Case fatte di finestre. Le ombre bianche di Dominique Fortier
di Antonio Esposito
Le ombre bianche (Alter ego, trad. Camilla Diez) di Dominique Fortier si apre con Lavinia, sorella di Emily Dickinson, che pettina i capelli della scrittrice ormai passata a miglior vita. L’immagine ha qualcosa di liturgico: il corpo sembra quello di una ragazza giovane ma con qualche capello bianco, vestita di abiti bianchi, «dimostra trentacinque anni al massimo – la morte l’ha ringiovanita» dice Fortier. La sorella è premurosa, osserva il viso, nota che la bocca è chiusa e che di quel corpo morto ancora non si notano le ossa. Poi Lavinia si alza, e allontana dal letto della scrittrice la Bibbia. Emily non avrà più bisogno di leggere da ora. Le parole, la parola, sul piano simbolico è allontanata. Inizia qui ciò che accade dopo la scrittura.
Per scrivere il primo romanzo dedicato alla vita e l’opera di Emily Dickinson Dominique Fortier dichiarava di aver letto raccolte di poesie, lettere, saggi, consultato siti, visionato centinaia di foto di Homestead, dei vicini Evergreens e della città di Amherst ai tempi della scrittrice. La raccolta di materiali, in quel caso, era andata a formare una vera e propria città di carta – quella del titolo, appunto – capace di proiettare fino a noi l’ombra di Dickinson, della sua sfuggente esistenza. Avveniva in quel romanzo qualcosa che poi Fortier avrebbe meglio definito – rivolgendosi a sé stessa – in un’altra opera, E tutto intorno il mare, cioè il tentativo di scovare, attraverso la scrittura, le tracce di un’esistenza: i segni vitali, gli slanci, le cadute di chi «è capace di consolare, cullare, allattare, coccolare, cantare, rassicurare, nutrire e accudire».
In Le ombre bianche avviene un ulteriore scarto. Dominique Fortier è assente, tutta la narrazione è rivolta al passato. Ma se è vero, come ha detto qualcuno, che le ombre pur non essendo verità, derivano dalla verità e portano alla verità, allo stesso modo l’opera di Emily Dickinson ci lascia traccia di altre esistenze, quelle intorno a sé, in particolare quelle che hanno circondato la sua vita: la sorella Lavinia; la sua migliore amica e cognata Susan, moglie di Austin Dickinson; Mabel, amante di Austin; Millicent, la figlia di Mabel. Insieme, e con ruoli diversi, queste donne contribuirono a mettere in ordine le centinaia di testi che alla morte, nel 1886, Emily aveva lasciato scarabocchiati su foglietti vari, e si impegnarono a diffonderne l’opera. Eppure, se nel caso della scrittrice qualche testimonianza indiretta c’era, le vite qui riportate da Domnique Fortier hanno tutt’altro spirito. Le questioni tirate in ballo sono altre, hanno a che fare col mistero di versi a tratti incompresi, con le pause, i verbi, la punteggiatura. Su queste vite ricade il peso di un vissuto non proprio e una responsabilità che, vista a posteriori, sembra dettare le sorti della letteratura arrivata ai giorni nostri.
Parlando del proprio lavoro, in un’intervista per un giornale canadese Fortier ha dichiarato: «Scrivo per rallentarmi, per essere consapevole di ciò che mi circonda». L’andamento che l’autrice affida alla scrittura, nella sua produzione narrativa passa spesso per l’ossessione verso la parola scritta, da scavare, analizzare, isolare. Il senso delle singole parole nei suoi romanzi è costantemente indagato, come se i simboli sulla carta fossero inafferrabili, inaccessibili. Le parole vengono rilette, risemantizzate, sono al centro delle vite di tutti. I personaggi di Le ombre bianche, ad esempio, leggono e rileggono Emily come se non l’avessero mai conosciuta: le sue lettere, le sue poesie, d’improvviso mettono da parte l’esistenza di quella donna misteriosa per far posto a significati che risulterebbero incomprensibili se non trascritti. Il titolo stesso, “ombre bianche”, è l’immagine per descrivere questa sensazione d’impotenza che l’autrice prova di fronte al testo scritto: «Quelle poesie sono ombre bianche» scrive, «testi intessuti nei silenzi tra le parole, sono una casa fatta di finestre». La parola che è alternativa al silenzio è anche finestra, spazio, squarcio per guardare dentro.
Con Le ombre bianche Dominique Fortier conclude il discorso avviato con Le città di carta: l’opera in vita e in morte di Emily Dickinson. Ma c’è altro. In questi due libri l’autrice genera forte tensione tra narrativa testimoniale e approccio esegetico. La scrittura, materialmente riportata su carta, foglietti, diari, è allo stesso tempo materia e prova di una vita vissuta e occhio sull’invisibile, l’insondabile, di quell’esistenza di cui è spettatrice. Non c’è un percorso tracciabile, né modo per riconoscere i misteriosi meccanismi che trasformano la vita in letteratura.
Ciò che ancora una volta Fortier prova a raccontarci è il tentativo di rallentare il passo, prendere coscienza di ciò che ci circonda, sbirciare in quelle case fatte di finestre che sono le opere letterarie e tentare di definire noi stessi attraverso l’esercizio dello sguardo.