La scomparsa del sacro: su Radical Choc di Raffaele Alberto Ventura
di Caterina Orsenigo
Hegel, George Dumezil e l’università francese mi hanno insegnato che un testo deve essere sempre diviso in tre parti, come la Gallia di Giulio Cesare, del resto. Sono invece due i punti che voglio affrontare dopo aver letto Radical Choc. Ascesa e caduta dei competenti di Raffaele Alberto Ventura, molto distanti, oltretutto, l’uno dall’altro. Ma se è vero che questa società è agli sgoccioli, non sarà grave fare un’eccezione alla regola.
I
Fra bufalo e locomotiva la differenza salta gli occhi: la locomotiva ha la strada segnata mentre il bufalo può scartare di lato e cadere
(Francesco De Gregori)
Nel terzo capitolo della sua “trilogia del collasso”, Rav racconta, fra le altre cose, la storia della società moderna in relazione al suo rapporto col rischio.
Una comunità si sviluppa proprio nell’intento di mettersene al riparo: a partire originariamente dai lupi, dalla fame e dal freddo, a salire. In particolare, la società moderna sarebbe nata “tra il XVI e il XVII secolo in un contesto segnato da guerre di religione, conflitti tra fazioni e spinte verso la centralizzazione amministrativa”. Insomma, “se la prima funzione che legittima il progetto politico moderno è la protezione della vita, la ragione risiede nel fatto che al suo cuore c’è la paura della morte”. Ma ho l’impressione che questa paura abbia cambiato di intensità e sostanza nel corso della Storia occidentale recente. Ci arriveremo.
In questi cinque secoli, il bisogno di sicurezza ha aperto le porte all’acutizzarsi di razionalizzazione e controllo, fino ad arrivare al nostro presente.
Nelle ultime pagine Rav prende in considerazione ciò che forse, visto da fuori e con lucidità, dovrebbe apparire come il rischio assoluto: quello di andare, appunto per paura, nella direzione di una “modernizzazione senza democrazia”.
Guardando un film sui totalitarismi del Novecento, ci viene quasi automatico pensare che, se anche tutti avevano un lavoro e i treni arrivavano in orario, in quell’eccessiva organizzazione si andava perdendo la vita. Simone Weil osservava negli anni ’30 l’emergere di una “burocrazia permanente (…) in possesso di un potere fino ad ora sconosciuto nella Storia”, che, ci fa notare l’autore, nei totalitarismi trova il suo apogeo ma non il suo germe. Il germe sta invece proprio nel sistema capitalista e infatti già si cominciava a paventare il pericolo di un essere umano sempre più disumanizzato e ridotto a ingranaggio della Macchina.
Negli ultimissimi decenni, però, il terrore provocato dal rischio si è intensificato e non ci permette nella realtà la stessa lucidità che abbiamo davanti a uno di quei film. Frasi assurde come “non correre, se no cadi” riassumono tutto il desiderio di un’esistenza sempre più edulcorata e prevedibile, anche a costo di “non correre”, ossia di non vivere. E perché la società lasci sempre meno spazio all’imprevisto, dovrà essere “definitivamente prosciugata da tutte le sue funzioni autonome”, lasciando che il potere si sposti sempre più dalla politica alla tecnostruttura.
Ora. Ci si può organizzare per allontanare i lupi, per scambiarsi i prodotti della terra, e via andare fino all’industrializzazione.
Ma per arrivare ad avere paura di tutto e delegare ogni capacità e facoltà umana alla tecnica, pur di non rischiare intoppi, dev’essere successo qualcosa. Qualcosa che, sì, ha molto a che fare col capitalismo, ma non è il capitalismo.
E qualcosa è successo.
Il primo giro di vite è avvenuto mentre moriva dio. L’annunciava il folle con la lanterna dell’Aforisma 125 della Gaia scienza, ma era un processo che durava già da un po’ e che non era ancora finito. Si stava perdendo, lentamente e inesorabilmente, il rapporto con il sacro. “Alla fede in Dio si era sostituita la «fede nella Storia» come processo cumulativo”. Nel frattempo grandi guerre e grandi ideologie possono aver distolto l’attenzione, e la politica permetteva eventualmente di “morire per delle idee”. Per il resto però la morte si allontanava e nascondeva sotto il tappeto, mentre la società del benessere metteva cuscini su ogni spigolo della vita perché non ci fosse più modo nemmeno di graffiarsi battendo il piede su un tavolo.
Sotto il tappeto intanto la morte si trasformava in tabù, i pericoli si ammassavano e crescevano, e per quel benessere si avvelenavano l’aria che respiriamo e l’acqua che beviamo.
Il secondo giro di vite è stato dato quando si sono perse anche le idee e, più di recente, la “fede nella Storia”.
A quel punto, l’annuncio del folle con la lanterna è diventato lampante e innegabile. Dio è morto. Dio in qualsiasi senso: quel rapporto col sacro, non importa se percepito come immanente o trascendente, che dà alla vita un orizzonte più ampio.
Non so se Rav è d’accordo ma vedo una parentela molto forte fra assenza del sacro e tecnocrazia.
Non potendo guardare oltre i propri piedi, forse ci ritroviamo pieni di ansie e inermi di fronte alla possibilità della morte (il che è paradossale, perché a volte si finisce a soffrire molto più del necessario in stillicidi di vecchiaie solitarie). La durata della vita diventa di per sé un valore, anche a scapito della qualità.
