I cordoni della poesia n. 6: Tendere al futuro

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Leggendo una poesia di Roberto Bolaño, per il canale streaming di «Decamerette», ho involontariamente sostituito in piedi ci sono solo i cordoni / della polizia con in piedi ci sono solo i cordoni / della poesia, mi è parso da subito uno dei più bei refusi di sempre. L’idea di una nuova rubrica è nata quel giorno, un appuntamento che facesse l’esatto contrario di ciò che fanno i cordoni della polizia: avvicinare. Accorciare le distanze. Per ogni numero si parlerà di una, due o più poesie, di vari poeti, cercando un filo comune, facendo sì che versi lontani si tengano per mano.

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Prendiamo un habitat, e non limitiamoci al luogo, o all’insieme di cose che sommate chiameremmo così. Prendiamolo come senso più pieno del nostro sostare, come sinonimo di ciò che ci compone. La nostra casa, le nostre case, i mobili, gli oggetti a noi cari, i libri, i bagagli. Prendiamo i sentimenti, i dolori, gli attraversamenti. Guardiamo alla nostra voglia di crescere, di migliorare. Osserviamo gli errori, anche quello è l’habitat. L’habitat è natura ed essenza e tutto quello che ci tiene insieme e tutto quello che proviamo a tenere insieme, nel tempo, negli anni, nelle fortune, negli affanni. Tenere insieme i disastri e i giochi che abbiamo fatto da bambini. La cosa vecchia che abbiamo scritto, la cosa nuova che abbiamo immaginato. Portiamoci sulla strada, e la strada non è mai diritta, è come una spirale. Così ci si avvolge intorno, e a volte il punto siamo noi, altre il punto non c’è. Teniamo insieme il presente, scandiamolo attraverso ciò che siamo capaci di sognare, quel che resta da sognare e il giorno dopo fissiamo quel che resta del sogno. Ripartiamo da lì. Dal nostro sgomento, dalla parte più piena e più vuota del nostro turbamento.

Da quel preciso istante, da quella svolta, di luce e d’ombra, dovrebbero arrivare le poesie da leggere. Stagioni della catastrofe, come le poesie di Gianluca D’Andrea, nell’attesa apparente come le prose di Sergio Rotino, nelle cose quiete e inquiete dei versi di Gabriel Del Sarto, oppure le reazioni, le contromosse che saltano fuori dai testi di Federico Italiano. Sono questi quattro i poeti di questo numero, andiamoli a vedere, sì, non a scoprire, a vedere.

Le prose, microprose, versi allungati come in un tessuto che si dilata, di Sergio Rotino, arrivano da un mondo che pare sognato. Un deserto oscuro, abitato da alberi alti, da note notturne, piccole favole nere, che tendono a raggiungere un centro, un cosmo oscuro, dal quale paiono sopravvenire le parole. E ogni parola tiene dentro più significati, reca in sé il male e la cura, lo spazio ordinario e le visioni da fantascienza. Il tempo e il non tempo. Sono racchiuse in un libro molto bello che si intitola Narrazioni (Seri editore, 2021). Il verso, dicevamo, si allunga provocando un effetto elastico e uno stato d’ansia, perché l’attesa a cui il poeta ci chiama sembra non sciogliersi mai, ogni cosa prosegue, ogni cosa non finisce, lo stabilisce l’assenza di punteggiatura. Lo lascia immaginare Rotino: non finisce niente perché tutto è già concluso. Un testo molto bello fa così:

«da stanza luminosa a stanza luminosa il sole onnipresente lo insegue attorno gli veste la prigione meravigliosa della realtà che lui
non sa da cosa abbia avuto origine ma c’è ovunque esiste lo brucia lo acceca qualunque atto compia e se un attimo si fermasse per un attimo
si arrendesse alla sua ferocia naturale potrebbe forse riconoscerne la ragione quanto in essa ha valore la stanchezza il dolore di scegliere parole
già dette altrove da altri dette senza successo alcuno»

La prigione meravigliosa della realtà, scrive Rotino, che lui (chiunque sia) non sa da cosa abbia avuto origine. Esiste il reale ed esiste tutto il resto, ed è così forte l’esserci di tutte le cose, da bruciare, da essere accecante. Rotino usa ferocia e usa stanchezza, usa arrendersi e usa senza successo. Usa attimo ma dice eterno, dice perdita, dice inutilità, dice addio, un addio che lui e noi recitiamo ogni giorno. Questo testo inquieta ma ci riempie di ammirazione perché – che il verso sia breve o si allunghi – la capacità del poeta sta nel trascinarci in una visione, in un possibile che non conosciamo, o in un impossibile cui dovremmo ambire. Fallendo, in ogni caso, perché ogni cosa non può che essere narrata – perfino il dolore – se non con parole già scelte da altri, già piene di troppi significati.

