Gerusalemme è Ovunque. Una conversazione sull’invisibile
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di Andrea Cafarella
Quando abbiamo cominciato a scrivere questa conversazione era da qualche mese in circolazione un’ottima traduzione del libro di culto Il cibo degli Déi (Piano B, 2019) di uno dei più importanti divulgatori della psichedelia, Terence McKenna. Un testo essenziale quando parliamo di sostanze in grado di alterare la nostra percezione del mondo, quindi, inevitabilmente, un documento molto utile all’interno del più grande discorso relativo agli altri stati di coscienza, e agli altri mondi. Ovverosia al viaggio che è possibile compiere verso questi altrove ancora sconosciuti.
«Il mondo che percepiamo è una piccola frazione del mondo che possiamo percepire, che è una piccola frazione del mondo percepibile» questa è una delle frasi topiche di McKenna, segnalata già nell’introduzione, per intenderci.
È sfogliando le prime pagine di questo libro che mi sono imbattuto per la prima volta nel nome di Federico di Vita – che ne ha curato proprio l’introduzione. Mi ha subito affascinato l’indomabile lucidità e la chiarezza di sguardo che di Vita ha saputo mantenere nel descrivere un personaggio a dir poco controverso, le cui storie suscitano una meraviglia ambigua, poiché sembrano assurde. Eppure, niente hanno a che vedere con la finzione narrativa.
Scopro poi che Federico di Vita stava curando un volume (La scommessa psichedelica, Quodlibet, 2020) scritto a più mani, che si sarebbe occupato del Rinascimento psichedelico. Inizio quindi a mandargli una serie di domande, chiedendogli esplicitamente di prendersi del tempo – il giusto tempo – per rispondere a ognuna di esse. Il risultato è una conversazione durata mesi, nata senza uno scopo preciso, costruita nel tempo, con lentezza, mentre il nostro rapporto andava consolidandosi. Nel frattempo: il libro che stava curando è stato pubblicato, è nato un podcast chiamato Illuminismo psichedelico e moltissime altre cose sono successe.
Noi abbiamo continuato questo vero e proprio botta e risposta, nel quale tentiamo di ragionare sul significato di certi concetti inesplicabili, rievocando gli accadimenti di questi mesi e i testi che ci hanno accompagnato, indagando le esperienze di vita e forse anche – speriamo – perdendoci nei pensieri, fino a non sapere più dove eravamo diretti né dove siamo adesso.
Desidero iniziare andando subito al punto della questione: cosa è l’invisibile? Per poi risalire il crinale alla ricerca delle radici che ti hanno portato alla definizione che darai di questo concetto-luogo ontologicamente indefinibile.
Parafrasando Calasso potrei rispondere «una vasta parte dell’essenziale», e seguendo la suggestione di McKenna che citi anche tu aggiungerei gran parte dell’esperibile. È così da sempre, pensa all’importanza che è stata riconosciuta all’interpretazione dei sogni sin dall’antichità. I sogni sono parte di un mondo altro, sommerso, per definizione non visibile con gli occhi ma direttamente calato nella nostra mente, eppure tra le visioni il sogno – anche il sogno lucido (mi capita da sempre di fare sogni lucidi, quelli cioè in cui riesci a piegare la trama del sogno stesso, imponendogli percorsi secondo le tue preferenze o paure – una skill che è considerata preziosa da chi non la possiede ma che a me, sarà che lo faccio sin da bambino, sembra normale, quasi superflua) – occupa per me il gradino più basso. Il sogno è prigioniero dei suoi schemi, procede a strappi che il cervello ricuce a velocità vertiginosa imbastendo una narrazione per legare insieme scene e ambientazioni palesemente incoerenti, spesso è sfuocato, ha quell’atmosfera, appunto, “da sogno”, affascinante come una bruma ma chi ha esperito l’incanto di un’epifania(che, in condizioni ideali di comunione con se stessi e il luogo in cui ci si trova, può avvenire ovunque), o quello di una Sindrome di Stendhal (evento raro che qualche volta nella vita, lontano dal proprio paese, può capitare di provare), sa che la grana della visione può distillare grazia in modo molto più sublime. Tu mi chiedevi dell’invisibile e io ti sto parlando di visioni, che sono per definizione visibili, eppure sono per la maggior parte del tempo inaccessibili, celate, in eterna attesa di una dischiusione che non arriva quasi mai (e quindi in gran parte tecnicamente “invisibili”, no?).
