Flaiano e Pincio a Roma, il set di una distopia nella memoria
di Mario De Santis
“Diario di un’estate marziana” di Tommaso Pincio (Giulio Perrone Editore ) è l’incontro tra lo scrittore e sceneggiatore di decine e decine di film, di un romanzo e racconti, articoli e “diarista” per eccellenza, almeno a stare ai suoi titoli) Ennio Flaiano, di cui si ricordano i cinquanta anni dalla morte, e uno degli scrittori nostri contemporanei più importanti, a mio avviso, in Italia, tra quelli che hanno esordito alla fine degli anni ‘90 per attraversare i territori del cosiddetto postmoderno e che specie negli ultimi libri ha creato “dispositivi narrativi”, una scrittura letteraria non canonica. È dunque l’incontro non solo tra due autori molto legati a Roma (era nato proprio con la richiesta dell’editore allo scrittore di scrivere del suo rapporto con una città del mondo e la letteratura di quella) ma diventa anche l’incontro tra due scrittori irregolari, nel segno, a distanza di un cinquantennio, di un comune superamento del genere, dei generi. Forse Flaiano, ipotizza Pincio, non teneva un vero diario, nel senso della confessione, ma praticava “l’appunto”, un laboratorio in fieri della ecriture. Insomma, il libro è l’incontro tra due geniali “marziani”, a Roma ovviamente.
Come è stato già scritto, impariamo con queste molte cose sullo scrittore pescarese, che a dodici anni adottò gioco forza Roma, anche se mai si sentì amato da essa e alla fine scrisse “sono arrivato a odiarla”. Pincio costruisce attorno a Flaiano un palinsesto o un tessuto, con trama e ordito che intreccia il materiale biografico dell’autore con ciò che resta di Flaiano oggi, che pure muoveva un teatrino di invenzione e realtà, da giocoliere di fantasmi e persone reali, nei suoi testi, o racconti (su tutte quello del celeberrimo Marziano a Roma). Pincio ne mette in luce la complessità di autore inquieto, rispetto alla malattia della “flaianite” che spesso colpisce però chi lo cita a sproposito e lo riduce a battutista, creatore di aforismi ( spesso non suoi, ci ricorda con esattezza Pincio). Facendolo Pincio più misura anche sé stesso, sia come singolo personaggio-scrittore di una scena letteraria, sia più in generale sul senso e sulla possibilità per uno scrittore e soprattutto per una comunità di artisti e intellettuali, romanzieri, poeti, sceneggiatori, ecrivant di avere un ruolo e un senso e se la vita sia “dolce” o “Agra” per lo scrittore. “In Tempo di uccidere”, primo e unico romanzo di Flaiano del 1947 “ la parola inutile – scrive Pincio – e sue variazioni (..) ricorre, stando ai miei conti, per ben cinquantotto volte”.
Eppure, Flaiano con quel libro vinse la prima edizione del Premio Strega. Poi più nessun romanzo. Ebbe successo se si guarda la sfilza di capolavori che scrisse, ma sempre con sue ombre di fallimento (ma la battuta sull’insuccesso che gli aveva dato alla testa, fu Mino Maccari a dirla a Flaiano commentato il flop della commedia basata proprio sul suo racconto più famoso, Il Marziano, che resta personaggio simbolico di come Roma divori chi sembra acclamare per una stagione). Pincio, esattamente come si fa con Roma, si addentra nel Pianeta-Flaiano come in un labirinto. Cercando percorsi che lascino emergere, sempre in una combinatoria di pagine (appunti), personalità e poetica dello scrittore anomalo. Cosa c’era dietro quella parola “inutile”? Intuizione dell’esaurimento del “romanzo”, anticipando una pratica postmoderna nella scrittura del sé-verofalso ? O si lega a un sentimento più profondo di Flaiano, quello malinconico (benché fosse noto per trasmettere “una certa allegria” scrisse Garboli). Aveva “l’atteggiamento – scrive ancora Pincio – di chi si sente respinto, non amato abbastanza o, peggio ancora, ignorato” che Flaiano riferisce a Roma, ma trasmesso forse da una ferita che si produsse quando fu mandato, a 12 anni, in un collegio della capitale, con lo strappo di un abbandono. Il viaggio coincise con la Marcia su Roma, con il treno affollato di fascisti (e non è solo per rievocare nu fatto storico, che dedicò a quel giorno il suo ultimo articolo sul Corriere della Sera il 5 novembre 1972, pochi giorni prima di morire. L’Italia subiva il fascismo, lui subì una violenza). Certe ferite non si sanano mai, come a Roma certe buche, certi lavori in corso circondati con la rete arancione ma in cui ormai crescono alberi. Con la scusa d’esser il più grande e ricco deposito di Storia millenaria, Roma sembra offrirsi sempre come una città del transitorio e finisce per essere città-set “come se a Roma fosse possibile soltanto il cinema ovvero sprecarsi o non andare oltre il momento, l’ispirazione effimera e fine a sé stessa, la battuta” una “immensa scenografia concepita per far sentire i suoi abitanti minuscoli” o “comparse in un kolossal” glossa Pincio.