Capita di riconoscersi e – molte volte – di arrivare alle soglie della commozione, leggendo le poesie raccolte in Habitat (Elliot, 2020) di Federico Italiano. Accade per il perfetto incedere del linguaggio, della carrellata di immagini che scorrono verso per verso, e da quelle altre sognate (o tempo addietro pensate) che andiamo ad aggiungere, assolvendo al nostro compito di lettori di poesia. Sono poesie fatte di provincia e di città europee, di slanci e di desideri, di oggetti che fanno da perno sul quale far ruotare un ricordo, un sentimento. Poesie di auto, animali, boschi, cimiteri. Sono poesie d’amore, di nostalgia. Italiano vede il passato all’indietro, e questa non è altro che l’azione che conosce per immaginare il futuro. Il Piemonte, la Lombardia, la A4, la Germania, una vecchia Audi insieme al ritmo, alla metrica, a un immaginario che cattura, come succede davanti a un film particolarmente riuscito. Una poesia che amo particolarmente fa così:

«Sotto questa pioggia di fine inverno
si andava a visitare le zie,
a Galliate, con l’Audi 80
color senape – per anni, il nostro unico
animale domestico.
Dal sedile posteriore guardavo
i condomini razionali e i tetti
di villini nascosti,
sotto cui m’immaginavo l’austera
pace di un cacciatore
appena rientrato dalla Namibia
o le teche segrete
in cui un vecchio dottore
conservava insetti e altri mirabilia».

Si tratta di un testo che viaggia su un doppio, anzi un triplo registro. Nel primo, Italiano, fa scorrere una serie di frame dal passato, dal quale lascia che passi l’immaginario di un ragazzino, il suo modo di osservare e di registrare. Nel secondo, c’è lo scatto in avanti, lo stesso ragazzino sostituisce con la fantasia la visione reale e negli ultimi cinque versi entrano molti mondi fantastici e lontani, ma non vi entrano per caso, è proprio quel viaggio usuale verso le zie, quella quotidianità, quel paesaggio – che vediamo con chiarezza – di condomini e villini nascosti che fa la crepa dalla quale entrano le visioni del poeta e l’indispensabile ricerca fantastica del ragazzo. Nel terzo registro c’è il tempo in cui Federico Italiano si è seduto, ha scritto il testo e ha immaginato di nuovo. Habitat è uno dei libri più interessanti che mi sia capitato di leggere negli ultimi due anni, è qui per questo.

C’è un ragionamento profondo e complesso all’origine del libro più recente di Gianluca D’Andrea: Nella spirale (Industria&Letteratura, 2021). Un pensiero strutturato, un groviglio formatosi dai sentimenti che sono andati a poggiarsi sulla ricerca di senso. Un libro che genera molte domande e che – come D’Andrea sa – non può offrire risposte, ma riesce ad aiutarci a sostare dentro questo tempo incerto, multiforme. Stagioni di una catastrofe recita il sottotitolo e non vuole dirci solo delle stagioni temporali che si susseguono lungo gli anni. Ci dice, soprattutto, che la catastrofe c’è, è avvenuta, si manifesta ogni giorno, noi possiamo resistere al suo interno, in sua compagnia, trovando nuovi significati alle nostre azioni, modificando la percezione di oggetto, mischiando la sua alla nostra fragilità. La spirale con i suoi significati scientifici, matematici, filosofici, ci interroga mentre ci avvolge e più avanti ci dispiega, ci rilascia in un ambiente già cambiato, dentro uno stato di cose che si è spostato. Perché tutto si sposta. Il libro è retto da quaranta testi, tra prose e versi tradizionali, uno che può aiutarci ad attraversarlo meglio è questo:

«L’adattamento è sempre il sorgere del sole in cammino. Mi appello ai piedi, al continuo movimento che non conosce compromessi, semplicemente s’immerge passo dopo passo.

Eppure questi sono giorni di protesta e sdegno, perché la bestialità della vita sociale, coatta, del collettivo che non è comune, porta a discriminare e circoscrivere frammenti di mondo: separati, bloccati nel loro habitus che non riesce a trasformarsi in habitat, non abbatte i suoi confini.