Si dà il caso che per dischiudere il mondo della visione esistano delle tecniche infallibili, messe a punto da diverse civiltà in tempi remoti: la sfera della visione può essere raggiunta grazie all’uso di piante sacre, dagli effetti psichedelici. Una piena esperienza psichedelica è tecnicamente indicibile, il salto di paradigma oltre una certa soglia è solo esperibile, non raccontabile. Una volta qualcuno mi ha detto che provare la sostanziale irriferibilità del trascendente rende la metafisica un’assurdità. Se lo sai, non ne dibatti, se ne dibatti, non lo sai. Credo di essere d’accordo, e poi – e qui siamo davvero nel cuore delle qualità dell’invisibile – gli psichedelici sono le uniche sostanze a permettere a chiunque di accedere a un rapporto diretto e senza mediazioni con la sfera del sacro. Sono l’ostia che funziona davvero, non un mero simulacro di un gesto perduto nei millenni. Una volta che sei lì poi sta a te scegliere cosa farne di questo profondissimo senso di trascendenza, una ricetta che vale per tutti io non la conosco.
Quando abbiamo un’esperienza paragonabile a quella che possiamo avere assumendo sostanze psicoattive, praticando digiuno prolungato, meditazione o semplicemente danzando senza sosta, cosa può accadere?
L’unica esperienza paragonabile a quella che si vive assumendo psichedelici che ho provato personalmente è stata proprio la Sindrome di Stendhal, nella sua caratteristica declinazione che si può provare a Gerusalemme (non a caso chiamata Sindrome di Gerusalemme). Mi è capitato sotto il Muro del Pianto, ho cominciato ad avere vertigini e un forte giramento di testa, ero profondamente scosso dal fatto di essere lì eppure pensai a un colpo di sole – certo il sole c’era ma era aprile, e per arrivare lì si passa sotto una serie di cunicoli. Così un’ora dopo essere uscito dalla Spianata delle moschee ho deciso di tornare sotto il Muro per vedere se l’effetto si sarebbe ripetuto: se non fosse successo avrei attribuito l’evento a un colpo di calore. Il mio pregiudizio era insomma negativo, eppure la seconda volta che fui lì caddi preda esattamente della stessa sensazione di rapimento estatico, era anche destabilizzante. La cosa stupefacente (be’, è il caso di dirlo) delle sostanze psichedeliche è che sensazioni di questo genere te le possono far venire in qualunque luogo, in qualunque momento, per ore e ore di seguito.
Credi che durante quei momenti di «rapimento estatico» ci rechiamo in un luogo altro, dove dimorano animali divini, spettri e voci misteriose, oppure ridiscendiamo nei sogni e nel nostro più oscuro inconscio inviolato?
Premesso che dipende in parte dalla complessione individuale, i percorsi cambiano anche a seconda della sostanza, come testimonia quel vero e proprio genere letterario sommerso che va sotto il nome di trip report. La visione scaturita dall’assunzione di ayahuasca o più in generale da quella del più importante dei suoi principi attivi, la DMT, sono caratterizzate dalla presenza di entità (non per niente il decotto amazzonico è noto come “liana dei morti”, perché la tradizione d’origine interpreta così le figure che si parano innanzi allo psiconauta – e dato che la suggestione nel caso delle sostanze psichedeliche è molto forte è facile leggere in quel modo gli esseri che compaiono assumendo ayahuasca), sta poi alla coscienza del singolo interpretarle come crede, e l’interpretazione è immediata, le entità vengono subito riconosciute come spettri, antenati, divinità, animali guida e via dicendo – io una volta ci ho visto perfino un croupier. Quindi per rispondere alla tua domanda credo che siano presenti entrambi gli elementi ma non sono necessariamente presenti e possono essere destati più facilmente seguendo alcuni percorsi, piuttosto che altri.
