I cordoni della poesia n.7: Scomporre un sentimento
Leggendo una poesia di Roberto Bolaño, per il canale streaming di «Decamerette», ho involontariamente sostituito in piedi ci sono solo i cordoni / della polizia con in piedi ci sono solo i cordoni / della poesia, mi è parso da subito uno dei più bei refusi di sempre. L’idea di una nuova rubrica è nata quel giorno, un appuntamento che facesse l’esatto contrario di ciò che fanno i cordoni della polizia: avvicinare. Accorciare le distanze. Per ogni numero si parlerà di una, due o più poesie, di vari poeti, cercando un filo comune, facendo sì che versi lontani si tengano per mano.
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Prendiamo un sentimento, uno qualunque, guardiamolo in faccia, strattoniamolo, teniamolo per mano; schiaffeggiamolo. Scomponiamolo, ma non in sillabe; se si potesse sarebbe da scomporre in note musicali, perché è una questione di accordi, ma qua ci interessa scomporlo in strati, diluirlo in più parti o momenti. Il sentimento, si sa, è più questione di tempo che di cuore, oppure di cuore in relazione al tempo, al luogo, al modo in cui stiamo. Il sentimento accentua o riduce il nostro grado di sensibilità. Solo più avanti, solo molto dopo, determina evidenze come la risata o il pianto, il bacio o l’addio. Il sentimento c’entra col romanticismo, ma appartiene al ragionamento, un altro tipo di ragionamento, sono d’accordo con voi. Il sentimento è una domanda, è un terreno incolto, è una spiaggia, una collina, un pilastro, un solaio, una casa. E subito dopo è una frattura, una crepa, un crollo, uno schianto. Per ognuna di queste evidenze è un precipizio, un chissà, un dovunque, un forse, un vortice, una vertigine, un dirupo, una bestemmia. Una carezza, ve lo concedo. Viene e va il sentimento, che sia odio che sia amore, e poi affetto, malinconia, nostalgia, e – allarghiamoci – simpatia, empatia, disprezzo, tristezza, allegria, rimpianto, rimorso, tormento, ansia, angoscia. E così via, come prendi tutto questo e lo metti in poesia? Come lo fai senza annoiare, senza disturbare, senza ridondare? Il modo c’è, i modi ci sono, e sono diverse le poete e i poeti che ci riescono ancora, nonostante tutto.
«Passano con furia di piano in piano,
la smania di raggiungere
la camera, fare quelle cose
da grandi – anche noi, ricordi?
stavamo a vent’anni su
e giù, un’apertura continua
di porte specchi passaggi
eppure lei ha quel taglio da punk
gli occhiali storti nella foto dove
tu eri ancora tu, e il gioco
credevamo fosse facile – bloccare l’ascensore,
intrecciare le mani, bastarci»
Qui, nei versi di Alessandra Corbetta (da L’estate corsara, Puntoacapo editrice 2022), la parola sentimento è davvero percorsa, trafitta e scossa in vari segmenti. È una poesia d’amore? Certo che sì, tutta l’estate corsara di Corbetta è una lunga (ma velocissima) stagione d’amore. Ma ci interessa come strumento d’indagine perché non è soltanto d’amore, è una poesia fatta di corpi e di immagini che si scambiano di posto. Chi scrive osserva qualcuno che passa di piano in piano, con la furia, con la smania. C’è una fretta evidente e in quella fretta insiste il desiderio, esiste la gioventù che tende alle cose da grandi, scaraventarsi in una stanza, crescere, prima di tutto, imparare dove mettere le mani e il cuore. Ma c’è ancora da scomporre, perché al quarto verso c’è un primo decisivo stacco: anche noi, ricordi?; ed ecco che quelli che passano non sono più soli, e non stanno più soltanto al tempo presente, ma sono coniugati nel tempo che la poeta sceglie per loro, quello di altri vent’anni. Un periodo di altre frette, mani e felicità, un periodo che nell’ansia dei nuovi ventenni si fa nostalgia, e allora l’apertura continua non è più possibile. E qui scomponiamo in malinconia, in rimpianto, leggendo di lei che ha quel taglio punk, con il quel che continua il gioco di rimbalzi tra passato e futuro; e poi lasciandoci inchiodare da quel tu eri ancora tu, perché la poesia funziona se in quel tu stiamo anche noi, se quel credevamo fosse facile è uscito almeno qualche volta dalle nostre labbra. Alessandra Corbetta ha scritto un libro bello in cui i sentimenti si agitano tra tempo, luogo e spazio, attraverso immagini molto riuscite, in cui si recuperano amori ma non solo, si fa il conto con le scelte, quasi mai sbagliate, soltanto scelte. Un libro in cui si può restare incantati leggendo versi come: Se piangi, Livorno dura per sempre. E non importa se non conosciamo Livorno perché individuiamo un sentimento che ci è appartenuto, che tuttora ci attraversa. O riconoscere influenze novecentesche leggendo: Nel nostro breve corpo eri un’ombra / troppo lunga, un’assenza già presente. E capiamo di assenza già presente e ancora presente e inevitabilmente distante. Perciò Corbetta scrive un libro sentimentale ma capace di osservare e contenere, di guardare da qualche parte che non sia solo il passato, ma avanti oltre le spalle.
