Incontro al vertice un inedito basato su personaggi e situazioni tratti da “La conca buia”

di Claudio Morandini

Può capitare che vengano in mente, a cose fatte, cioè a libro pubblicato, nuovi spunti che, se fossero scaturiti prima, avrebbero forse trovato spazio nella composizione del romanzo. Non si tratta di pagine espunte, di tagli o pentimenti: è proprio l’immaginazione, esuberante ma un po’ tarda, che torna per conto proprio su luoghi e situazioni, rianima personaggi, si diverte a mettere in scena altri momenti. Ecco come è nato questo capitolo: dal piacere di riallestire una scena. È un bis, un cadeau, un hors d’oeuvre, che spero diverta come mi sono divertito io. Gli attori della commediola sono gli stessi della Conca buia, che Nottetempo ha pubblicato nell’ottobre di quest’anno: Franco Gavaglià, io narrante impegnato in un’estenuante campagna elettorale per la riconferma alla carica di sindaco; i suoi collaboratori; la figlia, Leda, quel “tu” a cui Gavaglià si rivolge; e il vecchio padre del sindaco, feroce e violento un tempo, ora esibito ai comizi come un eroe dei bei tempi andati. Proviamo… proviamo a metterli davanti a uno specchio, mi sono detto, e vediamo che succede. È successo questo.

Oggi si sale alla frazione di Lenticchi, all’estremità a nord del comune di Covignasca. Qui tengo il comizio di fronte a otto uomini, di cui cinque miei collaboratori che si sono vestiti come poveracci per confondersi meglio tra gli abitanti della zona. Alla fine, dopo avere stretto la mano ai tre anziani presenti, smaniosi di puntare al buffet dove li aspettano vino, quarti di salsiccia e dadi di toma, alzo lo sguardo: e sulla carraia che da Lenticchi porta alla frazione gemella di Pareggio, nel comune limitrofo di Sanzaglio, giusto al di là del confine con il mio, noto una piccola pattuglia di persone, diciamo una decina, tutte attente, alcune con i binocoli puntati su di noi.

“Chi sono quelli?” ringhia il mio vice.

“E che ne so, Pignana? Va’, chiedi”.

“Lancerotti, va’ tu,” dice Pignana.

“Saranno uomini di Ursini,” ipotizza Lancerotti senza muoversi.

“No, guarda bene: stanno di là, a Sanzaglio”.

Nencioni, che per motivi suoi ha sempre un binocolo con sé, lo punta verso di loro, poi, per rispetto al mio ruolo di sindaco, me lo cede. Noi e loro rimaniamo a studiarci così, per un tempo che mi pare lunghissimo. Tuo nonno intanto si è addormentato sulla sua sedia a rotelle e tu lo dondoli come fanno le balie.

“Piano, Leda, o me lo disarticoli,” ti dico. “Ci serve ancora per dieci giorni”.

“Papà…” protesti tu, ma piano.

Ti zittisco perché uno degli uomini schierati al confine, il più corpulento, fa un gesto che potrebbe essere un saluto.

“Rispondiamo?” chiede Lancerotti.

“Rispondi tu,” gli dico.

Dopo un sospiro, Lancerotti alza la mano e la muove al rallentatore, come gli ho insegnato.

“Basta, avviciniamoci tutti insieme,” decido, “prima li conosciamo prima si torna a casa”.

Muoviamo verso di loro qualche passo, e anch’essi avanzano verso di noi, con prudenza, lungo la carraia, fino al punto in cui alcuni pini disfatti dalle processionarie segnano la demarcazione tra i due comuni.

“Ah, ma è coso, Prunacci!” esclamo allora.

Prunacci, mio omologo al municipio di Sanzaglio, spicca per imponenza tra i collaboratori malvestiti che gli stanno attorno. Quando lo riconosco accelero, protendendo già le mani a stringere le sue.

“Prunaccione,” lo saluto.

“Gavagliazzo,” mi saluta lui.

Eravamo vicini di banco, alle medie giù a Strambotto, i più sottili e voraci della classe. Per fare prima ci scambiavamo i compiti, qualche libro di avventure, e lui, in cambio di vari servigi, mi passava anche qualche giornaletto pornografico in bianco e nero che acquistava nell’unica edicola di Strambotto.

“Come la va?” chiede Prunacci, intendendo la campagna elettorale.

“Va. E la tua?”

“È tutto un su e giù. Nella prossima vita voglio nascere al mare”.

Ognuno di noi è rimasto con i piedi all’interno del proprio comune, mentre le nostre pance si appoggiano solidali l’una all’altra. Il suo fiato, come il mio, come quello di tutti, sa di mal d’auto, mentine, alcolici, steatosi epatica, reflusso, altre mentine. Anche i nostri collaboratori sono schierati sulla linea di confine, al nostro fianco, e fronteggiano i loro corrispettivi. Tu ci hai seguiti spingendo la carrozzina con tuo nonno, ma ti sei fermata a un paio di metri dalle nostre spalle.

“Ah, a proposito, Prunacci,” dico, “ti presento il mio vice Pignana, che già conoscerai, e poi Lancerotti, Pittima, De Matteis, Nencioni detto Bracco, il dottor Ganasco… E quella è Leda, mia figlia, te la ricordi, e quello… quell’uomo silenzioso scolpito nella pietra è papà”.