Roma è materia di storie, uno dei suoi laboratori era nel dopoguerra via Veneto, luogo che ospitava le migliori intelligenze della capitale e che subito si mitizza (nei “Fogli di via Veneto” che per Pincio sono tra le cose più belle scritte da Flaiano in cui rievoca già nel 1958 come la via sia cambiata). La mitologia è il primo passo verso la falsificazione, fino a diventare location, più che luogo e fu proprio Flaiano a creare quella mitologia di una cosa che già non c’era più. Flaiano così facendo e lasciando la letteratura canonica, diventa lo scrittore che cambia il mondo, ma perché lo rende set, evanescente, transitorio, quando la storia – modellata da Fellini – diventa monumento celluloide: lì Roma è nel suo momento massimo di splendore e al tempo stesso è già sparita, sostituita (e distrutta) con un falso, avviando la progressiva, lenta decadenza in rovina turistica di sé stessa.
In questo senso Flaiano è incolpevole ma inconsciamente il miglior cives romanus e al tempo stesso primo barbaro (come scrive di sentirsi sempre). Flaiano però i circoli di via Veneto o di Piazza del Popolo li frequentava come un ufficio, per vivere aveva scelto Montesacro o a Fregene, in un limitare laterale che – scherzava – lo faceva lontano dal centro, ma più vicino a Parigi. Visse una strana condizione di solitudine, sentimento dominante. Tanto che anche persone con cui ha lavorato per molto tempo sapevano poco di lui, di sua moglie e della sua adorata figlia che lasciava a casa. In questo forse c’entrava la dannazione per un provinciale, nel non sentirsi mai parte realmente di Roma, ma mai nato, quindi non figlio di Mamma Roma. Nella ferita dell’abbandono si depose anche questa malinconia di orfano e di esterno, ma del resto non pochi sono stati gli stranieri che meglio hanno raccontato Roma. Il giovane Flaiano scriveva ad un’amica che Roma “sembra di averla amica e invece ti accorgi che non potrai mai afferrarla” parlandone come farebbe un “innamorato deluso”. Anche qui si annidano ombre di ferite più profonde. In certe foto con Fellini e Anita Ekberg a me dà l’impressione prossemica di un “Calimero” ( il pulcino nero inventato per Carosello dai fratelli Pagot nel 1963). È lo stesso scrittore – scrive Pincio – a notare come nelle foto di bambino rivolgesse all’obiettivo lo sguardo torvo dell’offeso. Il senso profondo di Flaiano per inutile è riposto in quel broncio”.
Come si diceva però nel libro c’è anche Pincio, che ha scritto e ricreato la sua Roma più volte nei suoi libri. Tra i recenti, quello su un grande provinciale lombardo, Caravaggio. Che con la sua arte e la sua biografia era entrato nelle peregrinazioni del protagonista de “Il dono di saper vivere” e questo “Diario di un’estate marziana” si ricollega a quel libro, per il modo analogo di un dualismo tra vicende del personaggio-scrittore-Pincio dell’ oggetto-personaggio Michelangelo Merisi. In qualche modo anche Flaiano visse un suo dualismo autoriale, scrittura del genere romanzesco e “altre scritture”. Tra inquietudine, e malgrado pigrizia (gli rimproverano di non scrivere materialmente le sceneggiature, ma di partecipare oralmente) si fa strada in quel senso di esclusione psichica del ragazzino abbandonato e col broncio, anche la sofferenza del non vedersi considerato. Su tutti, da Fellini e infatti Pincio racconta come fini male la loro amicizia. Un elemento importante di questo “Diario di un’estate marziana” è anche quello che riguarda la dimensione collettiva, sociale, del lavoro intellettuale. Siamo negli anni della “Vita agra” di Bianciardi, uscito nel 1962, ma Roma non è Milano, per dirla con un’ovvietà e poi Flaiano si immerge nell’ambiente romano subito dopo la guerra, è ancora il pre-boom che in qualche modo si aprirà con “La dolce vita” industriale, che poi anche egli, come lo scrittore grossetano – altro provinciale in città – seppe raccontare con altrettanto acume critico, negli anni a venire.
