Interno con figure, le stanze comunicanti di Fausta Cialente

Interno con figure (Nottetempo, 2025) non è una raccolta di racconti. È un’architettura narrativa composta da stanze comunicanti, dove ogni storia rimbomba nella successiva, come in una casa vissuta e riabitata mille volte. È il diario interiore di un secolo, raccontato senza proclami e senza retorica. Le sue figure si muovono con passo quieto, ma lasciano impronte profonde. Non chiedono d’essere salvate, ma comprese. Non si mettono in mostra, ma sono indimenticabili.

Chi entra in questo libro entra in un “interno” che è anche il nostro. E scopre che la vera rivoluzione non ha bisogno di clamore: basta sapere osservare. E ricordare. C’è una voce a guidarci. Bassa, ostinata, precisa. È quella di Fausta Cialente.

I racconti di questa raccolta sono, più che un’antologia, frammenti orchestrali, una partitura narrativa: ogni racconto è un movimento, ogni figura una nota sommessa, ogni luogo una tonalità. E non a caso la scrittrice parla della sua scrittura come di un “andante”: un tempo lento, riflessivo, necessario. Cialente, infatti, si domanda: «A ben pensarci, dunque: andante con moto?», un andante, quindi, ma che non si limita a marciare: che pulsa, si ferma, respira. Questo è il tempo interiore del libro. Il suo universo è apparentemente modesto, quasi dimesso: «un mondo fatto quasi esclusivamente di piccola gente modesta ma soprattutto di bambini». Ma sotto la superficie si muove una tensione che disfa e ricompone il mondo borghese, rivelandone ipocrisie e crepe.

La donna è il cuore segreto di questa architettura. La vera figura interna. Cialente la moltiplica: dalla Pamela “veneziana” nata dal pianto muto di una donna armena, a Marcellina, contrabbandiera ironica e indomita, che rifiuta il copione di vittima e riscrive il suo ruolo e quello del marito. Tra di loro, un’intera galleria: donne silenziose e ribelli, bambine smarrite, madri abbandonate, sorelle invisibili. Tutte chiuse in una gabbia sociale che solo la scrittura — testimoniale, resistente — riesce a incrinare. Il bambino, invece, non è mai simbolo d’innocenza. È presenza inquieta, testimone scomodo di verità indicibili. Già nell’incipit riflessivo di La vedova (1939): «Il nome con cui viene evocata una sventura ha il potere di risvegliare quasi sempre nella sensibilità dei fanciulli una particolare rappresentazione». Poi, in controluce, sempre lei: la borghesia. Fondale opaco e stanco. È lì, sempre, come sfondo che collassa. Cialente non la denuncia con rabbia, ma la smaschera con malinconia: «un’incosciente o colpevole borghesia, che è poi il tema fondamentale di quasi tutta la mia opera».

Il corpo della scrittura è il corpo stesso delle sue donne. Invasi, usati, dimenticati: ma anche riappropriati. Pamela piange nel corpo altrui. Marcellina lo usa come arma retorica. «Caro maresciallo!», dice, «Non vi siete accorto che mi sono presa un marito di lusso?». Il corpo diventa linguaggio, strategia, ironia. Il corpo parla. Ironizza. Sovverte. Così anche il testo: instabile, mobile. I racconti mutano titolo, personaggi, finali. Nessuna versione definitiva. Solo tensione continua al vero. Cialente stessa ci avverte: Interno con figure è una resa dei conti. Ogni racconto è stato rimaneggiato, rielaborato, riscritto, persino ribattezzato. Interno con figure, ad esempio, era inizialmente “Interno” (1938), poi rielaborato nel 1972. Lo stesso vale per Canzonetta, nata come Passeggiata con Angela. Siamo di fronte a un laboratorio d’autrice di forma breve. Ogni versione è un tentativo di dire meglio, dire ancora, dire diversamente. «Fra la piccola gente modesta e i bambini v’è anche accennato qua e là il ritratto d’un’incosciente o colpevole borghesia». Lo stile è limpido, mai eccessivo. Una prosa musicale, che gioca con le sfumature: è una scrittura fatta d’ombra, più che di luce, «Attenta ai margini, ai perimetri, al non detto, alle sfumature e a tutto ciò che è perso per sempre».

Natalia Ginzburg (Palermo 1916 – Roma 1991) è sorella silenziosa di Fausta. Entrambe mettono al centro le donne e la casa, ma Cialente ha una visione più cinematografica e atmosferica. Le sue stanze non sono salotti, ma interni mentali, tanto da ricordare Federico Fellini (Rimini 1920 – Roma 1993), quello di Le notti di Cabiria (1957), dove ogni gesto è una preghiera mancata. Ma in Interno con figure riecheggia anche qualcosa del cinema di Vittorio De Sica (Sora 1901 – Parigi 1974), dove le biciclette rotte sono le vite delle donne e i bambini neorealisti non sono più eroi innocenti.

Interno con figure non offre insegnamenti. Offre direzioni. È un libro da attraversare lentamente, come si attraversano i paesi abbandonati o i salotti in cui si sentono ancora le voci dei morti.

Come scrive l’autrice, «Credo che non si debba avere l’aria – e l’insolenza – di proporre qualcosa che sembri essere un modello unico, buono per tutti; perlomeno non mi sento all’altezza di proporre qualcosa d’altro se non la testimonianza del mio tempo».

Questa raccolta è proprio questo: la testimonianza sommessa, implacabile, dolente e viva di un tempo feroce. Ma anche, paradossalmente, di una speranza. Perché se una donna può scrivere così, allora può anche vivere così: in piedi, testimone, figura interna non più passiva ma finalmente visibile.

Oggi che la narrativa breve è di nuovo al centro dell’attenzione, Interno con figure suona come un classico ritrovato. Ma non basta riscoprirlo: bisogna ascoltarlo. Non con le orecchie della nostalgia, ma con la fame del presente. Perché, come scrive Cialente, «il racconto è il luogo in cui si incontrano materiali, esperimenti, visioni che il lettore incontra come illuminazioni brevi e intense».

 

Commenti
Un commento a “Interno con figure, le stanze comunicanti di Fausta Cialente”
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