Ferrovie del Messico. Una lettera a Gian Marco Griffi

di Salvatore Ditaranto

Caro Gian Marco,

hai mai avuto la sensazione, dopo aver conosciuto una persona, di averla già incontrata all’interno di un libro?  Come quando, ad una mostra, si guarda un dipinto e si incrocia lo sguardo della persona che osserva la stessa opera, con la stessa intensità e la stessa attenzione, quella sensazione di aver colto qualcosa all’unisono?

Quando ho finito di leggere il tuo romanzo “Ferrovie del Messico” (Laurana editore) ho proprio pensato che noi due, che non ci siamo mai conosciuti di persona, ci fossimo sicuramente incontrati ne “I detective selvaggi” di Roberto Bolaño. È successo in tempi diversi, chi prima e chi dopo, ma è stato sicuramente sulle pagine di quel libro.  Io e te ci siamo soffermati sulla stessa frase, forse l’abbiamo sottolineata entrambi con la matita, scolpendola così nella nostra memoria, come se volessimo dire a Bolaño che quella frase l’aveva scritta proprio per noi. Eccola qui: “poi mi misi a pensare all’abisso che separa il poeta dal lettore e quando riuscii a rendermene conto…”. Sono sicuro che insieme a noi, vincendo le leggi dello SPAZIO e del TEMPO, c’erano anche Arturo Belano, forse c’era già Cesco Magetti e c’erano altri lettori e tanti ce ne saranno in futuro. Con l’aiuto di Albert Einstein potrei dirti che le persone che leggono i libri sanno che la distinzione fra passato, presente e futuro non è altro che una persistente cocciuta illusione e se ci pensi, caro Gian Marco, io credo che quell’abisso, quello spazio che sembra dividerci, grazie ai libri, smetta di esistere.

Mentre leggevo “Ferrovie del Messico”, mi sono smarrito nel tuo libro e mi sembrava paradossale che avessi perso la bussola seguendo le vicende di uno dei protagonisti che era tutto intento a cercare un libro che lo avrebbe aiutato a tracciare una mappa. Però ti confesso che perdersi nei libri è una di quelle sensazioni che augurerei a tutti. Anzi se ci pensi, solo se uno si perde poi si può ritrovare. Prima mi sono perso nel Monferrato, poi in America e poi dalla Svizzera mi sono ritrovato in Germania. Dagli anni ‘20 ho varcato una soglia e mi sono ritrovato quasi alla fine della Seconda Guerra Mondiale, ero nella Repubblica di Salò e anche all’interno di un covo di simpatici partigiani. Nello stesso modo ho seguito una partita di golf ed ero nella stessa stanza di Hitler ma non ho potuto fare nulla. E se da una parte mi perdevo dietro tutte le storie, dall’altra cercavo di aiutare il protagonista nel suo intento di tracciare quella famosa mappa delle ferrovie del Messico e nel frattempo c’era chi mi portava nel passato e chi dall’altra voleva che seguissi i futuri, si proprio loro!

In questo vortice spazio-temporale, perso tra binari inesistenti e nel labirinto di viuzze di una piccola città – dove non si sarebbe perso neanche un bambino – sempre per colmare il famoso abisso, ho afferrato tutto quello che leggevo, sottolineando le pagine come se stessi tracciando io dei binari.

È stato così che mi sono arrotolato nella neve crocchiante e in quella sfrigolante come se qualcuno la stesse friggendo. Mi sono aggrappato al suono delle campane e ai loro din don dan, ai rumori imbarazzanti dalle chiappe, ai bombardieri, ai batticuori, a Radio Londra, al fruscio delle pagine della settimana enigmistica, agli sghignazzi dei fascisti, al rombo dei motori, al balbettio ferramentoso di una ringhiera arrugginita, al cielo che tuona e ruggisce,  al concerto dei galli e ai freni che gridano come gatti – a proposito credo tu abbia scritto il romanzo più rumoroso degli ultimi tempi e sono stati quei suoni mi hanno aiutato a ritrovarmi!

Sempre per non perdermi ho seguito tutte le puzze: di iodio, di alghe andate a male, di ferro, di muffa e di fienili bruciati. E da quando non fumo più, mi sono aggrappato al profumo dell’oppio e della nicotina che sprigionavano le tue pagine. Ah quante sigarette immaginarie ho fumato insieme a tutti i tuoi personaggi.

