Chi è il mostro? A proposito del romanzo d’esordio di Alessandro Ceccherini

di Danilo Soscia

Le cronache intorno ai fatti del ‘Mostro di Firenze’ si presentano come una galassia lacunosa. Accanto a zone di luce si spalancano voragini buie. In questa oscurità residua è pressoché impossibile scorgere qualcosa di netto. È uno specchio nero in cui si riflette la nostra non-conoscenza, tutto quello che non possiamo dire, poiché le parole – in quel vuoto – non hanno un referente. Capita così quando si fa i conti con verità parziali, con il tempo che passa, ma soprattutto con la difficoltà di afferrare fino in fondo l’oggetto della propria narrazione. Tra i numerosi meriti del romanzo d’esordio di Alessandro Ceccherini, dall’emblematico titolo ‘Il mostro’ (Nottetempo), vi è proprio quello di trasformare tale smarrimento in una vera e propria mise-en-scène. La ricostruzione del paesaggio dietro e intorno ai protagonisti dell’epopea nera legata ai fatti del ‘Mostro di Firenze’ è il frutto di un lavoro documentale acuto e profondissimo. Ma la struttura storica così ben ordita è solo il pretesto, l’alibi, il guscio di un nucleo magmatico e irriducibile. Alessandro Ceccherini si cala infatti dentro uno dei buchi neri che costellano il suo cielo, e si mette in ascolto non tanto dei residui di memoria che il tempo gli concede, bensì di se stesso. E lo fa compiendo l’opera più difficile e antica: l’immedesimazione.

Scendere negli abissi per imparare a pronunciare ‘quella’ voce è un atto iniziatico, una vera e propria impresa. Perché la voce, appunto, è il sintomo conclamato di un processo che affonda le sue radici nel tentativo di assimilarsi al proprio opposto mostruoso, di condividere con esso le ragioni, la formazione, la storia personale. Assumere un grammo di quella velenosa sostanza significa mangiare un poco del proprio nemico per comprenderne i pensieri. Odisseo ascolta il canto delle sirene perché lo vuole imitare, perché ne vuole sussumere il potere e poi dimenticarlo per sempre, e in questo è antesignano – primo grande narratore di se stesso – di ogni scrittore di storie.

Allo stesso modo, imparare la lingua del mostro per Ceccherini è un viatico utile a illuminare le ombre che restano. Ecco allora che davanti a una saga così feroce che tutti noi – chi più chi meno – abbiamo conosciuto nei dettagli macabri, nelle incongruenze emerse durante il percorso investigativo e processuale, ci troviamo davanti a un bivio: lasciarci sedurre dalla forza oscura di ogni lacuna, oppure provare a riempirla con l’invenzione. La storia è l’intreccio di due verità. Da una parte quella che viene dalla restaurazione accorta dei fatti, degli eventi intercorsi e della loro quantificazione; dall’altra, quella edificata di prima mano da chi quei fatti li racconta. Si giunge infine a un tale livello di rarefazione per cui diventa difficile, se non impossibile, distinguere realtà da invenzione, perché l’una partecipa della sostanza dell’altra, l’una illumina l’oscurità dell’altra. E tuttavia Alessandro Ceccherini non si lascia sedurre dalla facile retorica della discesa agli inferi. Nessun compiacimento, nessuna ricerca dell’effetto macabro e del suo côté moralistico. Al contrario il suo modo di rifare la voce dei mostri che abitano la sua ricostruzione conserva l’angoscia irrimediabile per quello che l’uomo può ancora essere, nonostante secoli di evoluzione sociale e culturale. È come se la sua esperienza indiretta degli eventi che hanno composto il mosaico del Mostro di Firenze, lo conducesse a un punto di non ritorno, ovvero all’origine di tutto, quando l’uomo non aveva coscienza di sé ma solo del male che poteva arrecare a un altro uomo, quando la cieca sopraffazione era l’unica regola, e il corpo di ciascuno solo un ricettacolo di trofei. E a questo punto ecco la domanda di cui si percepisce distintamente l’eco sin dalle prime righe del romanzo: chi è il mostro?

Il mostro per definizione non è un soggetto univoco. Non è un’espressione individuale, né tanto meno la mostruosità è il sintomo di una condizione che appartiene a un singolo. Il mostro è invece un fenomeno collettivo; è un evento che completa il senso di un’epoca, quindi un’entità che si espande nello spazio e nel tempo. Allo stesso modo il mostro, nel suo proprio nome, anticipa: monstrum, da monere, ovvero ammonire, avvisare, dire prima degli altri. Dire cosa? È questa la seconda domanda, il secondo fuoco dell’iperbole tracciata da Ceccherini. La risposta giunge – quando giunge – dall’opera di completamento che la lettura e l’interpretazione di un testo riescono a compiere. Le figure in chiaro e quelle in oscurità che compongono il teatro macabro del romanzo si stagliano contro un quadro epocale cui l’autore riesce a conferire la lucentezza di una lama. Ecco allora che la condizione quasi profetica del mostro, quel suo anticipare per figure il senso di un’epoca, diventa la chiave per intravedere una risposta alla domanda: chi è il mostro?

Pacciani, Vanni, Lotti e gli altri ben noti alle cronache non sono l’unico segmento di questo coro nero. Molti altri vi hanno fatto parte, ma non si vedono né si mostrano. Fanno capolino con le loro fisionomie indistinguibili, osservano da lontano, agiscono per conto terzi. Ci sono le ombre e ci sono gli spettatori, ovvero coloro che hanno dato sostanza al coagularsi di una verità ufficiale, ma non necessariamente univoca. Una frase chiave del testo suggerisce una tra le molte possibili interpretazioni. Un’affermazione lasca, quasi distratta, ma che rimane accesa come un faro visto dai marosi. La pronuncia uno dei protagonisti, uno dei pochi che ha il coraggio di usare la parola ‘rito’: <<Di certo, se un rituale c’è stato, ne abbiamo fatto parte tutti>>. Rispondere alla domanda <<chi è il mostro?>>, adesso, è un po’ più facile.

 

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