“Il caro papà, me lo ricordo bene. Padron Gavaglià, come state?” grida lui in dialetto a mio padre, che non sembra reagire. E a noialtri: “Buenos días a todo el mundo. Vi presento il mio vice La Sansa, e poi Virdis, Tempesta, Pollino, Canella detto Rottweiler, il dottor Calanchi, mia figlia Charlène, e – ta-ta-tàn – la mia mammina”.

I miei collaboratori e i suoi si stringono la mano, circospetti, solenni, simmetrici. Pignana e il suo omologo rimangono a parlottare fitto fitto, con una serietà impressionante, ambedue con le mani dietro la schiena e lo sguardo basso. Tu, senza avvicinarti e senza sbracciarti, saluti con una smorfietta sorridente questa Charlène, che a quanto pare ti è già nota e non ti sta simpatica. Lei, qualche passo più in là, fa lo stesso con te, distrattamente, mentre si occupa della nonna raggomitolata anche lei sulla sedia a rotelle.

“Questa volta è dura,” mi sta confidando Prunacci a voce bassa. “Dura davvero”.

“Ursini non mi dà pace,” replico.

“Lo conosco Ursini, non è cattivo lui, è manovrato”.

“E chi non lo è?”

Lui ride. “Quanti erano al tuo comizio?”

“Una ventina,” mento. “E al tuo?”

“Boh, una trentina”.

“Ma ci sono trenta abitanti in quelle case là?”

“Contavo anche le galline,” ride.

“Io anche i gerani”.

Sghignazziamo come da ragazzini, quando volevamo mascherare la nostra vergogna davanti alle foto sgranate delle persone nude con le pecette sugli occhi.

“Ha l’aria tranquilla,” dico di sua madre.

“Anche il tuo papà”.

“Sì, è contento di dare una mano alla campagna, è fiero di avere un figlio sindaco”.

“La mia è così piena di orgoglio che non sa proprio come esprimerlo, poveretta”.

Pausa: stiamo mentendo, e nemmeno bene. Sappiamo che non è così, ricordiamo entrambi i racconti che ci facevamo sottovoce, in classe, le mattine successive a una notte di castighi e di botte. Prunacci non ne prendeva quanto me: sua madre, che era rimasta vedova durante l’ultima guerra e governava l’alpe del marito, per punire il figlio lo lasciava a digiuno, lo chiudeva in una madia, gli teneva la testa dentro l’acqua della fontana per schiarirgli le idee. Prunacci era sempre raffreddato e soffriva di nevralgie che lo rendevano inespressivo – all’epoca questo particolare mi divertiva.

Neanche a sua madre piaceva che il figlio scendesse a scuola ogni mattina, con quello che c’era da fare nei campi e in stalla. Pretendeva voti eccellenti, e se non arrivavano tutti i giorni lo afferrava per mano e lo portava alla fontana, anche in inverno. Lui, stordito dal troppo tempo passato in solitudine sui giornaletti pornografici, non si opponeva, si lasciava trascinare, immergere, ancora immergere, e immergere di nuovo e più a lungo, poi tornava con la testa fradicia a casa, lasciando dietro di sé una scia di pioggia, tossendo e sputando. Ma io, che a volte ero sfigurato dalle botte e collezionavo ematomi su tutto il corpo, quasi lo invidiavo, il mio amico Prunacci, l’uomo-starnuto, il cocco di mamma, il sordastro, il sempre-fresco, la maschera di ghiaccio – nomignoli che all’epoca trovavo spassosi.

“Ma senti, li otterremo i fondi interstatali per il rilancio delle zone rurali?” cambia discorso lui.

“Tocchiamo ferro”.

“Io mi tocco qui sotto, è meglio,” ride.

Siamo rimasti con le mani strette – entrambe le mani, tra sindaci si usa così. E la sua stretta appiccicosa mi fa bene, mi restituisce un po’ di forza, di calore amico.

“Sembriamo due fidanzati,” scherza lui.

“Quando vuoi, sono qui,” scherzo io: e gli lancio un bacio parodistico.

Mio padre a questo punto emette un ringhio, si agita stancamente. Tu subito ti preoccupi, gli pulisci un po’ di bava all’angolo della bocca, gli raddrizzi la sciarpa.

“Papà, il nonno ha freddo,” mi dici.

“Ha freddo,” ripeto io a Prunacci, per congedarmi. Se non ci fossi tu lascerei assaporare al mio vecchio ancora per qualche minuto il venticello gelido che si leva ogni pomeriggio a quest’ora e agita gli alberi e porta via i cappelli, e direi qualcosa come: “Tanto è abituato, la loro generazione sa sopportare meglio di noi le intemperie,” anzi gli toglierei anche la sciarpa e la berretta, gli sbottonerei il giaccone, in modo che l’aria buona di montagna lo penetri a fondo e lo tempri, come tutti loro hanno fatto con noi per anni, rendendoci quello che siamo.

Prunacci intuisce, sorride, e indicando sua madre sussurra: “Ieri giura di avere visto la Madonna in giardino”.

“Il mio le canta al Padreterno. Li lasciamo qui a farsi compagnia?”

“Mi tenti”.

“Papà…” mi reclami tu. È davvero tempo di andare. Prunacci e io sciogliamo dalla stretta le mani e, senza farci gli auguri per scaramanzia, voltiamo le spalle e ci dirigiamo verso le nostre auto. Ora che non devo più sorridere, sento cedere i muscoli della faccia, sempre più grevi, oscillanti.

 

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