di Paolo Landi

Maria Teresa Carbone pubblica da Aragno (ottobre 2020, nella collana “I domani”) un libro di 68 pagine, Calendiario. All’interno il titolo diventa calendiario 2004-2020 informandoci quindi che i testi che leggeremo sono (presumibilmente) stati scritti in un arco di sedici anni. Il titolo allude al sistema di calcolo cronologico che usiamo per la nostra lista di eventi stabiliti o pianificati in maniera dettagliata ed è infatti la quotidianità, i giorni e la vita che consumiamo, a dare un bel ritmo lento e suadente da Besame mucho (evocato a pagina 66 “la terra eppur si muove e noi balliamo / stretti come se fosse / esta noche la ùltima vez”) a questa raccolta così moderna senza essere “sperimentale”.

I trabocchetti che la poesia tende ai poeti, ma anche ai recensori dei poeti, sono insidiosi: chissà perché, quando si scrivono versi (o quando si recensisce il lavoro di un poeta) si tende a rendere aulico il racconto e lo stile deve innalzarsi con un linguaggio, come diceva Dante, “degno di risonare nella reggia”. La poesia deve sempre avere la “p” maiuscola, secondo la vulgata la cui fortuna non accenna a diminuire, e i poeti e i recensori fanno in genere a gara a chi è più nobile, intellettualmente elevato, “forbìto” (dio non voglia). La poesia fa più fatica dell’arte, del cinema, della musica ad emanciparsi dalle leggi vuote della retorica: sembra che il poeta contemporaneo quando si mette a scrivere, non si predisponga a raccontare una storia, seppur in forma aforistica o ritmica, come fanno i registi o i narratori e come fa perfino certa musica contemporanea (c’è già una differenza tra rapper e trapper, tra lo scandire le rime del rapper in un modo più “classico” e l’attrezzatura rudimentale del trapper, un poeta più connesso con la vita vera, di cui conosce le trappole, da qui l’etimologia). Il poeta di oggi è sempre preoccupato di farci sapere come sta, e cosa prova. E insopportabile ci sembra, sempre nella poesia contemporanea, l’uso indiscriminato di metafore, che vorrebbe spiazzare e invece irrita perché quasi sempre astruso. Lo sperimentalismo poi, è spesso un alibi per chi non sa fare un endecasillibo decente. Ci sembra perciò un monumento alla poesia più bella, non ancora scalfito da nessuno, La camera da letto di Attilio Bertolucci (1988).

Il libro di Maria Teresa Carbone conforta perché sfugge alla fastidiosa “solennità” di tanta poesia e appartiene di diritto alle raccolte migliori, quelle italiane delle due Patrizie, Cavalli e Valduga, o quella, se proprio si vuole citare un riferimento altissimo, di Wislawa Szymborska. calendiario inizia con un riferimento autobiografico, che però può cogliere soltanto chi conosce di persona Maria Teresa: “c’è una stanchezza del crescere / che ai grandi spesso sfugge / anche a quelli di bassa statura / (forse a loro più che agli altri”, pag. 7). Maria Teresa è infatti, fisicamente, una proporzionata miniatura, con i capelli biondi e lunghi. Questo autobiografismo come incipit stabilisce subito un patto di sincerità con se stessa (ma anche con me, lettore, e forse solo con me, perché io la conosco), come se partisse da lì – dalla battaglia vinta per non mettersi (quasi) mai scarpe con il tacco – il flusso della vita. Che, per fortuna, non è solo stanchezza e fatica di accettarsi (“opporsi alla fatica che fatica”, pag. 66) ma è appunto un flusso, una sequenza come il google calendar delle nostre giornate ci ricorda. Siamo intelligenti e stupidi, ridiamo e piangiamo, gli attimi di buonumore e di sconforto si succedono in una stessa giornata, facendo della nostra vita quella meravigliosa incognita che è (“che sorpresa sarebbe sognarmi un giorno / in corsa dietro ai gatti del giardino” pag. 33; “se virginia / avesse avuto figli / si sarebbe uccisa con la testa nel forno?” pag. 26). Non ci sono maiuscole nei versi di Maria Teresa Carbone perché il flusso della vita non ha inizi ingannatori, tutto scorre. L’io del poeta è presente, sempre in relazione agli altri (“siete stati miei me / io vostra voi” pag.11; “vorrei essere te / turista giapponese” pag. 15; “io sono forse solo quando dormo” pag. 42, fino al bellissimo “sulla mappa confusa / di questo tempo mio / manca il puntino rosso / io sono qui / qui e non altrove (io)” pag. 28).

