“I lupi di Willoughby Chase” di Joan Aiken, la più grande autrice per ragazzi che probabilmente non avete mai letto
di Silvia Schiavo
Ci sono almeno due modi di leggere un libro: da fuori – parti dal principio e, frase dopo frase, ti lasci trasportare nel mondo che ti viene raccontato, con i suoi personaggi e le sue regole – e da dentro. Leggere da dentro significa saper vedere e comprendere le scelte di trama e di stile, giusto per dirne un paio, che hanno forgiato la storia così come l’abbiamo ricevuta.
Chi lavora con la scrittura e con le storie impara a leggere i libri da dentro. Un po’ come fa Joseph Cooper-Matthew McConaughey in Interstellar, quando si ritrova in una dimensione che lo mette in contatto con la libreria di casa e da lì dentro riesce a comunicare con l’esterno in modo differente.
Leggere da questa prospettiva insegna molto. Una delle lezioni più importanti che ho ricevuto riguarda il fatto che, ogni volta che si cerca di imbrigliare la scrittura e la narrazione in qualche regola pronta all’uso, spunta fuori una storia che sbugiarda tutto su due piedi.
Così accade con I lupi di Willoughby Chase di Joan Aiken, approdato anche in Italia grazie ad Adelphi e alla traduzione di Irene Bulla. “Questo libro è ambientato in un periodo immaginario della storia inglese, subito dopo l’ascesa al trono di Giacomo III, il Re Buono, nel 1832” informa il prologo che mantiene la promessa implicita: non mancano, infatti, un pizzico di fantastico e un narratore onnisciente, proprio come si confa’ a una narrazione ottocentesca.
Era il crepuscolo di un giorno d’inverno. Un tappeto di neve bianca e lucente rivestiva le curve delle colline, e nella foresta piccole stalattiti pendevano dagli alberi. Sin dall’alba, sulla strada buia che attraversa l’altopiano di Willoughby, centinaia di uomini erano al lavoro con scope e vanghe per liberare il passaggio dai cumuli di neve. Avvolti nella tela da sacco per difendersi dal freddo pungente, stavano vicini, a gruppi, per paura dei lupi, che la fame aveva reso feroci e temerari.
Le tenebre, la neve, i lupi. E i fragili umani, avvolti nella loro tela da sacco.
Dove c’è un lupo c’è qualcuno in pericolo, suggeriscono le storie. In questa, i lupi sono arrivati dalle pianure russe ed europee grazie al tunnel che collega Dover e Calais. Topos per eccellenza della letteratura per ragazzi, il lupo in questo romanzo è solo apparentemente al centro della narrazione. Temuto dalle persone e feroce, come ci si aspetterebbe, resta ai margini della scena che viene occupata, pagina dopo pagina, dai veri pericoli. È in questo scenario che iniziano le avventure di Bonnie e Sylvia, due cugine che si troveranno ad affrontare sfide molto più grandi di loro. Bonnie e Sylvia: una delle coppie che si susseguono nella narrazione in un gioco di doppi che coinvolge grandi e piccoli, vittime e carnefici, umani e animali.
Il romanzo di Aiken contiene moltitudini. Brian Phillips, che firma il bellissimo saggio sull’autrice e i suoi lupi pubblicato a fine volume, si diverte a contare i cliché letterari sparpagliati nel romanzo. Si ferma a otto, solo per non togliere il divertimento di proseguire a chi vorrà leggere il libro da dentro. Perché di questo si tratta, di un divertissement di Aiken che scardina ogni regola da manuale di scrittura.
Il già-detto è l’incubo di chi racconta perché, si raccomanda, dai cliché ci si tiene alla larga. I più esperti ci giocano con cautela, uno alla volta. Poi c’è chi, semplicemente, non tiene conto delle regole e traccia la propria strada, come fa Aiken. La naturalezza con cui sparge tòpoi e archetipi in quantità, con cui infittisce la trama e la scioglie non una ma innumerevoli volte all’interno della stessa storia crea una sorta di stupore che si evolve in meraviglia mano a mano che si entra nel suo mondo.
Dal saggio di Brian Phillips:
In campo letterario, Aiken predilige quella zona d’ombra in cui il realismo ottocentesco scivola nel folklore e nel fantastico. È il regno di assurdi personaggi tipo e di congegni narrativi obsoleti: governanti crudeli, orfani dal cuore d’oro, testamenti contraffatti, passaggi segreti, parenti ritrovati, sosia, indizi nascosti nei quadri, naufraghi, coincidenze, morti che tornano all’improvviso. Ma invece di selezionare con parsimonia uno o due di questi elementi, come avrebbe fatto un altro scrittore, Aiken li accatasta l’uno sopra l’altro nelle sue classiche trame improbabili. Un orfano ingiustamente diseredato può irritare, ma due orfani ingiustamente diseredati nello stesso romanzo sono ben altra cosa; ed è esplorando questo territorio – con la sua frivolezza e la sua sorprendente profondità – che i romanzi di Aiken diventano così complessi e così stranamente toccanti.
In un’epoca in cui le regole e gli algoritmi normano la natura di molte storie – penso alla serialità televisiva, sempre più uguale a sé stessa, o a tanta prosa figlia di corsi di scrittura che riducono tutto a frasi brevi, trame lineari, pochi personaggi – tuffarsi in un mondo narrativo che scardina ogni certezza è una ventata d’aria fresca, oltre che un sollievo. La scrittura, come altre arti, dovrebbe aprire possibilità più che dare conferme. È bello che accada in una storia per ragazzi.
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Nota a margine: I lupi di Willoughby Chase è anche l’occasione per ritrovare la scrittura felice del già citato Brian Phillips, incontrato ne Le civette impossibili, sempre Adelphi, tradotto da Francesco Pacifico. “Il buio non gli dà fastidio. Anche il buio è magico. Quando c’è la luna guarda il vento spazzare le foglie da terra, come un grosso braccio che si solleva. Ascolta la musica che suona chissà dove, la fisarmonica che sospira sempre la stessa canzone, il tango Sole stanco. Dopo l’ora della buonanotte il buio se lo mangia tutto il lupetto grigio, che, a sentire la ninna nanna che gli canta sua madre, se dorme troppo vicino al bordo del letto lo rapirà e lo nasconderà nel bosco sotto il salice. Il lupo per lui è assolutamente reale”.