E se fosse sempre stato il corpo? Se fosse questo lo strumento con cui Guadalupe Nettel registra e trasmette il suo modo di vedere il mondo, di raccontarci il tempo? Il corpo da usare, per assimilare e poi estendere verso l’esterno, il corpo come lente di ingrandimento, come macchia d’olio che si espande. Oggi un animale, una pianta, una persona nuova che nasce. Ieri un neo, una cornea, una pupilla. Se fosse dentro quelle paure, le difficoltà di accettarsi e di essere accettata, se fosse dentro quello scontro familiare, scolastico, sociale, quel contemporaneo sottrarsi e volersi (doversi) mostrare il segreto della scrittura di Gaudalupe Nettel? La necessità di scrivere parole, di abitare il linguaggio, potrebbe – nel caso della scrittrice messicana – arrivare da laggiù, dai giorni in cui il neo bianco sulla cornea rappresentava timore, sfida e speranza. Il neo che costringeva la bambina a tenere a lungo un cerotto sull’occhio sinistro le ha amplificato le percezioni. Una scrittrice deve saper osservare e inventare, deve trovare un punto di vista, un angolo migliore di altri. Una scrittrice che sta a lungo con un occhio solo, mentre gli altri bambini un po’ la scrutano e un po’ la emarginano, comincia (inconsciamente) a pensare alle storie, a inventarle, a crederci.

L’unica consolazione che in quel momento i medici poterono dare ai miei genitori fu l’attesa.

Faccio queste ipotesi dopo aver letto per la seconda volta Il corpo in cui sono nata (La nuova frontiera 2022, traduzione di Federica Niola), la prima volta è stata nel 2014 (forse 2015) quando Einaudi lo pubblicò per la prima volta. Allora non sapevo nulla di Guadalupe Nettel, ricordo soltanto che la storia mi ha colpito particolarmente, così come ho trovato un’ottima scelta quella del monologo/racconto fatto in prima persona a una psicanalista. Oggi so molto di più della scrittrice Nettel, me ne sono occupato spesso e quando esce un libro suo – che si tratti di racconti, romanzi, memoir – sono contento. Mi piace ritrovare nelle pagine l’ironia, lo sguardo acuto, un certo suono, qualcosa che oscilla tra la scrittura sudamericana e quella europea. Nettel sta sempre tra reale e visione, è tutto vero, ma (soprattutto) tutto è verosimile, perciò reso narrabile. Tutto può essere una buona storia, basta trovare chi sappia raccontartela. Nettel la sa raccontare.

I comportamenti acquisiti durante l’infanzia ci accompagnano per sempre, e anche se a forza di volontà li teniamo a bada, acquattati in un luogo tenebroso della memoria, quando meno ce lo aspettiamo ci saltano in faccia come gatti inferociti.

Da lettore perciò leggo questo testo sapendo molte più cose di Nettel e capisco meglio da dove arrivi quella insolita (e meravigliosa) capacità di aggiungere elementi che vanno dal fiabesco al quasi horror, dal sogno al reale, da ciò che non si potrà mai raggiungere a quello che riconosciamo solo toccando. Il corpo e la sua assenza, il corpo come metafora. L’animale che prima di morire offre a una coppia la visione della fine di una storia d’amore (vedi Bestiario sentimentale, sempre La nuova frontiera), l’uomo e la pianta, quella pianta, l’ossessione per la pianta (vedi Petali, ancora La nuova frontiera), e così via, per Nettel la diversità ci rende unici, nulla è strano davvero, ognuno è diverso, lei lo è e lo ha imparato da subito, da bambina.

La bambina vede meno, vede sfocato, allora sente di più, percepisce i suoni, li amplifica e poi immagina, si relaziona con la porzione di mondo che si palesa e con quell’altra, più interessante, la parte invisibile. La bambina, poi ragazzina, poi ragazza, poi donna, avverte un senso di distacco apparente, si sente estranea ma in fondo non lo è.

[…] Dicevo, per esempio, che c’erano poche auto e che molto spesso per andare a scuola bisognava spostarsi in groppa a un elefante.

Il neo sulla cornea e la benda che copre l’occhio sono il punto di partenza per raccontare una storia familiare e del contesto storico in cui vive. Abbiamo gli anni Settanta e il Messico, i dissidenti politici e i loro figli, San Diego e le visite dall’oculista, i quattro componenti della famiglia che sono tenuti insieme – in fondo – solo dalla speranza che l’occhio vada a posto, che il campo della vista della bambina si allarghi. Abbiamo il comunismo, le relazioni aperte, l’arrivo degli anni Ottanta e lo stravolgimento delle cose. La famiglia si sfascia, il padre si dissolve, la mamma vola in Francia per proseguire gli studi, i due figli che vengono affidati alla nonna che vive e pensa in maniera quasi opposta a quella in cui fratello e sorella erano stati abituati. L’infanzia è un mistero, un incubo, una opportunità.

A volte mi viene da dubitare di tutta questa storia, come se invece di un vissuto fosse un racconto che ho ripetuto a me stessa un’infinità di volte.

Molto presto la narratrice scopre di saper scrivere, e si accorge che mettere storie sulle pagine è uno strumento per essere accettata, ma è anche il piano di fuga, il luogo in cui stare. Se Il corpo in cui sono nata mostra come comincia una bambina a vivere, come comincia una scrittrice a entrare nella letteratura, dimostra anche chi siamo, in qualche modo. Siamo nati tutti in un corpo, che ci piaccia o meno, con un difetto riconosciuto o meno, con un dolore di fondo o meno, ed è lì – muovendoci tra gli oggetti che hanno costruito la nostra memoria, tra i compagni di classe che ci hanno presi in giro, le ragazzine che nemmeno ci guardavano –  che abbiamo cominciato a essere quello che saremmo diventati.

Guadalupe Nettel, la ragazzina con l’occhio bendato, ha trovato in quei giorni fuori fuoco il passo della sua scrittura, ed è diventata la scrittrice che leggiamo e ammiriamo. Ha visto, ha scritto.

 

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Autore

giannimontieri@minimaetmoralia.it

Gianni Montieri, è nato a Giugliano in provincia di Napoli. Scrive per Doppiozero, minima&moralia, Esquire Italia, Huffpost e il manifesto, tra le altre. Prova a incrociare la letteratura con lo sport per L’ultimo uomo, Rivista Undici. I suoi libri di poesia più recenti sono Ampi margini (2022) e Le cose imperfette, editi da Liberaria. Ha pubblicato per 66thand2nd due titoli Il Napoli e la terza stagioneAndrés Iniesta, come una danza. Vive a Venezia. Altre info qui: https://giannimontieri.wordpress.com/biografia/

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