Più ci si allontana dal sacro più si sente il bisogno di controllare tutto. Ma più si vuole controllare tutto, più, per non sbagliare, si delega ad esperti ogni più intimo aspetto della propria vita, fino a esserne totalmente dipendenti, totalmente in balia, incapaci di conoscere da sé la propria terra, di ascoltare da sé il proprio corpo, di correre senza le ginocchiere e senza il permesso: “Il sistema tecnologico produce degli individui dipendenti dalla tecnologia e dagli esperti”. Non sappiamo più fare nulla da soli. Terrorizzati, tanto da sentirsi quasi rassicurati dall’avvento di quella che Rav chiama, come si diceva, la modernizzazione senza democrazia: è la fiducia nella competenza stessa ora a dare Senso.
Tuttavia, ci sono e ci saranno sempre cose “che non sappiamo, che non sa nessuno, nemmeno gli esperti”, e anzi proprio ora è chiaro che ciò che si era accumulato sotto il tappeto sta per uscire fuori. Puntare tutto sulla sicurezza, è una scommessa persa in partenza.
Innegabilmente il benessere è aumentato e i fattori di rischio sono diminuiti moltissimo, ma di fronte al traballare di queste certezze ci ritroviamo in preda all’horror vacui. E siamo talmente privi di altri punti di riferimento, di altre possibilità di Senso, da ritorcerci contro gli “esperti”, come capri espiatori di ogni inaccettabile imprevisto.
II
Sono ancora aperte come un tempo le osterie di fuori porta
Ma la gente che ci andava a bere fuori o dentro è tutta morta
Qualcuno è andato per formarsi, chi per seguire la ragione
Chi perché stanco di giocare, bere il vino, sputtanarsi ed è una morte un po’ peggiore.
(Francesco Guccini)
Torniamo dunque agli esperti e arriviamo all’altra questione che mi sono posta leggendo Radical Choc e che è, diciamo, metaletteraria.
All’inizio del libro, Rav nota come l’élite di cui osserviamo il tramonto sia composta da una fascia sempre più ampia di “individui sempre meno privilegiati”, “con competenze sempre più approssimative”. Pochi, quindi, riescono a ottenere la posizione e la cassa di risonanza a cui aspiravano e cui solo qualche decennio fa, grazie a una minor concorrenza, si accedeva molto più facilmente. Riportando questo discorso alla fascia più specifica degli “intellettuali”, mi sono trovata a discutere spesso di questa percezione di calo di competenze e dello strano fenomeno che a mo’ di boomerang vi si produce attorno. Forse il problema non sta lì: certo, la formazione universitaria frammentata e molti altri elementi incidono negativamente, ma il mondo è sempre stato pieno di ottimi autodidatti, quindi qualche eccezione ci deve essere, come erano eccezioni i sapienti dei decenni e ancora più dei secoli scorsi. Perché non le vediamo, o ci sembrano particolarmente poche?
Autori come Carlo Ginzburg o Roberto Calasso possono mantenersi su alte vette perché nessun editor andrebbe ad accusarli di essere troppo ostici per il “pubblico medio” (Adelphi non lo direbbe a nessuno, ma non è questo il punto), mentre spesso a un giovane viene richiesto un linguaggio più pop, uno stile e un argomento abbastanza catchy e possibilmente di ammantare l’eventuale serietà del discorso con un velo di auto-narrazione. Così si corre il rischio (fra i pochi di cui non ci si preoccupa) che i pochi intellettuali “giovani” a cui viene lasciato spazio nel dibattito pubblico e televisivo siano proprio quelli che più si adattano, eventualmente anche per contrasto o provocazione, alla richiesta di essere “accattivanti”. Mi viene in mente sul tema un articolo del 2015 pubblicato dallo stesso Raffaele Alberto Ventura su minima&moralia intitolato “Che cosa abbiamo fatto per meritarci Diego Fusaro?”, in cui l’autore analizzava una delle diverse forme di questo fenomeno.
Eppure fra i cosiddetti “lettori forti” ce ne sono ancora alcuni disposti a spendere soldi, tempo e soprattutto concentrazione di buona qualità per immergersi in immaginari lontani e seguire ragionamenti anche di un certo peso specifico di autori riconosciuti come validi: longsellers di filosofia, sociologia, politica o antropologia (un Nietzsche o un Foucault) vendono ancora e autori come appunto Calasso o Ginzubrg fanno tirature nel loro genere e per questi tempi piuttosto alte, restando liberi di parlare di cacciatori celesti o stregoneria. Certo, si potrebbe rispondere, possono permettersi quelle vette perché sono già dei “nomi”: ma in gioventù non sono dovuti passare, pur di farsi conoscere, da saggi che abbinassero filosofia e ricette culinarie, e nemmeno da “montaggi semi-aleatori di un pugno di moduli argomentativi preconfezionati”.
Insomma: diverse migliaia di lettori in grado di comprendere un discorso che non si nasconda dietro l’autofiction o l’approssimazione dei concetti ci sono.
Allora perché non accordare più fiducia e maggior tiratura proprio a quelli, fra gli autori più “giovani” (ossia, genericamente, più giovani dei boomers: generazione che fu discretamente capace di discorsi rivoluzionari e tuttora di spessore, oltre che di auto-consacrarsi e di godere di una buona cassa di risonanza) quelli, dicevo, più capaci di acume, rigore e profondità, invece che condannarci da soli all’approssimazione?
Volendo restare sul concetto di rischio, allora in questo caso è chiaro che, se anche la società non collasserà da qui a pochi anni come suggerisce l’autore di Radical Choc, in ogni caso potremmo trovarci un giorno a rimpiangere voci complesse che possano ragionare su argomenti che saranno nuovi. Che è una morte un po’ peggiore.
C’è quindi da cercare fra le nostre fila dibattiti complessi e di alto livello, sapendo che compaiono – più spesso nelle riviste – penne “giovani” in grado di elevare il dibattito e che ci degnano di un rispetto tale da richiedere attenzione e concentrazione.