“Dovunque acqua sia voce”, le metamorfosi dell’io

Pubblichiamo un pezzo uscito su Robinson, l’inserto culturale di Repubblica, che ringraziamo.

di Alberto Manguel

Siamo esseri esperienziali e cerchiamo di restituire l’esperienza a noi stessi e agli altri tramite le parole. E qui sta il paradosso: l’esperienza è precisa, complessa, multiforme, polisemica, ineffabile. Le parole sono deboli, incerte, evanescenti, effimere, imprecise. Entrambe somigliano all’acqua, l’una per la sua innegabile presenza, le altre perché imprendibili. Domenico Brancale ne conviene: «Il libro dell’acqua è trasparente. Non si legge. Si beve tutto d’un fiato».

Brancale è un poeta che ha a suo attivo un numero considerevole di libri, nonché collaborazioni e curatele nell’ambito delle arti visive. Poetare, associare parole a immagini, recitare, sono tutte componenti dell’esperienza creativa di Brancale.

L’esperienza, per Brancale, si compie nell’atto di assorbire, ingerire, ciò che si sperimenta. Ma per dar nome a questo privilegio, Brancale deve necessariamente ricorrere alle parole. Eppure, poiché queste parole (tutte le parole) variano in continuazione, il significato muta come la pelle di un serpente. Questa infedeltà a un significato preciso rende l’autore «sempre colpevole. Sconta la vita scrivendo. Sconta la pena di ogni lettore. La ripercussione delle frasi non si fa attendere. Ogni lettore che trova, scrive la sua condanna». Scrivere, in particolare poesia, è un modo di riconoscere la metamorfosi dell’io, il mutarne del significato e dell’identità. «Scrivere è vedere il tuo corpo», dice Brancale. E aggiunge: «Sono stanco dell’identità. Se esiste un’identità, questa è sempre in movimento, in farsi e disfarsi». Bisogna accettare questo stato di continuo mutamento per scoprire il proprio volto, come Narciso che, oggetto di metamorfosi, si specchia nell’acqua. «Accettare le varianti significa prendere coscienza di una condizione infinitamente provvisoria, significa abbandonare la propria identità per un’altra in grado di garantirci il corpo della morte».

È stato detto che la poesia è l’arte di dar nome al silenzio. Per Brancale il silenzio poetico si riflette nell’acqua che ne è strumento di espressione: «l’inchiostro in cui immergere la mano». Scrivere sull’acqua per far emergere il significato. Inserire il silenzio nelle parole. Equivale a riconoscere l’esperienza nello spazio tra una parola e l’altra. Come dice Brancale: «Nello spazio tra una parola e l’altra vive il pensiero».

Il paradossale connubio tra esperienza materiale e l’estro creativo che ci consente di darle un nome è stato a lungo ravvisato nello stato liquido. Si dice che le Naiadi, che presiedono alle fonti e alle sorgenti, garantiscano alle acque, speriamo anche in questi tempi di inquinamento, una qualche capacità di protezione contro la malattia e il decadimento e offrano, in certe fortunate occasioni, illuminazione poetica e il dono della profezia. «Come se a un certo punto l’acqua riaffiorata da un lungo silenzio sfociasse in una parola che non si comprende. Excitare», dice Brancale. Il “lungo silenzio” è quello di Virgilio, per cui excitare significa volvens fatorum arcana movebo «spiegare i misteri del libro del destino».

Il libro di Brancale è incredibilmente complesso. Le riflessioni sull’uso delle parole, sul dolore, l’esperienza della bellezza, il riguardo nel trattare la malattia e la morte, sfociano in aforismi di straordinaria potenza. «Bisogna amare solo ciò che non si conosce», è la risposta di Brancale a Keats. E ancora: «Se solo fossimo capaci di domandare la grazia per ogni istante che ci è stato concesso».

È a istanti come questo che Brancale si riferisce: «Apriamo la finestra. Una folata di rumori ci raggiunge: l’urlo di una saracinesca, lo squillo sordo di un citofono, il fruscìo delle foglie. Riconosciamo nella lingua delle cose la nostra parte muta». E il poeta aggiunge: «Da questa finestra il mondo di fuori e quello di dentro stanno nel vaso crepato della memoria. Il verde della lingua germoglia nella frase. La saliva impasta tutte le illusioni, ciò che ho creduto verbo al culmine della nuda disperazione».

Le linee fluide di Miquel Barceló enfatizzano la materia liquida della poesia di Brancale: ovvero non c’è alcun tentativo di spiegare, di rappresentare il concetto dell’ineffabile, di “coniugare l’infinito”, ma di accompagnarlo, di rifletterlo. Le pennellate di Barceló citano Herman Melville: una balena, stavolta bianca, oppure è la prua di una nave con l’occhio di Fatima? Il pennello di Barceló consente alle acque evocate di scorrere in onde di «un blu non lontano dall’oceano» come le descrive Brancale. Le immagini di Barceló si muovono sulla carta, tracce liquide che dopo alcune pagine fanno apparire i «giunci sovra ‘l molle limo» di Catone, le piante redentrici e purificatici della spiaggia del Purgatorio.

Brancale ricorre di tanto in tanto ad aneddoti, citazioni di altri poeti, storie di incontri casuali, pagine dei suoi autori preferiti che ha scoperto, informazioni, cifre e dati scientifici sull’acqua e aggiunge al libro anche una coda di poesie integrative. Ma tutto questo non fa mai cambiar voce al lungo poema. I dati documentali hanno lo stesso effetto degli elenchi e delle nozioni enciclopediche di zoologia in Moby Dick, un altro poema sull’ineffabilità dell’esperienza e sul rapporto tra acqua e parole. Dovunque acqua sia voce è un titolo che Melville avrebbe potuto mutuare. «È successo, l’acqua». Conclude Brancale. «A scorrere in me come fosse sangue. E il cuore, alla deriva, non ha nulla da dire». Eccetto questo strabiliante libro in versi.

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(Apparso su Robinson n. 302 di Repubblica del 17 settembre 2022, traduzione di Emilia Benghi)

Domenico Brancale, Dovunque acqua sia voce, con acquerelli di Miquel Barceló (Edizioni degli Animali, 2022)

© Alberto Manguel

© per le immagini di Miquel Barceló

 

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