“Questi sono, senza alcun dubbio, i ricordi della mia infanzia e della mia adolescenza, mescolati in un’intricata matassa con un’infinità di interpretazioni di cui non sono neppure pienamente consapevole. A volte penso che sollevare la pesante copertura che mi separa dalla fogna e resuscitare i dolori del passato non serva a nulla se non ad aumentare la sensazione di disagio che mi ha portato nel suo studio”.

Con Il corpo in cui sono nata (trad. Federica Niola, La nuova frontiera), Guadalupe Nettel rimesta in un’infanzia dolente, segnata da perdite e vuoti. Sul lettino della psicanalista osserva retrospettivamente la sua vita assegnando una collocazione a ogni avvenimento per attribuire una versione nuova alla propria esistenza. L’esergo è un omaggio ai versi di Allen Ginsberg (Song), un’invocazione al ritorno al corpo in cui si è nati. Ginsberg rappresenta una delle figure letterarie che avrebbero guidato Nettel in un personale percorso di accettazione, una riappacificazione graduale con la propria marginalità.

Considerata tra le più efficaci voci latinoamericane della contemporaneità, Nettel ottiene riconoscimenti prestigiosi, tra cui il Premio de narrativa breve Ribera del Duero, il franco-messicano Antonin Artaud e il tedesco Anna Seghers. Si affaccia nel panorama italiano con le prime opere pubblicate da Einaudi e poi da La nuova frontiera, ottenendo un successo crescente con le raccolte di racconti Bestiario sentimentale e Petali e altre storie scomode, consacrato dall’uscita del romanzo La figlia unica.

Cresciuta a Città del Messico in un complesso di palazzi che ospitò gli atleti delle Olimpiadi del 1968, dalle aree verdi apparentemente bucoliche ma dove si consumavano efferatezze, vive lo scarto tra un’educazione priva di tabù sotto il manifesto della verità, e il silenzio di fronte alla violenza quotidiana.

Quell’anno e quelle Olimpiadi costituiscono, come tutti sanno, il simbolo del peggior massacro perpetrato in Messico, e l’annuncio dell’ondata repressiva che avrebbe investito il continente negli anni Settanta. Eppure – per quanto possa suonare paradossale – quei palazzi erano pieni di sudamericani di sinistra, approdati in Messico per non finire ammazzati nei loro paesi fascisti (ce lo aveva spiegato mia madre, con un tono di voce drammatico).

Di fronte ai traumi che costellano un’infanzia messicana e un’adolescenza francese in una cornice famigliare fragile – “Una volta smembrata la famiglia, la terra si divise in due continenti” – la scrittura diventa ben presto per Nettel il mezzo d’elezione per trasfigurare il presente, esularsi dal resto assegnando fattezze grottesche a figure del quotidiano, esorcizzare paure rendendo i propri compagni di classe mostruosi personaggi letterari che si muovono in scenari macabri. Ama il calcio quella bambina che segretamente anela una ribellione, tifa per Unión de Curtidores perché condivide un feroce istinto di sopravvivenza con quella squadra che “viveva sempre al limite della tragedia, della disfatta, nella peggiore delle incertezze”. L’indagine fisica definisce una privata sofferenza, misura lo stadio di una metamorfosi che si nutre di incertezze, rivendica la paura anche nel definire il rapporto con l’altro.

Era come se a un certo punto avessi deciso di costruirmi una geografia alternativa, un territorio segreto all’interno del complesso residenziale, dove aggirarmi indisturbata senza essere vista.

L’opera è una graduale scoperta di sé attraverso gli stravolgimenti fisici e emotivi manifestati da un corpo che si trasforma, che scopre nuove pulsioni, che si ribella, che boicotta le sue scelte, che si nasconde, che vuole poi imporsi, anche legittimando le proprie incertezze identitarie. Il romanzo si apre con la descrizione del neo bianco sulla cornea dell’occhio destro, la ragione di anni di limitazioni, di esercizi, di attese, che ricalcano gli esperimenti e i tentativi di avanzare nell’esistenza tra passi incerti. Ogni cambiamento affrontato nell’opera trova una prima traduzione nel racconto del modo di un corpo di rispondere a quell’evento, di espellere l’ira attraverso l’esercizio, di non cedere ai dettami sul comportamento, di non sottostare alle discriminazioni di genere e sondare in segreto un piacere nuovo sul mancorrente di una scala condominiale.

Nettel immortala lo scarto tra volontà e azione in rapporto ai tormenti interiori, al senso di profondo smarrimento e alienazione favoriti dalla labilità di ogni relazione, per tracciare una ricerca inesausta che trova nella lettura nuovi indizi. A marcare le tappe dei faticosi tentativi di identificazione sono le scoperte infantili di libri come La incredibile e triste storia della candida Eréndira di Gabriel García Márquez consumato con “voracità primitiva”, le pagine di Jack Kerouac e la fascinazione adolescenziale per i libri del movimento beatnik, i versi di Allen Ginsberg, le poesie di Octavio Paz per riaccordarsi alla lingua delle origini. “Le sue poesie parlavano di pioppi d’acqua, di alberi del pepe rosa e di ossidiane, di teschi di zucchero, del quartiere Mixcoac, di cose e luoghi che anch’io avevo amato in un tempo remoto e, come compresi in quel momento, non del tutto dimenticato”.