«Camminavamo dal sorger del sole, stavamo diventando neri».
(A. Carson, Antropologia dell’acqua)

Diventare. Movimento che trasforma e adegua i passi a un terreno sempre nuovo. Non è solo passeggiare, andare a una meta. L’unica meta, sempre provvisoria, è nera e brucia l’essere nella necessità, essere del tutto nero è la fine di un cammino che non può arrestarsi – ormai il mio corpo, non solo le mani, si muove anche mentre scrivo, mentre sono sdraiato e perduto per sempre nel tempo, nel mio sbiancamento che non posso non vivere come una colpa.

Il bianco non ha importanza, è estinto, conta solo il raggiungimento del nero, la superficie terrea che attraverso:

«ed ebbi la sensazione che questa fosse l’epoca eroica, sebbene nessuno di noi ne sia consapevole, essendo l’eroe generalmente il più semplice e il più oscuro degli uomini».
(H. D. Thoreau, Camminare)».

Questo testo – come molti altri del libro – apre il confronto continuo con altri autori, qui Carson e Thoreau, chiamati in causa circa il camminare, il movimento. Non si tratta di passeggiare, scrive D’Andrea ma di tendere a una meta, provvisoria però. Il corpo non può smettere di muoversi dopo essere stato fermo, chiuso in uno spazio, costretto alla staticità. Si muove il corpo e nasce una nuova ricerca di senso. Nuovo è il terreno da calpestare, nuova è la persona che lo calpesta. Il primo blocco racconta l’interno, parla di frammenti circoscritti, di confini, certo. Il secondo blocco apre, ma lo fa senza valicare il confine, ma rimodulandolo, attraversandolo, spostandolo. La spirale ci avvolge, la spirale ci dispiega in campo aperto, e oggi è la pianura lombarda, dove D’Andrea vive, ma cinque minuti dopo è il cosmo, è la speranza, è guardarsi intorno, trovare qualcuno. Il raggiungimento del nero, di noi stessi, dell’altro.

Raccoglie i testi di tutta una vita il nuovo libro di Gabriel Del Sarto ed è anche per questo che si intitola Tenere insieme (Pordenonelegge – Samuele editore, 2021), ma le ragioni del nome sono anche altre e sono tutte importanti. Del Sarto è un poeta di grande ricchezza, di notevole capacità espressiva che ha sempre saputo giocare con gli elementi della memoria, del quotidiano, ha sempre avuto il coraggio di domandarsi quale futuro ci aspetta, in che modo arrivarci. Ha scritto progettandolo il futuro, osservando tutto ciò che gli ruotava intorno dalla cameretta alla camera da letto, dalla cucina alle finestre, dai giardini al campetto, dalla scuola alla vita, dall’essere figlio all’essere padre. Del Sarto ha tentato di stare nelle cose, tessendole come si fa col filo, trovando le trame nascoste, piangendo e ridendo. Mi pare che abbia parlato di sé e, così facendo, abbia raccontato noi. Le nostre misure, le derive, le ansie, le tenerezze. Il poeta con i suoi dubbi e le sue stanchezze, con le immagini di gioia e di sofferenza, con la sua ricerca e, all’interno di questa, il cercarsi, il ricomporsi, il riconoscersi. Tenere insieme, quindi, una poesia molto bella procede in questa maniera:

«La fiamma bianca delle luci del Centro
Commerciale divampa nel cuore
della nostra zona, lama
fra le tapparelle di plastica sottile.
Siamo qui, lasciamo scorrere sotto
la finestra di questo ufficio il traffico
delle auto sul cavalcavia, persone vetri
e metallo. Stare silenzioso di fronte
a te, in questa penombra. Un’ora,
e il tempo si allontana attraverso il tempo
nei milioni anni luce, e questo fidarsi,
sai, di esserci ancora stasera al mondo».

Questi versi mi somigliano, sembra che guardino al mio modo di guardare, me lo spiegano. Non saprei chiedere di più a una poesia, scritta da qualcuno che non ho mai incontrato, soltanto ammirato. La chiave è quel Siamo qui al quinto verso, la tenaglia che ci agguanta e che ci porta sulla scena. A quel punto possiamo sentire il rumore della tapparella di plastica, accecarci alla luce del Centro Commerciale, specchiarci nello scorrimento del traffico. Silenziosi di fronte a te, che sei tu stesso o chiunque tu voglia, tu possa. Sentire ciò che abbiamo sentito, come il vibrato che fa il tempo mentre si allontana routinario e terribile, eppure immenso, eppure confortante. Del Sarto ci porta nella penombra e negli anni luce, annulla lo spazio, ci ricorda la fiducia. Noi lettori ci fidiamo, ci troviamo.

 

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