Cos’è, per te – prescindendo dalle definizioni scientifiche o pseudo-tali– il mondo dell’altrove?
È il giardino della lingua italiana, un villaggio del delirio, le onde del mare che come un vecchio amico ti mostrano la loro eterna, ricorsiva e commovente finezza geometrica, un angolo di un parcheggio polveroso che si rivela in paradiso, il luogo dove muore l’ego tra petali di origano e ascoltamagie in tramontovisione.
Con quali parole potresti definire il luogo in cui è possibile parlare con i Funghi, avere l’illuminazione sulla forma del DNA e forse addirittura vedere Dio?
Ovunque: può avvenire ovunque. L’importante è tenere presenti le indicazioni su set e setting, perfettamente illustrate da Timothy Leary nel suo The Psychedelic Experience: A Manual Based on the Tibetan Book of the Dead:“Il set indica la preparazione dell’individuo, inclusa la struttura della sua personalità e il suo umore in quel momento. Il setting è il contesto – il tempo meteorologico, l’atmosfera nella stanza; sociale – i reciproci sentimenti delle persone presenti; e culturale– le opinioni prevalenti su ciò che è reale”.
«Dobbiamo inventarci gli strumenti per parlare di questi problemi in modo artisticamente variato, che li renda accessibili al pubblico. Idealmente, per esempio, dovremmo essere in grado di parlare di un’esperienza mistica simultaneamente in termini di teologia, psicologia e biochimica. È un obiettivo ambizioso, ma se non riusciremo a fare qualcosa di simile, continuerà a essere molto difficile pensare alla ininterrotta ragnatela della vita come a un continuum, e non nei termini del vecchio dualismo platonico o cartesiano, che falsifica profondamente la nostra immagine del mondo».
Queste sono le parole con le quali Aldous Huxley proponeva la sua visione rispetto al compito di chi potrebbe raccontare il mondo includendo la profondità illuminante dell’esperienza mistica. Lui che è stato al centro della scrittura di The Psychedelic Experience. A Manual Based on the Tibetan Book of the Dead e del movimento psichedelico di quegli anni. In particolare, credeva nella funzione essenziale dello scrittore, dell’autore di letteratura. Scriveva che «Il letterato non è in grado di dare un contributo che abbia un reale interesse scientifico, ma può intervenire per offrire il suo apporto nell’esplorazione di zone dell’universo fantastico della mente umana, in cui gli accademici, più prudenti, sono restii a mettere piede».
Vedo che in questi giorni hai intervistato con passione Carlo Rovelli, in occasione della pubblicazione del suo Helgoland. Mi sembra un autore con un’idea della letteratura molto in linea con quanto proponeva Huxley: la funzione di chi scrive può supportare – creativamente – il lavoro scientifico. Io credo che in fondo sia sempre stato così ed è quindi importante mantenere questo carattere pionieristico e a volte addirittura divinatorio della letteratura.
Cosa comporta nella tua esperienza dover trovare nuovi strumenti del linguaggio per raccontare ciò di cui parla – e che raccontò con fervore per tutta la vita –Aldous Huxley?
Il ruolo della letteratura e più in generale della sfera umanistica nel racconto dell’esperienza psichedelica è fondamentale. Non per caso tu citi Aldous Huxley, un romanziere di successo che grazie soprattutto a ciò che ha scritto in un saggio, mi riferisco a Le porte della percezione, si ritiene aver condizionato tutte le esperienze a base di LSD provate da chiunque da quel giorno in avanti. È molto forte il portato della suggestione nell’esperienza psichedelica e c’è quindi ragione di ritenere che le nuance orientali suggerite da Huxley abbiano finito per condizionare in modo indelebile i viaggi di milioni di psiconauti a partire dagli anni Sessanta.