Una prosa che squarcia il confine tra incubo e veglia per consegnare storie che concorrono a comporre una memoria collettiva. La ricognizione fisica rintraccia il sentimento dei luoghi, ne modifica i contorni, fa scomparire i paesaggi ricorrenti o li rende caricatura di quel che erano, assegnando così all’atto poetico l’esaurimento del sensibile.

In controluce un potente affresco del Messico degli anni Settanta e Ottanta, gli esiti della rivoluzione sessuale, il contrasto con una parte della società riluttante al cambiamento, la brutalità e il silenzio, la percezione di indifferenza in spazi urbani con maglie relazionali slabbrate. Il Messico dalle classi sociali che “non hanno nulla da invidiare alle caste indiane” fa da contrappunto alla realtà francese scoperta nel trasferimento nei primi anni Ottanta a Aix-en-Provence in un quartiere ad alto tasso di criminalità. Lo sguardo straniero di chi percepisce di essere perennemente ai margini di ogni esperienza, evidenzia le storture della questione razziale e il miraggio di un riconoscimento sociale nei tentativi di allineamento e omologazione al modello dominante.

La dimensione linguistica è teatro di scontro, definisce un’appartenenza divisa, diventa il metro di misurazione dell’altro, di consenso sociale in un contesto scolastico dominato da dinamiche di potere e soprusi. “Per sopravvivere in un ambiente del genere, dovetti adeguare il mio vocabolario all’argot – una miscela di arabo e francese del Sud – che si parlava intorno a me, e i miei modi a quelli che imperavano nella cantine. A dodici anni il tempo passa ancora molto lentamente”.

Attraverso il racconto di una madre e una figlia rinchiuse nelle rispettive ossessioni, Nettel indaga il peso di un vincolo di sangue e l’influenza culturale e ideologica nella personale affermazione. Un rapporto soggetto a continui rimaneggiamenti, che rivela le sottili contraddizioni tra emancipazione sessuale e moralismo nell’incapacità di assegnare una direzione alla propria esplorazione fisica.

Pagine furenti narrano il senso di smarrimento, di cocente solitudine, vissuti da una bambina che prova a farsi largo tra verità mancate e senso di profonda ingiustizia. Nettel pone l’accento sul peso di vivere un’infanzia nell’incomprensione generale, alla disperata ricerca di forme di comunicazione alternativa secondo affinità definite da drammi comuni.

Un romanzo strutturato su una sapiente sovrapposizione di immagini feroci e tenere, ripetizioni ossessive che annunciano l’inesorabilità della rivelazione, accenti lirici improvvisi che rischiarano la tragedia del vivere. La deformazione del ricordo alterna l’osservazione di microcosmi, come quello carcerario, a ingrandimenti su dettagli minimi concepiti come elementi-simbolo, come l’indugio descrittivo sui diversi tipi di caramella resi fattori di caratterizzazione culturale o la descrizione della marea indistinta di oggetti anacronistici accumulati in modo compulsivo da una nonna con la sindrome di Diogene.

Nettel mette in fila i reperti di un tempo lontano: il filtro dello sguardo adulto ne trasfigura i contorni, riporta in superficie il peso delle situazioni a cui si legano, la mancanza di risposte semplici come sapere dove si trova un padre e quando tornerà una madre. Assenze indecifrabili unite a scoperte sconvolgenti che rovesciano drasticamente la visione del mondo concepita sino a quel momento nei penosi tentativi di dare un senso all’iniquità “come se alterando le immagini remote si potesse mitigare il dolore passato”.

Pagine che impongono a chi legge di imparare l’attesa, concepire ogni pagina come dominata anzitutto da una profonda ambiguità. Il corpo in cui sono nata è un elogio dell’incanto dello squilibrio, la versione letteraria di un quadro di Georges Braque. Un invito a rintracciare nel corpo l’unico “vincolo attendibile con la realtà”, il canale per attuare private ribellioni tra intrichi e grovigli che traducono un’evoluzione dolente e necessaria.

Forse la conservazione della specie risiede proprio in questo, nel perpetuare, sino all’ultima generazione di esseri umani, le nevrosi degli antenati, le ferite che ereditiamo come un secondo corredo genetico.

 

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Autore

a.pisu@minima.it

Alice Pisu, nata nel 1983, laureata in Lettere all'Università di Sassari, si è specializzata in Giornalismo e cultura editoriale a Parma dove vive. Collabora per diverse testate di approfondimento, tra cui L’Indice dei libri del mese, minima&moralia, il Tascabile. Libraia indipendente, fa parte della redazione del magazine letterario The FLR -The Florentine Literary Review.

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