«La mia persona cara
ha imparato a scavare una buca
è una donna con la vanga.
Si aggira di notte in cerca di un terreno su cui fare breccia
la riconosco appena, è un’ex bambina
alta, nata oltre il termine
di decenni oppure rinata per avverarsi
seppellisce un cappello e due voci in dolby
o me o loro, tagliatele la testa.
La mia persona cara a pensarci bene
sembra una strega
a ogni passo misura l’impatto della vanga
quanta forza ci vorrà
per bucare il mondo».
Quando leggo questa poesia di Francesca Gironi (da Il diretto interessato, Marco Saya, 2021) penso a un racconto di Silvina Ocampo, Soffitto a lucernario (è quello che apre Un’innocente crudeltà edito da La nuova frontiera) quello in cui viaggiano bauli con rumore di temporali, ma la famiglia non viaggia mai; quello in cui tutti i piedi che entrano si trasformano in ginocchia; in cui l’immaginario di una bambina ricostruisce la vita della famiglia che sta lassù, oltre il lucernario, ed è fantasia, stupore, immaginario macabro, addirittura terrore. Tutto però sta nella testa della bambina, perciò è vero è falso, tutto sta nella forza della scrittura di Ocampo, nel suo mondo sognato. E qui, in questo testo, di Gironi quel mondo si ricompone davanti ai miei occhi, la persona cara chi è se non la figlia di un sogno, e sta in un doppio scenario, quello della prima strofa, lo spazio in cui la vanga – passando nelle mani di chi legge – scava una buca e ci sembra subito la fossa per una bara. E poi continua, la persona cara, si aggira di notte, in cerca di un terreno e qui arriva lo scarto: è un ex-bambina / alta, nata oltre il termine / di decenni; qui il lettore non può far altro che fermarsi, tornare indietro e rileggere, l’ex bambina e forse chi scrive, la persona a noi più cara siamo noi stessi? Ma Gironi gioca e scarta ancora: tagliatele la testa, qui nel regno fantastico che è il regno del presente osservato in altro modo, la persona cara che è stata bambina, che è ex bambina ora sembra una strega, e questo rilassa noi lettori perché stiamo entrando nel punto della chiarezza, nel punto in cui il nostro immaginario può camminare da solo tra i versi di Gironi. Leggiamo la poesia, respiriamo un po’, raccogliamo le forze, misuriamo l’impatto della vanga e – dopo aver ringraziato chi ha scritto – affondiamo la vanga in ogni terreno, in ogni giorno e, a quel punto sì, che lo buchiamo questo mondo. Il diretto interessato è un piccolo libro pieno di perle, di forza e di ironia che da sempre accompagna la poesia di Francesca Gironi (anche quando la esegue, un po’ strega, un po’ bambina davanti al pubblico). Una poesia fatta di domande e di persone che sono innamorati o amministratori di condominio, animali, danzatori, ferrovieri, palloni, cerchi, ladri come questi: «I ladri hanno fatto irruzione di notte / col mio benestare». Una poesia colorata che scompone il sentimento in passi di danza, in colpi di vanga.
«Le cancellate chiuse sulle bocche in entrata
l’occhio penetra nelle arcate del sogno
l’istante è un mistero che si apre
un lungo corridoio di oggetti caduti
vicolo dove si muove il senso
Nel caldo movimento dei corpi la parola
ferita del tempo a ritroso
sapere che è accaduto
uscire nella realtà come in un sogno chiuso».
