«Non dico niente, perché è un bel po’ che non mi compro qualcosa di nuovo in generale. I miei vestiti hanno già coperto il corpo di qualcun altro. Anche il mio ragazzo prima era sposato. Ogni mia decisione sbagliata ha portato a questo momento, in una stanza piena di cose che non voglio, ad affrontare un uomo da sola».

Per scrivere un racconto breve come si deve bisogna conoscere un segreto. Quel mistero che tenga insieme la capacità di accelerare – tra incipit e ultima parola – tenendo fuori tutto ciò che è superfluo; dall’aggettivo alle descrizioni in eccesso, dal vissuto dei personaggi, dalla strada che li ha portati fino a lì, dove la storia che ha immaginato il narratore comincia. Bisogna saper possedere i silenzi, far parlare gli sguardi, far sì che il personaggio – soltanto muovendosi in una cucina, guidando, o da qualunque parte nel paesaggio – si riveli, ci dica chi è, perché è triste o no, perché la sua esistenza è un fallimento, perché le cose non sono andate come dovevano andare. Chi scrive deve inventare un congegno complesso e, allo stesso tempo, di facile apertura. Una donna guarda di colpo dall’altra parte e io che leggo devo essere in grado di guardarla e vedere ciò che vede, e ciò che non vuol vedere, immaginare quello che vuole dimenticare. La donna volta la testa, il modo in cui lo fa viene dalla tecnica riuscita, con cui chi ha scritto ci costringe a seguirla, a creare un legame con lei, a provare lo stesso desiderio di sparire, lo stesso dolore.

Una volta George Saunders ha scritto: “Durante i corsi di scrittura ero diventato diffidente nei confronti della bellezza letteraria convenzionale, prevenuto nei confronti d quello che avevo ribattezzato il triplo descrittore letterario: «Todd sedeva al tavolo nero, dal ripiano ebano, scuro appoggio per una quantità di piatti e bicchieri, la cui bianca presenza circolare, tondeggiante, si beffava della sua futilità, della sua impotenza, della sua incapacità di agire». Cavolo, pensavo, perché non lo dici e tanti saluti: «Todd sedeva al tavolo». O meglio ancora, taglia anche lì. Che bisogno c’è di sapere che è seduto al tavolo? Informami solo quando Todd fa davvero qualcosa. E sarà meglio che non sia «accostare la tazza alle labbra» o «fermarsi a pensare e lasciarsi pervadere dall’acume di Randy»”. Ecco, nei racconti di Chris Offutt contenuti in Di seconda mano (minimum fax, 2022, trad. Roberto Serrai), i vari Todd sono presenti sulla scena perché fanno davvero qualcosa, e quel qualcosa può essere anche niente, e nessuno o nessuna di loro si lascerebbe mai pervadere dall’acume di una qualunque Randy, o meglio: forse sì ma non lo troveremmo scritto in quel modo.

La sua minuscola casa gli sembrò troppo isolata, e poi gli venne in mente che una donna disposta a sposare un uomo che viveva in un pollaio forse non sarebbe stata la scelta migliore. O forse avrebbe significato che lo amava davvero.

Chris Offutt è un vero maestro del racconto breve, ce ne eravamo innamorati leggendo Nelle terre di nessuno (minimum fax, 2017, sempre tradotto da Serrai), e poi lo abbiamo apprezzato nel passo lungo dei romanzi e del memoir sul padre, ma è nella short story che lo scrittore del Kentucky offre le prove più evidenti del suo talento. Donne e uomini cresciuti sulle colline, luoghi così isolati e distanti – per spazio e tempo – che Lexington sembra New York o Chicago. Posti in cui i rapporti si misurano con domande sulla famiglia e poi a quale ramo di tale famiglia si appartenga, a colpi di pistola; il vicinato è non tra una casa è l’altra, ma tra una collina e l’altra.

Le conoscenze si compiono attraverso i silenzi, e si consumano dopo una fuga, via, verso la città, verso un altro stato, una pianura e case che distino abbastanza dalla baracca in cui si è nati, dal fiume in cui si faceva il bagno o si moriva. Eppure, scappare da una situazione familiare complessa, dalla povertà, da posti in cui le vie sono già segnate può non portare da nessuna parte, ad altri fallimenti. Offutt con questo Di seconda mano pare volerci dire che quando la partenza è troppo complicata, andando avanti o via, si accumulano tanti piccoli disastri, scorie, memorie che poi è difficile scrollarsi di dosso, e allora, per i suoi personaggi, inventa scintille, piccoli bagliori, minuscole epifanie, oggetti o sorrisi ai quali aggrapparsi affinché tutto non precipiti.