Poi dovevi vedermi quando anche io ho chiesto aiuto a tutti gli strani protagonisti che incontravo: la curandera sarda, il cartografo samoano, il prete che non celebra più messa e che ha messo Dio in sciopero, il collezionista di libri che non legge e li fa leggere al maggiordomo. Ho chiesto aiuto a tutti, anche ai poeti frenatori di treni e all’uomo che ha disegnato la propria vita come una mappa, ma mi sono tenuto alla larga dai nazisti che giocano a golf (io li odio i nazisti che giocano a golf!).

E mentre cercavo di colmare l’abisso che ci teneva distanti, tra lettore e scrittore s’intende, ho fatto mie tutte le tue metafore: il buio come un lenzuolo umido che si appiccica alla pelle della faccia, l’amore che dilania il cuore come un ordigno bellico, la neve che è Dio quando vuole mostraci il mondo senza di noi e il mondo che è come una puttana grama cui aggrapparsi. Per non parlare della vita che a volte è una lirica bisbigliata distrattamente da un passeggero di un treno, a volte è un bruciare di domande che crepitano come ceppi di legno, si sciolgono come candele, esplodono come petardi, mentre per la gran parte delle volte è un labirinto inestricabile, un gomitolaccio aggrovigliato da un beffardo artefice.

Stavo per prendere una sbandata per Tilde, la fotografa folle, l’amante dell’epica del trascurabile, che quando scatta sente come se il mondo si fermasse e prestasse attenzione soltanto a lei o come se avanzi dimenticati di mondo trovassero in lei qualcuno che prestasse loro attenzione. Ci ho rinunciato perché eravamo in troppi a farle il filo. Alla fine quando mi mancava di leggere solo l’ultima pagina di “Ferrovie del Messico”, caro Gian Marco, ero preso da quello sconforto indescrivibile cui avevi accennato tu nel romanzo e avevo proprio l’impressione di assistere a quel che resta annidato nel cuore delle persone dopo l’epilogo di ogni storia, quel senso di titubanza e allusività che apre una finestra sul mondo ignoto. Fortunatamente ho letto l’ultima parola del tuo romanzo, quel PROSSIMAMENTE, e ho capito che in realtà non è finita, che ti eri già messo a lavoro, affacciato nuovamente su quell’abisso, in attesa di re-incontrarci presto, in altri libri, e nel tuo nuovo che verrà.

p.s.

I poeti a che servono?  Si chiede qualcuno nel tuo romanzo e anche io mi sono posto spesso quella domanda Così come sono convinto, anche io, che un verso può  resuscitare un uomo, un animale, un popolo, una lingua, perché hai ragione tu  quando scrivi un poeta è un essere umano che precipita nell’abisso della verità e che della nostra vita terrena non restano che brevi lampi elettrici nell’oscurità dello spazio interstellare, un fabbro di Calcutta forgia la scimitarra che decapita un taglia borse al Cairo su ordine di un milionario di New York plasmando il ferro prodotto dall’industria siderurgica di Changzhou. E in tutto questo chiedersi all’improvviso qual è la nostra parte? Potrei andare avanti, ancora e ancora, riscriverti tutte le cose che ho sottolineato nel tuo libro e che in questa lettera ho messo in corsivo. Quando ero al Liceo e ci passavamo i libri tra amici e amiche ci promettevamo di sottolineare con matite diverse le frasi che ci colpivano di più. Era il nostro modo di conoscerci e incontrarci nei libri.  Se io fossi uno scrittore chiederei ai miei lettori di mandarmi le frasi che hanno sottolineato per capire in quale punto si sono incontrati alcuni e in quali altri. Un social network libresco, antico e moderno. Per questo alcune frasi le ho mandate anche a te in questa lettera. Non è un modo fantastico per ritrovarsi?

 

Commenti
Un commento a “Ferrovie del Messico. Una lettera a Gian Marco Griffi”
  1. salvatore ha detto:

    Scritto molto bene ma la trama confusionaria e su diversi piani temporali disorienta il lettore invece di intrigarlo, vorrebbe essere cent’anni di solitudine ma per quanto mi riguarda solo tre settimane perse per arrivare a metà libro e decidere di abbandonarlo.

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