E se fosse inciso (e reciso) per sempre da un taglio il sentimento che stiamo seguendo? L’immaginario che stiamo creando? Il penultimo verso di questa poesia di Anna Franceschini (da Pietre da taglio, Kurumuny, 2021) mi colpisce a fondo, perché convoglia in sé tutto il metallo, il ferro e il piombo con i quali ci siamo fusi nel tempo, e sì – tutte quante – le parole vanno a convergere in quel sapere che è accaduto; e non importa sul serio sapere cosa sia accaduto e a chi, perché quel verso punta gli occhi su di noi, sta al lettore tirare fuori quel che è capitato e quando e dove. Ora, se Franceschini si muove in un territorio sospeso tra il reale e il sogno (come se poi ci fosse uno spazio meno vero di quello sognato), in un mondo tutto diventa sovvertibile, raccontabile e forse sopportabile, noi possiamo fare nostro tale immaginario, dargli forma come se il sogno chiuso dell’ultimo verso fosse la narrazione possibile, in metrica rigida, delle nostre cose, storie, amori e perdite. Come se il campo del sogno, sempre pensato come vasto e senza regole, fosse per Franceschini, invece un universo (perciò vasto) ma che ha un certo punto finisce, non si può andare oltre quell’istante che è un mistero e bisogna restare amanti o, quello che vogliamo, nel silenzio dichiarato sulle bocche nel primo verso. Il sogno ci chiude con una cancellata sulle bocche, e perciò è uno schiaffo dolce che consente il livello successivo, i versi a continuare e a chiudere. Il mondo di Anna Franceschini è denso di saliscendi che orientano i versi tra il reale e l’onirico, tra il desiderio e il possibile, tra lo sguardo e il sopportabile, leggendola si entra in una sorta di stanza piena di cose, che d’incanto cominciano a girarci intorno, e non è la stanza di un hotel, e non è la nostra cameretta da bambini, è entrambe le cose. Viviamo uno stare senza aver bisogno di stare, ma solo di passare di verso in verso, di sogno in sogno. E attraversiamo ognuna di queste pietre da taglio, contarle, toccarle e, qualche volta, lanciarle, rispondendo con esattezza ad altri due versi molto belli: «dire sempre meno che non è nulla / morire per un’immagine che si è perduta». Il punto è che prima di morire quell’immagine noi abbiamo avuto il tempo e il modo di vederla.
«Nessuno può trovarti – ma quella cosa
crepita ancora come giocare al gioco di
non respirare e non parlare, che accade
sempre quando due iniziano a riconoscersi –
prima lei poi lui poi lui poi lei poi lei poi…
Tutti, prima o poi… nascondono una cosa –
nel vaso del basilico, uno dentro l’altro,
nell’uovo che cuoce, uno dentro l’altro –
e adesso, come la tortora prende l’erba,
adesso che la perde un po’ volando…»
E allora il sentimento può nascondersi, come sappiamo, ma non riesce mai a sparire. Non scompare nemmeno dopo che non lo si prova più, a volte può sostare, come in un vecchio album di fotografie, tra le pagine che ingialliscono e poi saltare fuori dalla polvere da cui qualcuno lo ha tirato fuori, per nostalgia o per curiosità. Maria Borio è molto brava a disperdere il sentimento in miniature, in frammenti dislocati in un mondo vasto come quello di un film di Antonioni; oppure a celarlo in altri segmenti più domestici, casalinghi che agiscono per contrasto, come succede in questa poesia molto bella (da Dal deserto rosso, ed. Stampa 2009, 2021). Il testo è tratto da un piccolo volume, curato benissimo, che tiene le poesie di Borio e le accompagna con immagini di Linda Carrara. Borio parte da una figura femminile, da un profondo disagio, uno scompenso che muove l’ambiente e sfuma i contorni, proprio come nel film di Antonioni, ma slega il suo immaginario da quello del regista. Nessuno può trovarti comincia così questa poesia, ma io ti parlo, mi rivolgo a te e non importa chi tu sia, che esista oppure meno, conta la mia voce e la storia che ricompongo. Qualcosa crepita ancora, come le cose degli inizi che accadono sempre quando due iniziano a riconoscersi; e colpisce questo punto che lascia entrare il lettore in un campo in cui intravedere, ancor prima di leggere la strofa successiva, quello che viaggia da subito con riconoscersi, ovvero il nascondersi e il nascondere. Appena impariamo qualcuno, pare dirci, Borio, nell’istante in cui lo riconosciamo accanto a noi, già a quel tempo, prendiamo a nasconderlo, dentro di noi o chissà dove, insieme alle altre cose che nascondiamo, e al contempo perdiamo. Funzionano benissimo gli accostamenti successivi, il passaggio tra vaso del basilico, l’uno nell’altro, l’uovo che cuoce, l’uno dento l’altro ancora, fino alla chiusa che scioglie e non salva, perché perfino volando si perde qualcosa. La cosa. Anche per Borio il sogno è parte viva della realtà, uno strumento che consente il margine giusto al racconto poetico, la traccia da seguire, il deserto in cui trovare la cosa nascosta, la parola salva. Come quando scrive: «Come si dimentica? Cosa si desidera?»; oppure scivola così: «[…] Poi c’era una cosa più lontana, una scintilla, / un volto, un sogno lucido: il cambiamento?».
Gianni Montieri, è nato a Giugliano in provincia di Napoli. Scrive per Doppiozero, minima&moralia, Esquire Italia, Huffpost e il manifesto, tra le altre. Prova a incrociare la letteratura con lo sport per L’ultimo uomo, Rivista Undici. I suoi libri di poesia più recenti sono Ampi margini (2022) e Le cose imperfette, editi da Liberaria. Ha pubblicato per 66thand2nd due titoli Il Napoli e la terza stagione e Andrés Iniesta, come una danza. Vive a Venezia.
Altre info qui:
https://giannimontieri.wordpress.com/biografia/