Il diario per John di Joan Didion
«[…] ma già mi stava conducendo in luoghi dove non ero sicura di voler andare».
La verità è che noi non vorremo morissero mai. Le scrittrici e gli scrittori che amiamo li deisderiamo sempre in vita. Ci raccontiamo la storia – del resto era proprio Joan Didion che affermava che ci raccontiamo storie per sopravvivere – che in fondo non sono morti davvero, che le loro opere (che possiamo leggere e rileggere ogni volta che vogliamo) li hanno resi immortali. Ed è così, in parte è così. È così per David Foster Wallace, ma nessuno ci ha impedito di fiondarci in libreria all’uscita dell’incompiuto Il Re pallido (Einaudi, traduzione di Giovanna Granato); o di attendere trepidanti come a un primo appuntamento quando sono uscite le poesie e i racconti mancanti di Roberto Bolaño (Sur e Adelphi, traduzione Ilide Carmignani), e questi sono i casi più recenti e eclatanti.
Ogni volta che salta fuori un inedito impazziamo e, allo stesso, tempo ci domandiamo se l’autore lo volesse pubblicato davvero, se sarebbe stato meglio lasciarlo dov’era, se quell’opera era stata nascosta da chi l’aveva scritta perché semplicemente non gli piaceva, non aveva fatto in tempo a lavorarci, non aveva voluto lavorarci. Se. Noi però vogliamo quelle parole seppur non lavorate, seppur qualche volta grezze, perché è pur sempre Foster Wallace, è pur sempre Bolaño, è pur sempre – come vedremo oggi – Joan Didion.
In quel libro c’è una delle più belle pagine di Foster Wallace, nei racconti di Bolaño troviamo altri pezzi del suo infinito puzzle letterario, così come nelle poesie. In Joan Didion, nel suo Diario per John (Il Saggiatore 2025, traduzione di Sara Reggiani) troviamo di nuovo la sua bravura, ma incrociamo una straordinaria fragilità che non ha fatto in tempo a passare dalla penna di chi scrive il diario a quell’altra che lo trasforma in opera letteraria, è rimasta intatta, non mutata, grezza, timida, pura e mette quasi paura. Ce la prendiamo con i parenti, ce la prendiamo con gli editori, con gli agenti, noi lettori attenti, noi ai quali non sfugge il dettaglio, l’aggettivo non sottratto, l’avverbio non lavorato. E, negli stessi frangenti, li perdoniamo, perché hanno soddisfatto una nostra curiosità, hanno portato davanti ai nostri occhi parole che non avremmo avuto modo di leggere e, di colpo, non ci importa più di conoscere il desiderio, la volontà nascosta di Didion. Se lasci in giro una cartelletta con dei fogli scritti, cara Joan, è meglio che tu lo sappia, diventeranno un libro e tu non potrai farci niente e forse va bene così anche a te.
Ho risposto che secondo me si induceva il senso di colpa. Si spingeva a pensare di dover fare qualcosa, per poi non farla e sentirsi in colpa per questo.
Diario per John è il resoconto dettagliato di un periodo della vita di Didion, periodo che comincia nel novembre del 1999, una fase temporale durissima durante la quale la scrittrice comincia a vedere uno psichiatra. Erano anni difficili, confidò a un’amica. Per molti mesi, in modo meticoloso, estremamente preciso, Didion, scrisse un diario per suo marito, dove venivano riportate le conversazioni con lo psichiatra, senza togliere niente, senza risparmiarsi. Parola per parola, seduta per seduta. La scrittrice rivela molto di sé, cose che non conoscevamo, cose che non immaginavamo, cose intime. Le sue paure, le sue angosce, la sua fragilità. Il rapporto difficile, complesso con la figlia Quintana, il dolore, il rimpianto, il senso di perdita, il vuoto. Nel diario parla di questo, Didion, e nel frattempo trova modo di confrontarsi con il suo lavoro, con il senso della scrittura, di andare indietro, all’infanzia, metaforicamente, anche prima. Didion, tra le altre cose, scrive della sua tendenza (o capacità) di anticipare le catastrofi, che naturalmente durante una seduta psichiatrica non appare come un talento ma come un pericoloso istinto.
Ho detto che non capivo il motivo di questa ostilità, che non le stavo facendo nessuna domanda, cercavo solo di mantenerla in vita. Perché giorno dopo giorno si stava uccidendo.
La grazia e la tecnica di Didion emergono anche in queste pagine, anche se prevale uno strano controllo più pericoloso dell’abbandono. Alcuni passaggi paiono troppo misurati, si avverte la fatica di Didion, si avverte il tentativo di misurare ogni parola con il rispettivo stato d’animo. La scrittrice sa che sta facendo qualcosa che non è ancora letteratura e allora con la penna in mano trema un poco, ma la sua voce sale, a volte grezza, a volte pura e, in qualche modo, ci conquista. Leggendo questo diario abbiamo varcato una soglia troppo privata? Chi può dirlo. Sono sicuro però di una cosa, quando Joan Didion scrive sa che sta accadendo qualcosa che poi influenzerà qualcun altro, anche se si dovesse trattare solo di John. A lui sarebbe passata – e se ne sarebbe accorto – tra le pagine almeno una traccia di invenzione letteraria. Perciò, ce la prendiamo con gli agenti, critichiamo la scelta di pubblicare pagine tanto intime, ma poi le vogliamo leggere, le vogliamo commentare, perché – al netto di tutto – sono di Joan Didion, una scrittrice indimenticabile.
Gianni Montieri, è nato a Giugliano in provincia di Napoli. Scrive per Doppiozero, minima&moralia, Esquire Italia, Huffpost e il manifesto, tra le altre. Prova a incrociare la letteratura con lo sport per L’ultimo uomo, Rivista Undici. I suoi libri di poesia più recenti sono Ampi margini (2022) e Le cose imperfette, editi da Liberaria. Ha pubblicato per 66thand2nd due titoli Il Napoli e la terza stagione e Andrés Iniesta, come una danza. Vive a Venezia.
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