Nei libri di Carlo Rovelli ci sono qua e là delle metafore tratte da esperienze psichedeliche, sono brevi frasi messe lì per chiarire a livello allegorico la grana di una certa esperienza. Se ci pensi però negli stessi libri spesso per illustrare alcune caratteristiche della fisica quantistica Rovelli fa ricorso a suggestioni tratte dalle antiche filosofie orientali, forse anche questo non è un caso – seppur in modo diverso sembra in qualche misura battere dei percorsi attraversati da Huxley. Per quanto mi riguarda di recente ho curato un libro che è uscito per Quodlibet, La scommessa psichedelica, e non è un caso se tra i tanti intellettuali che ho coinvolto per mostrare come la psichedelia influenzi a fondo il mondo in cui viviamo ho chiamato a esprimersi diversi scrittori: Peppe Fiore, Francesca Matteoni, Vanni Santoni, Edoardo Camurri, Ilaria Giannini, Gregorio Magini e il critico letterario Carlo Mazza Galanti. In modi diversi loro hanno mostrato anche in quel libro cosa può succedere nell’incontro tra psichedelia e letteratura, l’intervento di Magini in particolare mi pare andare nella direzione di cui mi chiedi, lui interroga alcuni lemmi simbolo del Rinascimento psichedelico per decostruirne i significati, tentando di capire che insidie e automatismi nascondano, ma insieme provando a tracciare nuove strade interpretative. Credo che la letteratura – e l’arte in generale – possa fare molto in questo senso, soprattutto in un paese come l’Italia dove la ricerca scientifica in questo ambito è ancora in forte ritardo.
Ho letto un testo che hai scritto a commento del XXV canto dell’Inferno dantesco (pubblicato su L’indiscreto all’interno del progetto CCC – Commento Collettivo alla Commedia dantesca). Mi sembra un bellissimo esempio di quanto dicevamo poco sopra. Quali sono le esperienze di picco che hanno segnato il tuo approccio alla scrittura e ancor di più all’analisi del mondo che ti circonda e del tuo quotidiano?
Credo che anche quello scritto sia un esempio di quanto dicevamo sopra, ti ringrazio di averlo ricordato. In quel caso provo a mostrare uno dei più significativi effetti clinici studiati proprio in questi anni: alcune sostanze psichedeliche sono considerate eccezionali strumenti per la cura della depressione e di alcune patologie affini, come la paura della morte nei malati terminali ma anche come la sindrome da stress post-traumatico. In quello scritto mostro l’elaborazione del lutto per la morte di mia sorella, che in quel caso avviene con uno strappo tipico da esperienza psichedelica, mostrandosi in un grumo di immagini che fino a quel giorno la mia memoria mi aveva negato. Non so se ci sono altri esempi letterari in cui viene raccontata l’elaborazione del lutto attraverso l’uso di sostanze psichedeliche, mi pare però una delle cose che la letteratura può fare. Di esperienze di picco ne ho avute diverse, un’altra è descritta nel saggio La sindrome di Stendhal nell’era della sua riproducibilità tecnica, a sua volta compreso in La scommessa psichedelica. In quel caso l’esperienza visionaria è quella che si può provare a un festival di musica elettronica – a un rave – di notte, sotto l’effetto dell’LSD. Avevo in mente una festa precisa, anche se poi ho usato elementi e visioni tratti anche da altre serate di quel tipo.
Giorgio Colli scrive, prendendo in prestito un’idea nietzschiana, che «i Greci davano un grande valore alla pazzia in quanto questa era qualcosa di involontario e di terrificante, dietro al quale si poteva credere più facilmente alla rivelazione divina. Per questo si diffusero le idee più ardite: i grandi uomini, quando non erano veramente pazzi, fingevano di esserlo». Ho sempre pensato che la figura di Nietzsche fosse rivelatoria rispetto alle questioni che stiamo discorrendo, poiché per me lo è stata grandemente, come per Colli e molti altri.
Tuttavia, non è sempre così per tutti i suoi lettori. Ci sono autori che segnano il nostro percorso di vita come veri e propri maestri e formano quell’arcinota scala dalla quale è possibile il salto. Possiamo provare a comporre una mappa – un abbozzo, quantomeno – di quei pensatori, artisti, personaggi storici che hanno simboleggiato per te quell’esperienza illuminante in grado di cambiare totalmente il tuo approccio alla vita?