L’amore per la lingua italiana è insidiato dalle parole di plastica (“la lingua plastilina biscia striscia” pag. 63) del conformismo anglofono, “la home dove sempre ritorni / you are here / tu sei qui” pag. 51, “the end la coda della notte” pag. 54, e del gergo whatsapp “t v t b mio amore / tesoro del mio cuore” pag. 61). E una felicità quasi infantile esplode nei giochi di parole, nelle onomatopee “qua qua venite qua bambini / fuori piove voi sotto la cappa” pag. 55; “formaggio cacio calcio ciocco sciocco” pag. 63; “il suono ostile / la gl di figlia e di famiglia / di griglia di scoglio e di coglioni” pag. 39). Reminiscenze liceali dantesche “chiara e onesta ci appare” pag. 53, “tanto pulita e pura pare” pag. 67, felici invenzioni “tiramisù ti prego” pag. 57, “cose-clitoride che annusi tocchi e lecchi” pag. 46, “donnanimale scalda” pag. 51, “il dito-penna”, pag 45, “il dito bambino” pag 53: i versi di Maria Teresa Carbone sono una continua sorpresa linguistica, dove perfino alcuni luoghi comuni servono per sorridere “sopra la panca cerca di campare… nasconde la testa nel guscio / come quando fuori piove” pag. 65, “per fortuna tu dici il nuovo avanza”, pag. 57.

Il libro, direbbe il critico pigro, è “impreziosito” da dodici immagini realizzate da lei stessa. Forse non erano necessarie: Maria Teresa ha un profilo Instagram così efficace e Instagram è il luogo principe che esalta le immagini; quelle di Maria Teresa raccontano una città, Roma, che nelle sue foto appare poco metafisica, e invece molto materiale, sempre con una presenza, una luce, una macchina a renderla vera anziché trascendente.

Fare poesia usando un linguaggio empirico invece che metafisico è del resto la sfida che si è data, in un libro dove si preferisce parlare invece che declamare, e “le frattaglie di ricordi e piatti pronti” da congelare nel freezer (pag. 68) farebbero a pugni con i tic del poeta con la “p” maiuscola. Per questo il titolo della seconda parte, Cinque quarti. Esercizi di Cosmogonia quotidiana, rinvia per presunzione a quello che dicevamo prima a proposito degli stereotipi di una poesia che deve sempre alludere al sublime straordinario, perché ha orrore della routine, come se nell’ordinario non potesse esserci, mai, poesia. Mentre sarebbe stato un ottimo esercizio cercarne uno che, facendo un po’ meno filosofia, ci dicesse dove ci conduce quest’ultima parte, nella quale per fortuna non si parla né dell’origine dell’universo né dell’evoluzione dei corpi celesti.

Infatti le sestine che ci accompagnano alla conclusione, rivelano che il titolo roboante era solo ironico, come se “spostarsi da un letto a un altro letto” (pag. 64), cercare “l’oriente nel negozio di fronte” (pag. 67), e le tante attività delle consuetudini quotidiane elencate da Maria Teresa, avessero avuto bisogno di essere introdotte da un’intestazione che sottolineasse il carattere quasi eroico di chi le espleta. Perché, alla fine, il senso vero di questo piccolo e potente libro di poesie sta tutto in quei versi, che la piccola (di statura) Maria Teresa scrive a pagina 40: “a volte sogno di salvare il mondo / che per questo e non altro sono nata… e sogno e mi vergogno di sognare / queste cose di lasciare il mondo non salvato”. Elsa Morante ringrazierebbe.

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