principio androcentrico, quindi la famiglia, la scuola, il diritto, lo Stato. In breve, serve la rivoluzione. Ma qui di nuovo il paradosso, se è vero com’è vero che la Storia capital letter abbonda di intenti liberatori convertiti presto in massimalismi conservativi. C’è poco da sperare, dunque? Chi scrive, in limine, vuol dare solo un piccolo supporto ossigenativo, che potrà forse risultare ingenuo, ma che ha ancora da essere testato appieno: la differenza di genere può essere forse perequata rinunciando al genere. Questa la scommessa del pensiero queer, che nasce proprio dallo scacco registrato da ogni rivoluzione – sociale e sessuale – e che prova a farsi richiamo a un’esitanza che, sempre secondo l’ipotesi, attraversa chiunque: siamo così cert* di desiderare, sempre e immancabilmente, quello che il nostro genere comanda e raccomanda? Se così non è, abbia inizio la rivoluzione – una rivoluzione da camera, forse, e da camera da letto, ma che fa meno morti e non si fa carico di nuove inutili guerre.

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