La proprietà privata come riflesso della vulnerabilità umana: “Proprietà privata” di Julia Deck
L’essenza è un domicilio, osserva Byung-Chul Han nel saggio Del vuoto (trad. Simone Aglan-Buttazzi, nottetempo). Riunisce in sé l’identità, la durata e l’interiorità, l’abitare, il trattenersi e il possedere. L’essenza domina la metafisica occidentale, rimanda alla casa, alla proprietà, all’idea di solidità. Julia Deck sembra aver interiorizzato e tradotto in chiave narrativa tali assunti nel dare forma con Proprietà privata (trad. Lorenza Di Lella e Francesca Scala, Prehistorica) a un’indagine dai risvolti filosofici e sociologici attorno alla correlazione tra essenza e interiorità domestica, potere, desiderio di possesso, irrealizzabilità di un reale controllo, incarnati dall’immagine di una dimora dalla parvenza rassicurante, simulacro di una proprietà inviolabile, fisica e interiore.
Al centro le vicende di una coppia di mezz’età che si rifugia nella periferia parigina in un quartiere ecosostenibile lontano dalla frenesia urbana, con magazzini trasformati in eleganti abitazioni autosufficienti dal punto di vista energetico. Lei è un’urbanista pragmatica e determinata, impegnata nella riqualificazione di una piazza attraverso la reinvenzione degli spazi; lui un professore universitario affetto da disturbo ossessivo-compulsivo che passa le giornate chiuso in casa in attesa della crisi successiva, alleviato solo dalle variazioni di dosaggio degli psicofarmaci.
Il continuo rimando al valore di oggetti ormai smarriti dopo trent’anni di vita altrove, compensato solo dalla cura delle calendule, risuona in un crescendo grottesco, reso nella percezione di invasione per l’arrivo dei nuovi vicini: un senso di usurpazione di spazi invisibili. Lo scenario è determinante per cogliere la critica sociale che traspare dalle pagine, nel denunciare le dinamiche di un gruppo di residenti assurti a emblema di una borghesia che esibisce l’impegno ecologista ma che si mostra incapace di un reale pensiero critico e rivela contraddizioni e ipocrisie per la mancata rinuncia a certi comfort.
Tra le pagine l’evoluzione di un conflitto dalla tensione crescente, retto sulla vigilanza reciproca e sull’idea di condanna, a partire dai concetti di bene e dominio che trovano nella questione domestica la rappresentazione fisica e al contempo metaforica di un disagio che invade ogni cosa, che intride le relazioni affettive, corrode i rapporti professionali, confonde i confini dentro/fuori, personale/collettivo, entro un ambiente all’apparenza statico che rivela evoluzioni sottili.
Alcuni aspetti ricorrenti – a partire dal preludio all’ineluttabile composto attorno a elementi che suggeriscono una disfatta imminente – caratterizzano l’intera produzione letteraria dell’autrice, di cui in Italia, con la traduzione di Lorenza Di Lella e Giuseppe Girimonti Greco, sono usciti Viviane Èlisabeth Fauville (Adelphi, 2014) e Sigma (Prehistorica, 2022).
La peculiare rivisitazione dei codici del thriller psicologico e del poliziesco anche attraverso l’uso sapiente dell’elemento ironico con affondi drammatici nelle opere di Deck è funzionale a enfatizzare la natura ridicola dell’essere umano, preda di manie e spesso incapace di usare i propri strumenti per fronteggiare minacce reali o immaginarie, nel costante sentore di una cospirazione sotterranea.
Volevano vederci soffrire, impedirci di pensare, di amarci, fare a pezzi il complesso edificio su cui si fondava la nostra intesa. Progettavano il nostro sradicamento totale e definitivo.
L’affinità con Viviane Èlisabeth Fauville risiede in particolare nella capacità di tracciare lo smarrimento esistenziale di una donna sola che si è macchiata di un crimine di cui non ha che un ricordo opaco, una sensazione di colpevolezza di cui cerca tracce nel contemplare la sua neonata. Ancora una volta l’attenzione di Deck è rivolta a una donna di successo che perde i suoi riferimenti e il cui smarrimento è amplificato dallo sfondo nevrotico metropolitano parigino capace di enfatizzare la trasfigurazione interiore e definire la disperazione attraverso inquietudini e paranoie che lambiscono l’irrealtà.
In comune con Sigma l’adesione alle strutture del romanzo di spionaggio, applicate in Proprietà privata alle dinamiche di controllo reciproco tra vicini culminate in una misteriosa scomparsa che genera sospetti reciproci e insopportabili ingerenze. L’imminenza dell’inesorabile è resa attraverso particolari minimi, odori, oggetti fuori posto, comportamenti anomali, sguardi fugaci che sottendono trasgressioni.
Deck studia la gamma emotiva definita nel subire un’invasione: dallo stupore, allo sconforto, alla rabbia, alla frustrazione, al senso di violazione che investe ogni cosa. L’inibizione afasica di fronte a palesi infrazioni alle norme di buon vicinato alternate alle piccole crudeltà quotidiane attesta un logorio nervoso che porta a considerare di pari gravità la notte insonne per la festa con musica alta e rifiuti sparsi ovunque; l’uso strumentale di un cucciolo di labrador come esca per generare una dipendenza affettiva; il fare ambiguo e beffardo; la percezione, nel sentire le risatine filtrare dalla finestra, che neppure il proprio bagno sia un luogo sicuro per esternare lo sconforto.
Il cuore mi si è contratto dall’orrore. Ho capito che non avevo più il diritto di gridare, che avrei dovuto mandar giù la rabbia anche nel più intimo dei rifugi, perché niente di quello che succedeva qui sarebbe rimasto nascosto.