Si diresse a ovest, inseguendo la propria ombra proiettata dal sole che sorgeva. Metà della sua vita se ne era andata e voleva che il resto fosse diverso. Le sembrava che ogni decisione che aveva preso fosse stata la migliore possibile sul momento, ma che dopo si fosse dimostrata la peggiore.

Il racconto che apre il libro è un piccolo gioiello narrativo. Una donna che ne ha passate abbastanza, che arriva da chissà quali passati, vive con un uomo divorziato e con la sua bambina. Tenta in tutti i modi di conquistare la fiducia, se non l’affetto della piccola, quasi che solo attraverso il rapporto con la bimba potesse trovare un riscatto minimo, qualcosa che la salvi, che la spinga ad alzarsi dal letto. Piccoli gesti, poche frasi, movimenti, scarti, espressioni sui volti e un grazie messo lì alla fine. Ed è il grazie che pronunceremmo anche noi se avessimo davanti Offutt dopo averlo letto. E così gli altri protagonisti, uomini e donne che si portano addosso cicatrici, cose andate storte, oppure – nel caso di quelli che sembrano sereni – alcune incongruenze, momenti in cui le vite avrebbero potuto svoltare in altra direzione.

Un ragazzo riporta una vecchia signora diventata ricca verso la strada di casa e lei gli insegnerà qualcosa, una coppia apparentemente felice è preda della noia che viene dal non sapersi parlare, ascoltare; nella stessa storia un uomo e un poliziotto si troveranno a parlare della vita in generale, mentre avviene un’eclissi di luna. Una ragazza giovanissima si trova a Lexington a fare i turni in un bar e poi a gareggiare per una sorta di miss maglietta bagnata, in fondo il meglio che possa capitare a chi ha lasciato casa alle spalle. Poco è un passo avanti. Ragazze e ragazzi in attesa di qualcosa che forse non verrà, vecchi che hanno visto passare tanto senza muoversi da casa, e non si sa se abbiano atteso anche loro qualcosa, tra un inverno sulle colline e un’estate sempre troppo calda. In questi racconti tutti offrono qualcosa: un oggetto, un momento di pace, un consiglio, un alloggio, un passaggio; è il modo per provare a dire che andrà tutto bene.

Il paese non mantiene le sue promesse, questo pare dirci lo scrittore americano, non ci prova nemmeno e, a quel punto, chi nasce in luoghi isolati – lontano dalle città, perfino da un ufficio postale, figuriamoci da un treno – non ha molta scelta, procede per tentativi, quasi tutti sbagliati, ma intanto vive e, ogni tanto, magari solo per cinque minuti, pare che vada bene così.

 

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1 commento

  1. Buonasera, ci tengo a ringraziarla per questa bella recensione. Soprattutto per questa frase: “In questi racconti tutti offrono qualcosa: un oggetto, un momento di pace, un consiglio, un alloggio, un passaggio; è il modo per provare a dire che andrà tutto bene”. Mi ha offerto uno spunto di riflessione ulteriore su questi racconti al quale adesso, trascorsi alcuni mesi dal lavoro su questi testi, posso dare il peso che merita (e non pensare solo alle “cose andate storte” e alle “incongruenze” che pure io, come questi personaggi, mi porto dentro e dietro). Grazie, dunque, R.S.

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giannimontieri@minimaetmoralia.it

Gianni Montieri, è nato a Giugliano in provincia di Napoli. Scrive per Doppiozero, minima&moralia, Esquire Italia, Huffpost e il manifesto, tra le altre. Prova a incrociare la letteratura con lo sport per L’ultimo uomo, Rivista Undici. I suoi libri di poesia più recenti sono Ampi margini (2022) e Le cose imperfette, editi da Liberaria. Ha pubblicato per 66thand2nd due titoli Il Napoli e la terza stagioneAndrés Iniesta, come una danza. Vive a Venezia. Altre info qui: https://giannimontieri.wordpress.com/biografia/

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