Ti faccio tre nomi: Dante, Melville e Bob Dylan. Non hanno molto in comune tranne forse la possibilità di attingere a un mondo molto vasto, profondo e oscuro, che riescono a far brillare anche grazie a spunti mistici.
Un’ultimissima domanda.
Abbiamo parlato del rapporto tra la letteratura e i luoghi che possono essere evocati durante l’esperienza di picco. Una relazione di mutua creazione nella quale la letteratura si nutre dell’esperienza e allo stesso tempo può influenzare le esperienze successive, come nel caso di Aldous Huxley. Un po’ come se la letteratura, e più in generale le arti siano strettamente legate al misterioso mondo raggiungibile tramite l’estasi mistico-psichedelica.
Molti pensatori hanno lamentato il fatto che la nostra società sta allontanandosi sempre più da questo spazio sacro nel quale è possibile entrare in contatto con il mondo dei sogni, il regno degli spiriti, con la dimensione del mito.
Cristina Campo diceva che la nostra «non è più una civiltà» ma credeva nel «lavoro su di Sé», individuale, del singolo.
Tu hai curato un libro dedicato all’influenza che gli psichedelici hanno avuto sulla nostra società e su alcuni dei differenti campi nei quali hanno interferito pesantemente.
Pensi che questi strumenti potentissimi possano essere la chiave di volta per un riavvicinamento al sacro e per un’attenzione nuova e diversa al lavoro che ognuno di noi può fare su sé stesso, e così cambiare collettivamente nel tentativo di ritornare a essere una civiltà; oppure sono “solo” uno degli strumenti a nostra disposizione, nel tentativo di spostare l’asse del futuro che creiamo nel nostro ancora invisibile mondo immaginale?
Comincio dalla fine. Sto leggendo Quando abbiamo smesso di capire il mondo di Benjamín Labatut, sembra quasi che lo stiano leggendo tutti in questo momento a dire il vero. In ogni modo, in uno degli essay del volume si racconta una storia che è insieme quasi incredibile e illuminante. Parla di due matematici, il primo – Alexander Grothendieck – è stato tra i più importanti del Novecento, e al centro della sua ricerca c’era l’intenzione di definire il concetto di “motivo”, ossia il fascio di luce in grado di illuminare tutte le incarnazioni e le implicazioni possibili di ogni oggetto matematico. Grothendieck chiamava questa entità iperurania “il cuore del cuore”: di cui a noi non arrivano che riflessi lontani. L’altro matematico della storia si chiama Shinichi Mochizuki, ed è presentato come il risolutore di un enigma misteriosissimo, che per altro aveva più di qualcosa a che fare con le imponenti rivelazioni di Grothendieck.
Il problema della soluzione di Mochizuki alla congettura a + b = c (questo il nome del misterioso dilemma) è che la sua spiegazione è così complessa da non essere stata ancora interpretata da alcuno, per cui non sappiamo se sia effettivamente valida o meno. In più Mochizuki si rifiuta da quando l’ha pubblicata sul suo blog di fornire ulteriori spiegazioni. Come Grothendieck, che giunto a un certo punto del suo percorso di ricerca si è semplicemente dato alla macchia, finendo per diventare un vagabondo in un minuscolo paese sui Pirenei, Mochizuki ritiene che sia in fondo meglio non chiarire certe questioni, i due sembrano insomma d’accordo su un punto: l’umanità potrebbe usare male alcune scoperte, come è successo con la fissione dell’atomo. I due hanno dunque intravisto davvero “il cuore del cuore” della matematica pura? Nessuno lo sa, quello che però mi sento di dire – ed è il motivo per cui ho raccontato qui questa storia – è che la psichedelia, e in particolare l’LSD, può portarci vicino al nostro di cuore del cuore, che però è diverso per ciascuno di noi.
Dunque per me sbaglia chi ritiene che gli psichedelici abbiano un intrinseco portato progressista, che possano indicarci un qualche cammino comune a livello di società, non penso facciano niente di tutto ciò. Mentre di sicuro possono fare moltissimo a livello personale e in questo senso certamente sono in grado di spalancare al centro della nostra testa percorsi spirituali, che poi ognuno di noi deciderà in che chiave interpretare e soprattutto se intraprenderli.