Con uno sguardo caustico, tagliente, un visione sprezzante che muta gradualmente prospettiva, il flusso di pensieri della protagonista dimostra nella forma della missiva o del monologo rivolto al marito, l’urgenza di instaurare una dialettica intellettuale immaginaria (carente nella realtà) con un uomo depresso, non tanto per rinsaldare il rapporto ma per sostanziare la matrice oscura che prende sempre più spazio in lei.
Sola a fronteggiare un’idea di integrità famigliare e domestica per proteggerla dalle minacce esterne, la donna scopre una vulnerabilità che non credeva di possedere, nella convinzione di incarnare anche sul piano emotivo il rigore applicato sul lavoro. Quella donna così cinica da definire “bestie infestanti” e “parassiti” i clochard che avevano occupato palazzi sfitti divenuti nel tempo conglomerati di cemento, “fantasmi futuristi passati di moda prima ancora di essere completati e che ormai suscitavano solo, in chi li osservava, un misto di pietà, terrore e riso”, arriva ben presto a cambiare visione, nel subire a sue spese il peso di sentirsi fuori posto e fuori luogo, priva di difese e smarrita nel riflettere “sull’identica dose di umanità che dovrebbe celarsi in ognuno di noi”. Aspetti indagati nell’opera con un continuo rimando al rapporto spaziale e temporale: emblematico che il progetto di rinnovamento di un’area trasfigurata dall’incremento demografico e dalla sottrazione di spazi verdi, sia affrontato dalla protagonista lavorando sul concetto di natura indefinita del territorio.
Ogni pagina traccia un graduale svelamento che sfoca i contorni del noto per instillare il dubbio della contraffazione del reale accentuato dalle intermittenze emotive che lambiscono tormenti, manie, panico da complotto. Le prime righe palesano un sentimento nuovo, rappresentano il nucleo dell’intera opera e portano chi legge a interrogarsi sulla portata di un piacere inesplorato nel concepire, pochi mesi dopo il trasloco, una vendetta abominevole come risarcimento per le vessazioni subite.
“Uccidere il gatto sarebbe stato un errore, in generale e in particolare”. “Al buio mi sono vista versare il veleno e mescolarlo alle polpette di manzo. Posare la ciotola davanti al cancello del giardino. Aspettare l’arrivo di pel di carota. Ho sentito il contatto dei suoi peli con la mia pelle nuda, mentre immaginavo l’istante in cui, dopo aver lasciato che finisse di mangiare, l’avrei preso in braccio. Mi sono vista scendere in cantina per farlo agonizzare lì senza che desse nell’occhio e poi disporre del cadavere come avevi pianificato. Perché non si trattava semplicemente di uccidere il gatto. Ma di decretare il nostro trionfo, il nostro accesso alla proprietà privata.”
L’intera opera è strutturata a partire da interrogativi sugli esiti privati e collettivi di scelte architettoniche che portano a una condivisione forzata col prossimo, che influenzano il benessere e l’agire di chi ci vive, nell’impossibilità di una reale preservazione della dimensione privata. Su un piano sociale, evidenziano l’opacità e l’ambiguità di dinamiche relazionali con ruoli e alleanze mai definiti apertamente. Sul piano privato mostrano le crepe di una relazione matura messa alla prova dal confronto con altre coppie e da condizioni ostili che finiscono per mettere a repentaglio un equilibrio edificato nell’intimità e nella schermatura dal resto.
Il presagio del tragico e l’evolversi drammatico di eventi inattesi assegnano alla narrazione un continuo cambio di passo, tra continue proiezioni su vite parallele alternative innestate alla surreale condizione del presente con conseguenze immaginarie che alterano la percezione del vero e conducono a esularsi dalla realtà. Fondamentale in tal senso il corollario di personaggi balzachiani che dietro la patina conformista nascondono segreti, relazioni effimere, tradimenti, drammi domestici, e rappresentano un bizzarro campionario umano di incoerenze, specchio di una società inesorabilmente aggrappata alla manutenzione della propria immagine.
Julia Deck innesca un’acuta riflessione sul rapporto dell’individuo con la necessità di possesso, sulla vacuità materialista, sull’abbaglio insito in ogni relazione, sull’impossibilità di un reale riconoscimento reciproco, con una feroce critica sociale dell’ipocrisia di classe attraverso uno scavo nel perturbante dalla chiave ironica perché, come ha dichiarato in un’intervista, “osservare la società senza ironia sarebbe insopportabile”.
La singolarità della voce letteraria di Deck risiede nel sottoporre a chi legge l’occasione per indagare il presente che abita, il contesto di appartenenza, e immaginare la direzione futura della società occidentale attraverso i riflessi di un disordine interiore condiviso. Proprietà privata celebra la natura incongrua dell’umano nel coltivare ossessioni utili a garantirsi un perenne e salvifico dissidio con l’altro e attestare il potenziale insito nell’alienazione contemporanea. È grazie alla legittimazione dell’autodeterminazione, tratto fondamentale dell’essenza, che secondo Byung-Chul Han possono generarsi diverbi fondamentali per evadere da strutture precostituite: “E allora il potere è esclusivamente nelle mani di colui che riesce a restare, nell’Altro, del tutto presso di sé”.
Alice Pisu, nata nel 1983, laureata in Lettere all’Università di Sassari, si è specializzata in Giornalismo e cultura editoriale a Parma dove vive. Collabora per diverse testate di approfondimento, tra cui L’Indice dei libri del mese, minima&moralia, il Tascabile. Libraia indipendente, fa parte della redazione del magazine letterario The FLR -The Florentine Literary Review.