(Infinite sadness)

di Leonardo Merlini

C’è una cosa che salta immediatamente all’occhio quando si legge il racconto inedito di Roberto Bolaño “Morte di Ulises”, dedicato al ritorno di Arturo Belano a Città del Messico in cerca dell’amico perduto Lima ed è la tristezza sconfinata del protagonista, una tristezza che sembra essere diventata ontologica e completamente irreversibile. Il racconto è una delle short story postume dello scrittore cileno che Adelphi ha pubblicato nel volume che raccoglie per la prima volta in Italia tutta la sua produzione breve, un omaggio a uno degli scrittori più importanti del nostro presente globale, ma anche, nel caso specifico della storia su Belano, l’occasione per ritrovare i due leggendari protagonisti de I detective selvaggi, nonché il più celebre alter ego di Bolaño.

Ma, guardando oltre questi aspetti, che pure per i lettori sono cruciali, ed è giusto che sia così, sotto l’emozione, si diceva, si apre un abisso di tristezza indicibile. Belano si è arreso alla tristezza, l’ha resa la sua cifra di narratore, più sperduto ormai che selvaggio. Il racconto, che oggettivamente non è un capolavoro, ma ci permette comunque di risentire la voce di un autore e di ritornare in quelle strade del DF che tanto significano nell’universo di Bolaño, lascia però addosso una sensazione di sconfitta radicale che pesa, come se la stanchezza di Arturo diventasse anche quella del lettore.

Però, a guardare meglio, a rileggere la breve storia una seconda volta ci si rende conto che, nonostante l’evidente sensazione di essere sull’orlo di un precipizio o di un disastro irrecuperabile,  nonostante la strisciante presenza di una violenza incontrollabile in ogni respiro del racconto, poi questa violenza non esplode, il precipizio non inghiotte Belano, almeno non nei “fatti” della trama.

Ed è possibile che non lo faccia proprio perché il personaggio è già stato totalmente inghiottito dalla tristezza, che, in un certo senso, lo rende capace di tutto e impermeabile a tutto. I minacciosi vicini di casa di Ulises Lima, la cui morte aleggia anche’essa sopra le pagine come un fantasma alla William Blake (ma impazzito), si devono arrendere di fronte all’essere così disarmato di Belano e della potenziale violenza non vediamo nulla, al massimo una nuova forma della noia (e anche questa è una delle cifre della letteratura di Bolaño, che l’ha saputa raccontare con la consueta brillante irrequietezza).

A guardare ancora meglio, allargando il pensiero a tutti i libri dello scrittore, ci si rende conto anche del fatto che praticamente tutti i personaggi che abbiamo incontrato nella sua bibliografia sono circondati dalla tristezza: di Belano e Lima nei Detective abbiamo già in qualche modo detto, ma possiamo dirlo di Hans Reiter-Arcimboldi in 2666, e pure degli altri personaggi minori di quel romanzo postumo colossale: i critici, Amalfitano… irrimediabilmente tristi.

E così in molti altri racconti. E la cosa che colpisce di più, adesso che forse abbiamo trovato una possibile chiave di interpretazione, è che questa tristezza è, oltre che la qualità profonda del personaggio, anche la sua arma: i critici, pur essendo occidentali colti e benestanti se la cavano anche nell’inferno surreale di Santa Teresa, Hans Reiter pur essendo altissimo e vocato al suicidio in guerra invece si muove con una sicurezza che terrorizza i nemici, perfino i suoi genitori, la Guercia e lo Zoppo, che sono nati dall’idea stessa della tristezza, si rivelano in realtà una buona madre e un buon padre, al di là di ogni (nostra) aspettativa.

Come dire: è la loro tristezza che li salva, che li rende forti, che offre loro un’occasione? Non sappiamo se la risposta c’è, ma è possibile che sia sì. Anche se nel mondo di Roberto Bolaño, è risaputo, ogni cosa è incerta e ogni verità necessariamente provvisoria.

Il prezzo che i personaggi pagano a questa tristezza è alto e lo paga anche lo scrittore, che in qualche modo sceglie i suoi libri e i suoi personaggi anziché se stesso: il lavoro su 2666, ci racconta la pubblicistica su Bolaño, lo porta a rinviare le cure per la sua malattia e a un certo punto si scopre che era troppo tardi. Ma i suoi libri sopravvivono a quella stessa tristezza e danno una luce diversa anche al tema stesso della malattia e al modo in cui si può pensare alla parola “fallimento”. Come se lo scrittore cileno avesse sconfitto il mito della “felicità”, come se avesse digerito e trasmesso ai suoi personaggi la lezione di, per dire, Mark Fisher sulla scomparsa del futuro, sull’inevitabilità di questa perdita, per poi ripartire da lì per trovare strade alternative, umane e possibili.

Al contrario, un altro grande scrittore per molti versi accostato a Bolaño come David Foster Wallace, che per tutta la sua carriera ha cercato di combattere l’idea stessa della tristezza, per motivi ovviamente ben comprensibili, sembra che al mito della “felicità” abbia finito per soccombere. La sua letteratura nasceva con un taglio pop molto distante da Bolaño, ma i temi e la vastità del loro pubblico sono sempre stati in qualche modo assimilabili, se non altro come “modelli” del modo di essere scrittori nel XXI secolo. Ma Wallace è come se, rifiutando da nordamericano l’idea di rinunciare alla felicità, sia rimasto bruciato dalle Dr. Pepper’s, oppure dalla pubblicità o dalle promesse di Ronald Reagan, a cui certamente non avrà creduto, ma senza smettere di sperarci.

Ecco, è possibile che quello che l’ultimo viaggio di Belano a Città del Messico ci dice oggi abbia a che fare con il ridimensionamento di un’idea di speranza a livello “pratico” (le cose andranno male, è inevitabile), ma anche con un diverso modo di cercare di essere e di vivere e di credere in un mondo meno speranzoso, ma ancora aperto se non altro alla promessa senza contenuto della letteratura e dello sguardo che a volte ci regala.

 

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