È forse una delle “età dell’oro”, scrive Pincio della cultura italiana. Ma era davvero così? Pincio racconta che guarda ogni anno il Premio Strega in tv, sembra perplesso all’idea che – come detto dal direttore del medesimo premio – “Dice che i salotti di oggi sono i social”. Ma è esistita quella società letteraria? Stando ai racconti si, scrive Pincio c’era una Roma dove tutti si vedevano dappertutto e la paragona, sempre con uno dei suoi appunti diaristici, a un aperitivo a cui era stato invitato ma che poi era saltato “perché nessuno poteva”. E chiosa, credo senza ironia: “non ci si illude più che la letteratura e la sua comunità abbiano una rilevanza tale da rendere necessario – o anche solo abituale e piacevole – vedersi e discutere”. Se in questo c’entrano i social, in qualche modo Pincio lo aveva definito nel suo modo, nel romanzo “Panorama” del 2015, letto di recente da Galatea Ranzi nella serie “ad Alta voce” su Radio tre che vi consiglio di ascoltare. Di certo c’entra Roma, città in cui l’uomo folla e flaneur non può contenere moltitudini e al tempo stesso non è nemmeno maledetto, ma sta in una duplicità sospesa tra bonarietà inclusiva e indifferenza, tra l’essere parte di una gloria e insieme moscerino, nonnulla, erbetta primaverile che spunta per una stagione su muro millenario, in una transitorietà che ci fa tutti, a Roma più che altrove, insieme fantasmi e marziani. (e Pincio non a caso sottolinea come lo stesso Flaiano scriva in quei primi anni ’60 sia la sceneggiatura de “La decima vittima” di Petri, in una Roma dell’Eur simil-futuribile, sia di “Fantasmi a Roma” di Pietrangeli, ambientato nei meandri ammuffiti dei palazzi nobiliari).
Roma somma di ombre, per dirla con Flaiano, proiettate su uno schermo di luce. Se pure in un percorso di lieve e ironica malinconia, quello di Pincio è tuttavia un diario diurno, luminoso, attaccato all’estate, la stagione e il cuore del libro. Insieme alla memoria, che è una speciale distopia (e Roma è il suo miglior set) accumulando altre rovine contemporanee: bellissime pagine in cui Pincio descrive del cinema abbandonato e in rovina vicino casa sua, un frammento che si conficca nella memoria e a cui vi rimando. Più in generale dal libro di Pincio emerge che questa disseminazione di abbandoni che diventano come le onnipresenti reti arancioni, subito paesaggio di rovina, ci dicono che il romanzo di Roma vive in suo “paradosso del tempo” (Flaiano scrisse, su incarico di una produttrice francese la sceneggiatura mai realizzata di un film su Proust) e diventa un romanzo del mondo, un opera-mondo tra cinema scrittura, che contiene il suo altrove, la sua “India”. Per Pincio e per noi grazie a lui, Flaiano è l’autore antenato a cui guardare, lui che ci guardava nel futuro. L’altrove irraggiungibile non è un pianeta di extraterrestri, ma è la terra dell’infanzia, l’estate, unica e irripetibile stagione di una vita. Flaiano ama l’estate, proprio mentre nel 1960 Bruno Martino scrive il suo inno malinconico di apparente odio, ma in realtà amore, di un amante lasciato, verso quella stagione. Un odioamore, il sentimento di Flaiano per Roma (sempiterno Catullo). L’estate dell’infanzia, “l’unico luogo che non riusciamo ad abbandonare” è forse la chiave finale di un percorso che va da Pincio a Flaiano e viceversa. Infanzia come unica città del passato che non andrà mai in rovina. E questa è per tutti noi la vera dannazione.
Civis non cives romanus. Purtroppo non e’ un refuso
bell’articolo per un bel libro che voglio comprare e leggere.
un appunto pedante: gioco forza non sarebbe meglio scriverlo attaccato?